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mercoledì 21 luglio 2010

Il Nuovo Corso della Turchia
Cesare Merlini1
9/07/2010
È stato un bene che il Presidente Obama, in una recente intervista al Corriere della sera, abbia implicitamente corretto il suo ministro della difesa che pochi giorni prima, nel corso di una visita in Europa, aveva accusato gli europei di allontanare la Turchia dall’Occidente, negandole l’adesione all’Ue. La cosa più sbagliata che americani ed europei potrebbero fare è abbandonarsi a reciproche recriminazioni sulle responsabilità rispettive per i nuovi orientamenti della politica estera di Ankara, secondo la formula - who lost Turkey - in voga a Washington. È persona notoriamente cauta ed equilibrata, Robert Gates, che era capo del Pentagono già nella precedente amministrazione Bush – unico esito ancora reperibile dell’apertura fatta dal nuovo presidente a una gestione più bipartisan della cosa pubblica. E che il governo americano, indipendentemente dalla sua coloritura politica, fosse a favore dell’ingresso della Turchia nell’Unione europea era cosa arcinota. La preferenza degli Stati Uniti, del resto, è più che comprensibile, viste le enormi potenzialità per loro (e per tutto l’Occidente) di un tale sviluppo, anche se l’insistenza con cui è stata espressa è apparsa a volte eccessiva, come un omaggio generosamente offerto a carico di una carta di credito altrui (cioè degli europei).Nuovo corsoMa la tesi che le scelte autonome e spesso eclatanti, compiute di recente da Erdogan in materia di politica internazionale, siano conseguenza diretta della porta solo semiaperta – o semichiusa, ambiguamente semichiusa, diciamolo pure – lasciata dagli europei all’adesione della Turchia all’Ue, non resiste ad analisi anche sommaria. Davvero Gates pensa che avere un piede, o anche due, in Europa avrebbe portato il primo ministro turco ad ignorare la reazione della sua opinione pubblica, in particolare quella del suo partito, all’operazione “piombo fuso” condotta da Israele a Gaza nell’inverno 2008-09? È da lì che il “nuovo corso” di Ankara ha assunto visibilità, come hanno dimostrato il clamoroso incidente di Davos con Shimon Peres poche settimane dopo, e il sovrappiù di consenso domestico che Erdogan ne ha tratto. Ma esso risale a diversi anni prima, una delle novità essendo la crescente attenzione dei cittadini per i temi di politica estera, prima riservati, per tradizione, a un circolo ristretto ed elitario, comprendente il business e i militari – molto secolare ma poco democratico. E da Davos si arriva all’altro incidente, l’ultimo, quello della flotilla cosiddetta umanitaria, allestita con il sostegno del partito turco al potere e maldestramente e sanguinosamente fermata dalle forze speciali israeliane, prima che raggiungesse Gaza.Orbene, come ci si poteva aspettare, Obama ha detto al Corriere che “sarebbe saggio accettare la Turchia nell’Unione”. Ma ha anche aggiunto: “Riconosco che questo solleva sentimenti forti in Europa e non penso che il ritmo lento o la riluttanza europea sia il solo o il predominante fattore di alcuni cambiamenti d’orientamento osservati di recente nell’atteggiamento turco” (il corsivo è aggiunto). A Washington si dovrebbe riflettere sul fatto che i “cambiamenti d’orientamento” e i conseguenti avvenimenti sono anzi apparsi agli occhi di coloro che sono contrari da sempre all’allargamento dell’Ue alla Turchia, come una conferma ex-post sia dell’incompatibilità delle nuove logiche internazionali e regionali di Ankara con quelle dell’Ue, sia dell’incapacità dell’Unione (e dei suoi principali partner, già inclini alla cacofonia fra loro) di imporre una pur vaga disciplina comune alla media potenza turca. Responsabilità UsaPeraltro, chi in Europa cercasse argomenti per affermare che, al contrario, le principali responsabilità della deriva “eretica” turca si situano dall’altro lato dell’Atlantico, non avrebbe grande difficoltà a trovarne qualcuno. Per esempio: è probabile che Erdogan, nel fare assumere al suo paese a predominanza musulmana il complesso ruolo di collaborazione con Israele e di mediazione fra lo stato ebraico e i suoi nemici arabi, contasse sull’influenza moderatrice americana prima su Olmert e poi su Netanyahu, soprattutto dopo l’impegnativa svolta annunciata da Obama in questo senso. Ma i risultati finora appaiono molto deludenti, e non solo agli occhi della dirigenza turca. Il che giunge a riprova del fatto che a Washington la potenza della lobby ebraica tradizionale (non quella di J Street, per intenderci, sulla quale si erano appuntate molte speranze) resta condizionante.Ma ci sono altre lobby che esercitano influenza sul Congresso, contro le preferenze dell’amministrazione. Fra di esse quella degli armeni – ecco un secondo esempio – il cui agitarsi in favore di una risoluzione per dichiarare genocidio il massacro della loro etnia da parte dei turchi (un’ovvietà per la grande maggioranza degli storici, ma forse non un compito per maggioranze parlamentari, quando dalla tragedia è trascorso un secolo) è apparsa come arma ideale di risentimento offerta ai nazionalisti, che si opponevano all’altro complesso capitolo della politica di Erdogan, quello del dialogo con le minoranze interne al fine di cicatrizzare antiche piaghe nazionali. Ora, la tutela delle minoranze etniche è una delle condizioni pressantemente sollecitate dagli europei, come in generale la riforma costituzionale in senso democratico, oggetto di prossimo referendum. Realtà emergenteLa Turchia non è “persa”. È sbagliato affermare che il “fallimento [del negoziato di adesione alla Ue] significherà il ritorno a politiche nazionaliste e autarchiche, nonché alla continuazione delle violenza e dell’instabilità”, come fa Henry Barkey del Carnegie Endowment for International Peace, sulla rivista Survival (53-2, June-July 2010). Le economie emergenti oggi difficilmente sono inclini all’autarchia. Le cifre del primo quadrimestre 2010 parlano di una crescita turca dell’11,4%, seconda solo a quella della Cina. Il debito al 49% del Pil e il deficit che potrebbe scendere sotto il 3% già l’anno prossimo, rientrano nelle condizioni di appartenenza all’euro, mentre lo spread sui titoli pubblici è a 192 (194 in Italia e 980 in Grecia, tradizionale rivale). Ma soprattutto, gli scambi commerciali sono cresciuti con i vicini, cioè con l’Iran, l’Arabia Saudita e la Siria, oltre che con la Russia, primo partner, ma anche con Israele, malgrado le tensioni politiche. E le relazioni economiche con gli americani e gli europei sembrano destinate a restare sufficientemente robuste per natura – grazie allo spirito innovativo che non fa difetto ai turchi – anche in una situazione di minore “appartenenza” della Turchia all’Occidente.Sulle due rive dell’Atlantico condividiamo il desiderio che la democrazia, la laicità delle istituzioni e la separazione dei poteri dello stato crescano in Turchia, ma sempre di più in conseguenza della volontà della gente e sempre meno come requisiti per passare al metal detector dell’ingresso dell’Unione europea, che non è come un aeroporto in cui si entra, per poi prendere l’aereo che si vuole.E se dalla dinamica interna passiamo alla politica estera, il segnale che è venuto da Ankara con l’intesa raggiunta con l’Iran (e il Brasile!) sull’arricchimento dell’uranio iraniano (accordo di scambio solo un po’ più debole di quello prima negoziato dagli occidentali e dai russi e poi disconosciuto da Ahmadinejad) vuole proiettare la Turchia al livello di potenza emergente, non solo economica, che rivendica un ruolo regionale, indipendentemente dalle prospettive di adesione alla Ue e dall’appartenenza alla Nato. Ed è un segnale soprattutto per Washington.È questa la realtà, di cui Europa e Stati Uniti, invece di recriminare fra loro, dovrebbero prendere atto, avendo un comune interesse a definire una strategia ottimale verso questa nuova media potenza, collocata in una posizione chiave nello scacchiere al momento più ostico per l’Occidente.
(articolo tratto da Affari Internazionali)
Cesare Merlini è Presidente del Comitato dei Garanti, Istituto Affari Internazionali.

martedì 6 luglio 2010

Gli arichivi inglesi parlano
Da un documento conservato nei National Archives (HS/9/621/7) apprendiamo che, alla fine del 1940, Emilio Lussu (uno dei principali esponenti dell’antifascismo emigrato) entrava in contatto a Lisbona con un agente inglese, comunicandogli di «essere certo che un’organizzazione partigiana in Sardegna avrebbe creato una vasta azione insurrezionale contro il governo di Roma».La massa di manovra su cui contava Lussu doveva essere costituita dai quadri del Partito Sardo d’Azione, di cui era stato fondatore, «composti da ufficiali e sottoufficiali con una non comune esperienza militare formatasi alla Brigata Sassari che avevano servito ai suoi ordini durante la Grande guerra». Quei reduci, già impiegati durante il conflitto civile che, tra 1919 e 1922, avevano opposto i clan fascisti e antifascisti nell’isola, dovevano operare esclusivamente contro i reparti tedeschi, acquistandosi «il favore dell’esercito italiano che era prevalentemente formato da sardi». L’aspirazione autonomista, continuava Lussu, era diventata generale e in essa poteva riconoscersi l’intero antifascismo isolano. L’azione decisiva, con il concentramento di tutte le bande di guerriglia, sarebbe dovuta avvenire in occasione di una spedizione alleata, alla quale avrebbe fatto seguito «la presa del potere politico e la formazione di un governo provvisorio che avrebbe parlato a tutta l’Italia per spingerla a rovesciare il fascismo». Tra settembre e ottobre del ’41, Lussu raggiungeva Gibilterra e Malta, dove si abboccava con i responsabili dello Special Operations Executive, che dal luglio del ’40 era stato posto sotto il diretto comando di Churchill per organizzare, in tutti i territori controllati dall’Asse «operazioni di sabotaggio, propaganda sovversiva, scioperi, insurrezioni, a supporto della resistenza civile».La risposta alle offerte di Lussu era però tiepida. La freddezza del Soe era spiegabile sulla base di alcuni precisi fattori. In primo luogo, la «poca affidabilità politica di Lussu» e il timore che tra le sue bande si potessero infiltrare elementi del brigantaggio, che l’esponente antifascista definiva «banditismo d’onore». Poi, i reputati fallimenti collezionati dall’Inghilterra nel reclutare una «Legione Italiana» tra gli emigrati residenti negli Stati Uniti e tra i prigionieri detenuti in India. Infine, le condizioni alle quali Lussu subordinava il suo impegno e cioè l’assicurazione che, alla fine del conflitto, l’Italia potesse conservare le sue colonie e i confini stabiliti nel ’19. Inoltre, le trattative erano state negativamente influenzate dal rifiuto di Lussu di entrare a far parte del Soe, motivato dalla convinzione che «nessun esponente dell’antifascismo italiano avrebbe potuto accettare di divenire un agente inglese, mettendosi in questo modo al servizio di una potenza straniera».La situazione mutava a fine gennaio ’42, quando Lussu raggiungeva Londra, sotto lo pseudonimo di Meyer Grienspan, preceduto da un’informativa che lo qualificava come «una personalità di massimo prestigio destinato a intrattenere proficuamente rapporti con i nostri ministri e le più altre gerarchie militari». Durante i colloqui, avvenuti tra febbraio e giugno, Lussu ammorbidiva la sua posizione, rinunciando alla speranza di mantenere sotto sovranità italiana il Dodecanneso e la Cirenaica. La sua richiesta si limitava, ora, a domandare che le risoluzioni di Londra su questa materia restassero segrete «per evitare la contrapposizione col Regio Esercito del quale vorrebbe garantirsi l’appoggio o quanto meno la certezza che esso non spari sui civili al momento della rivolta». Da quel momento Lussu prometteva di cooperare strettamente col Soe non solo in Sardegna, ma anche «nell’Italia centrale e meridionale», purché venisse fornita al suo partito «l’assicurazione politica di potersi diffondere su tutto il territorio nazionale».
Benché il Soe nutrisse la più ampia fiducia nel successo del colpo di mano orchestrato da Lussu, battezzato Operation Postbox, le trattative non arrivarono a nessuna conclusione e l’ardimentoso capitano della Brigata Sassari lasciava Londra con la magra promessa che il gabinetto britannico avrebbe continuato a prendere in considerazione il programma di un’invasione della Sardegna. Nella riunione del War Cabinet del 20 novembre ’42 Churchill considerava, infatti, come obiettivo indispensabile l’occupazione dell’isola, non però per costituirvi un santuario antifascista, ma per farne una grande portaerei terrestre dalla quale scatenare la strategia del moral bombing contro le città italiane del versante tirrenico, compresa Roma. Dimostrandosi del tutto scettico sulla possibilità di veder nascere una rivolta contro il regime di Mussolini, l’inquilino di Downing Street era persuaso che solo l’arma del terrore avrebbe potuto costringere l’Italia alla resa, colpendo il suo popolo il quale «se avesse continuato a percorrere la via del Fascismo avrebbe dovuto sopportare tutte le punizioni e le calamità che si riservano ai vinti».Eppure il programma di Lussu, relativo alla possibilità di scatenare una rivoluzione nel Supramonte, continuava a interessare il Regno Unito, a condizione di poterla trasformare da sollevazione autonomista in rivolta separatista, in modo da fare della Sardegna una nuova gemma dell’Impero Britannico. Non casualmente il Foreign Office aveva elaborato nel ’42 un approfondito studio su questa ipotesi, incentrato sull’«attitude of Sardinia towards Italian rule». Né solo accidentalmente la prima bozza del Trattato di pace con l’Italia, formulata da Anthony Eden, il 5 luglio ’45, insisteva sulla necessità di sottoporre Pantelleria, Lampedusa, Linosa al mandato delle Potenze vincitrici, in attesa forse di incorporare la Sicilia e l’«Isola dei Sardi» nei domini del Commonwealth.eugeniodirienzo@tiscali.it