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L'UNUCI per l'Umbria

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giovedì 31 ottobre 2013

Cefalonia VII. "Ribellarsi al generale"

(prosegue la pubblicazione della ricostruzione degli eventi di Cefalonia iniziata il 25 maggio u.s.)

I TRE PUNTI

All’alba dell’11, un incidente: ad un “tre alberi” italiano, che si stava spostando nella rada di Argostoli, la batteria dei semoventi tedesca, sospettando che il veliero tentasse la fuga, sparò contro alcuni colpi di monito.
Poche ore dopo, un fatto grave: la diffusione di foglietti volanti che invitavano i soldati a “ribellarsi al Generale”. I manifestini terminavano con la scritta “Unione Ufficiali Italiani Antifascisti”. Chi ne era l’autore? “Da indagini eseguite più tardi – dice il capitano Apollonio – risultarono stampati nella tipografia greca dell’EAM di Cefalonia. Erano scritti in un italiano del tutto sgrammaticato”.
I sospetti cadono pertanto sulla propaganda greca, la quale, naturalmente,più che ad una soluzione onorevole, era interessata a porre in conflitto armato italiani e tedeschi.
Certo è che la distribuzione dei manifestini segnò l’inizio del dualismo, che si acuirà sempre più nei giorni seguenti, fra le truppe e il generale comandante e cominciarono, da quel momento, a circolare senza ritegno le parole “traditore” e “tradimento”.
Nel pomeriggio, altro incidente più significativo.
Un gruppo di tedeschi con un semovente da 75 si trasferì al porto e qui giunto puntò  il pezzo contro un dragamine con l’evidente intenzione di neutralizzare, all’occorrenza, l’azione di due mitragliere da 20 istallate a bordo del natante.
“Il nostro sottotenente comandante la sezione – riferisce il capitano Apollonio – levati gli otturatori alle mitragliere venne subito presso di me, ed io, col tacito consenso del col .Romagnoli, apprestai due autocarri di volontari armati e mi recai al porto per  recuperare i due pezzi. Le due mitragliere vennero trasportate nel caposaldo del capitano Pampaloni. Nel mentre gli autocarri attraversavano la città di Argostoli, la popolazione greca, che aveva seguito l’avvenimento, fece un’entusiastica manifestazione che commosse e nello stesso tempo eccitò gli animi dei soldati”.
Nello stesso pomeriggio, un sottotenente del 17° fanteria si recava in autocarretta ad Ankonas con l’incarico dal proprio comando di farsi restituire dai tedeschi due moschetti che questi avevano tolto il giorno prima  a due nostri soldati. I tedeschi catturavano l’autocarretta e disarmavano l’ufficiale e la truppa.
La sera, giungevano da Santa Maura, dopo molte peripezie. Alcuni nostri soldati “portando la triste notizia che il presidio di quell’isola aveva ceduto le armi ai tedeschi ed era stato avviato verso i campi di concentramento nelle zone malariche di Missolungi”.
Aumentavano intanto le iniziative personali, specie fra gli ufficiali del reggimento di artiglieria.
Nel caposaldo del capitano Pampaloni “a due ufficiali greci che offrivano la collaborazione di un battaglione greco furono fornite armi e munizioni e furono impartite direttive sulla condotta da seguire nei giorni successivi”.
Alla batteria del capitano Apollonio affluivano in gran numero soldati che volevano combattere. “Marinai, guardie di finanza, carabinieri, fanti venivano suddivisi in squadre e ad ognuno era assegnato un compito. Si svolsero scene di commovente patriottismo”.
“Passai la notte intera – dice il capitano Apollonio – in giro fra i vari reparti. Tutti erano pronti. Patrioti greci e soldati accorrevano a me offrendosi per sopprimere il generale. Mi opposi per varie ragioni. Ma sin da quel momento decisi che bisognava agire senz’altro di iniziativa. Mi tratteneva soltanto il fatto che i due comandanti dei battaglioni di fanteria, il secondo del 17° ed il terzo del 317°, non erano ancora propensi all’azione”.
Nei battaglioni di fanteria infatti – sebbene “il fermento fra i soldati crescesse in maniera impressionante” – nessun ufficiale, a tutto il giorno 11, aveva ancora preso iniziative contrastanti con gli ordini dei propri comandi.
Frattanto, nelle prime ore del mattino, quasi contemporaneamente all’incidente del veliero nella rada, giungeva al comando della divisione – trasmessa dal ten. col. Barge – la risposta del comando superiore tedesco alle proposte formulate dal gen. Gandin la sera prima.
Le richieste del generale erano, in linea generale, tutte accolte; salvo ulteriori trattative sui particolari esecutivi.
Il comando superiore tedesco, poiché doveva subito assumere, in sostituzione degli italiani, la difesa di Cefalonia, prospettava la necessità che tutta la “Acqui” lasciasse la costa e si trasferisse all’interno dell’isola: per zona di raccolta si suggeriva la conca di Valsamata. Il comando della divisione, col quartier generale, si sarebbe potuto trasferire a Samos.
La comunicazione, però, così finiva: il comando tedesco desidera chiaramente conoscere l’atteggiamento che la divisione “Acqui” intende di assumere in questa situazione. Il generale deve quindi esplicitamente optare per uno di questi tre punti: a favore dei tedeschi – contro i tedeschi – cessione delle armi. Termine per la risposta: ore 19 dello stesso giorno.
“Questa lettera, - commenta il capitano Bronzini – per quanto non redatta in termini ostili, costringe il generale a dare quella definitiva risposta che era riuscito finora ad evitare.”
“Un’ora grave pesa su tutti noi”.
Subito dopo tale comunicazione, il gen. Gandin chiamò a rapporto tutti i comandanti di corpo e di servizi della divisione.”
Il generale – testimonia il capitano Bronzini – pose la questione nei seguenti termini: il primo punto è in contrasto con il giuramento al Re e costituisce una violazione dell’armistizio. Il terzo è disonorevole. Del secondo, volendolo adottare, quali saranno le conseguenze?”
La riunione durò a lungo, quasi tutta la mattina: ma purtroppo nessuna traccia è rimasta di quanto fu discusso.
“Non si arrivò ad una chiara conclusione – dice il predetto capitano – ma, come nel rapporto precedente, insistettero per la cessione delle armi la grande maggioranza dei convenuti, manifestandosi contro solo il comandante di Marina , Mastrangelo, ed il colonnello di artiglieria, Romagnoli”.
Dopo il rapporto dei comandanti, il gen. Gandin decise di sentire il parere dei cappellani della divisione.
“La conoscenza che essi hanno della truppa – commenta lo stesso capitano Bronzini – per il quotidiano e più libero contatto con essa, nonché la serenità del loro giudizio, sono elementi che il generale, in sì grave situazione, non poteva trascurare”.
I cappellano giunsero al comando alle ore 18 circa.
Quanto si svolse durante questa riunione è invece largamente descritto da padre Romualdo Formato, il quale dice: “andiamo al rapporto pensando che il generale voglia esortarci ad identificare la nostra opera sacerdotale per tenere alto fiducioso e sereno l’animo della truppa in una contingenza così estremamente critica e ripetiamo fra noi: se il generale riuscisse a mantenere senza incidenti lo stato di reciproca cordialità con le truppe tedesche bisognerebbe fargli un monumento d’oro.”
“Tanto siamo lontani dall’immaginare quale ingrata sorpresa ci attende, quale grave parere siamo chiamati a proferire”.
Il generale è pallido, ritto dietro al suo tavolo.
“Incomincia così:
“Dopo i comandanti di corpo, ho voluto chiamare anche voi”.
“Voi siete sacerdoti, ministri di Dio”.
“Voi conoscete l’animo del soldato e potete essermi preziosi in questo momento”.
“Questo momento è quanto mai tragico per me e per la mia divisione”.
“Ho sulla coscienza la responsabilità della vita di oltre diecimila figli di mamma”.
“La vita di tutti questi ragazzi può essere messa a repentaglio dalla decisione che sto per prendere”.
“Un ultimatum del comando tedesco di Atene mi invita a decidermi su uno dei seguenti punti: continuare la lotta accanto ai tedeschi; combattere contro i tedeschi; cedere le armi”.
“Premetto che siamo legati davanti a Dio e davanti alla Patria da un giuramento di fedeltà alla Maestà del Re. Non sarò io a ricordare ai sacerdoti che il giuramento è un atto sacro col quale chiamiamo Iddio stesso a diretta testimonianza di quanto affermiamo e promettiamo. Il nuovo legittimo Governo del re ha firmato un armistizio. Non possiamo dunque più impegnare le armi contro il nemico di ieri.
«Dall’altra parte, perché, senza grande motivo e provocazione, rivolgere le armi contro un popolo che ci è stato alleato per tre anni combattendo la nostra stessa g e condividendo i nostri stessi sacrifici?
«Resta la soluzione di cedere pacificamente le armi.
«Mi hanno assicurato che si tratterebbe soltanto delle armi pesanti, le quali ci sono state date quasi tutte dai tedeschi stessi.
«Ma questo atto della cessione non viola forse lo spirito dell’armistizio e, per conseguenza, non verremmo egualmente meno al giuramento di fedeltà al Re?
«E ancora: dove se ne andrebbe, cos’ facendo, l’onore delle armi, che è la cosa più cara al soldato e ad un esercito sfortunato ma pur glorioso qual è l’italiano?
«Eppure, su uno di questi tre punti devo decidermi.
«Riflettete che, se dovesse verificarsi un conflitto armato contro i tedeschi, numerosi e forti come siamo in quest’isola, avremo, in una prima fase, il sopravvento. Ma non dimentichiamo che dietro di noi, sul vicino continente greco, ci sono oltre 300 mila tedeschi, certamente decisi qui con uomini e materiali. Essi possono lanciare sull’isola le loro squadriglie di «Stukas» e massacrarci indisturbatamente. La truppa, allora, combatterebbe di buon animo? Resisterebbe, indifesa, sotto i bombardamenti aerei?
«Tenete presenti queste osservazioni e siccome ho poco tempo a disposizione –sono le 18 ed il comando tedesco vuole la risposta per le 19- ciascuno di voi, senza perdersi in inutili discussioni, mi dichiari il suo parere significando quali dei tre punti sente di potermi in coscienza suggerire come minore male».
«Eravamo in sette: tutti, eccetto uno, ci pronunciammo per il terzo punto.
«Il generale ci congeda e conclude:«Pregate Iddio perché mi assista in una ora così importante per la divisione  e così tragica per la mia coscienza».
«Ci ritiriamo.
«Evitiamo di parlare con gli ufficiali che affollano i corridoi e desiderano notizie.
«Appena sulla strada, ci guardiamo in viso stupefatti, trasognati. Decidiamo di recarci nel vicino Istituto delle Suore Italiane. Sostiamo a pregare dinanzi al Crocefisso. Poi ci riuniamo nel salone, esaminiamo ogni lato della situazione, ne discutiamo a lungo: dobbiamo convincerci che, tutto considerato, è un imperioso dovere quel consiglio che abbiamo già suggerito.
«Immediatamente scriviamo e facciamo recapitare al generale la seguente lettera:
«Signor Generale, appena usciti dal vostro ufficio, ci siamo recati in Chiesa ad invocare l’aiuto di Dio e ci siamo nuovamente riuniti nel salone dell’Istituto delle Suore Italiane. Abbiamo, con maggiore calma, esaminato e ponderato quanto voi ci avete esposto ed il parere che ciascuno di noi ha creduto, in coscienza, di darvi in un momento così grave. Abbiamo dovuto, questa volta all’unanimità, nuovamente constatare che il nostro consiglio non poteva essere che quello che vi abbiamo schiettamente espresso. Per evitare un lotta cruenta e forse impari e fatale contro l’alleato di ieri, per tenere fede al giuramento di fedeltà alla Maestà del Re (giuramento che, come voi stesso ci avete ricordato, è un atto sacro, col quale si chiama Dio stesso a testimonianza della parola data) e, infine, e soprattutto, per evitare un inutile spargimento di sangue fraterno, signor Generale, altra via non c’è. Non resta che cedere pacificamente le armi.
«Dinanzi al tenore dell’ultimatum germanico, voi, signor generale, isolato da tutti, impossibilitato di mettervi in comunicazione coi superiori comandi di Grecia e d’Italia e di ricevere ordini precisi, voi vi trovate nella ineluttabile necessità di dover cedere ad una dura imposizione per evitare l’inutile supremo sacrificio dei vostri ufficiali e dei vostri soldati.
«Siamo profondamente compresi della gravissima responsabilità che in questo tragico momento pesa sul vostro animo.
«Ora, più che mai, i vostri cappellani si sentono strettamente uniti a voi. Contate sul nostro devoto affetto, sulla nostra opera, e soprattutto sulla nostra preghiera.
«Da Dio invochiamo infatti luce al vostro intelletto e conforto al vostro cuore. Egli vi protegga e vi benedica, signor generale! E benedica, con voi, la vostra famiglia lontana e la vostra amatissima divisione.
«I vostri cappellani: P. Romualdo Formato – Don Biagio Pellizzari – Don Angelo Ragnoli – Don Mario di Trapani – P. Duilio Capozzi – P. Luigi Gherardini – P. Angelo Cavagnini».
Alle ore 19 il ten. Col. Barge si presentò al comando per la risposta.
Il generale chiese una dilatazione fino al mattino del giorno seguente.
Il colonnello tedesco ritornò a Liguri, si pose in comunicazione col proprio comando, ritornò subito dopo dichiarando che la dilazione era stata accordata.
Ma nella sera e durante la notte continuarono i colloqui del generale col comandante tedesco.
Il generale ribadì le sue intenzioni: la cessione delle armi sarebbe avvenuta nella misura e con le modalità precedentemente accordate. I reparti sarebbero rimasti schierati sulle attuali posizioni fino al giorno della partenza per l’Italia. A Cefalonia sarebbero state lasciate le sole artiglierie; l’armamento della fanteria sarebbe stato invece consegnato ai germanici a rimpatrio avvenuto.
Testimonia il capitano Bronzini: «il generale Gandin richiamò l’attenzione del ten. col. Barge su altre importanti questioni. Dall’8 settembre, ad esempio, il presidio tedesco di Liguri riceveva giornalmente rinforzi portati da aerei da trasporto (in media, due o tre al giorno) o con zattere via amre. Ciò poteva essere interpretato come atto di ostilità verso di noi, che invece stiamo dimostrando cameratesche intenzioni verso i tedeschi. Era dunque necessario che, in attesa di un accordo definitivo, sia da una parte che dall’altra ci si astenesse dal fare movimenti di truppe. I tedeschi inoltre avevano, negli ultimi due giorni, trasferito ad Argostoli, dove già c’era la loro batteria semoventi, circa una compagnia di fanteria: movimento ingiustificato. Da chi ordinato? Infine, il gen. Gandin, per dare una sicura prova delle sue buone intenzioni, dichiarò che era disposto a ritirare da Kardakata il battaglione di fanteria che presidiava questa località.
«Kardakata era una posizione chiave, il cui possesso significava il dominio della penisola di Liguri. Ed il generale Gandin non voleva che l’occupazione italiana di questa località fosse interpretata come minaccia od atto ostile verso i tedeschi.
«Né era opportuno – ai fini della soluzione pacifica della questione- tenere a Kardakata, a stretto contatto col presidio tedesco di Ankonas, truppe italiane che si andavano di ora in ora sempre più elettrizzando.
«Col ten. col. Barge, che si diceva autorizzato dal suo comando a trattare la cosa, il gen. Gandin stabilì, pertanto, quanto segue: - il comando della divisione avrebbe subito ritirato da Kardakata il battaglione di fanteria; - il comando tedesco si impegnava di non inviare più rinforzi ed a non far più movimenti di truppe in Cefalonia fino a quando fossero durate le trattative e si fosse giunti ad un accordo definitivo. Qualora tali impegni non fossero stati dal comando tedesco rispettati, il comando della «Acqui» avrebbe dovuto senz’altro agire secondo le direttive governative dell’8 settembre».
Mentre si svolgevano queste trattative, core voce (molto probabilmente portata dai militari di Santa Maura) che il Governo italiano fosse a Bari e il Comando Supremo a Bari od a Brindisi.
Il gen. Gandin volle allora fare ancora un tentativo di collegamento attraverso il radio ponte di Corfù. Fu quindi redatto, e trasmesso cifrato dalla stazione della Marina, un radiogramma diretto al Comando Supremo. In esso, veniva esposta la situazione dell’isola e data notizia del radiogramma del comando dell’IIª armata che aveva ordinato la cessione delle armi ai tedeschi. Si chiedeva infine se detto ordine, forse apocrifo, e comunque in contrasto con le direttive del Governo, dovesse o meno essere eseguito.
Il tentativo, come vedremo, ebbe fortuna.
 (chi desidera uleriori approfondimenti scriva a: ricerca23@libero.it; chi non desidera ricevere ulteriori post da questo blog scriva a studentiecultori2009@libero.it)

mercoledì 16 ottobre 2013

Italia: il dibattito sulla difesa

Difesa
F35, il beneficio del dubbio 
Giovanni Faleg, Alessandro Giovannini
7/31/2013
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Se il Parlamento avesse approvato la mozione del Movimento 5 stelle, M5S, e Sinistra Ecologia e Libertà, Sel, contro la partecipazione dell’Italia dal programma Joint Strike Fighter, F35 - il velivolo multiruolo realizzato grazie alla cooperazione tra gli Stati Uniti e diversi paesi europei - il nostro paese avrebbe buttato al vento quindici anni di investimenti. L’Italia si sarebbe privata di importanti ritorni nel medio-lungo periodo, non solo dal punto di vista della difesa, ma anche da quello economico ed industriale.

Tuttavia, la spesa avviene a fronte di una delle peggiori congiunture economiche che il Paese ricordi dall’inizio del secolo scorso. Il “sì” agli F35 è, e continuerà ad essere, altamente impopolare. Sarebbe stato quindi opportuno, in sede parlamentare, prendere maggiormente in considerazione le ragioni politiche di un “no” al programma.

Numeri oltre l’ideologia
I “numeri” e le considerazioni tecniche, riassunti anche da precedenti articoli su “AffarInternazionali”, aiutano a comprendere la bocciatura della mozione presentata dal M5S e Sel. Il programma JSF è un investimento pluridecennale e non una “semplice” spesa di tipo corrente. Nel commentare e analizzare il progetto è quindi fondamentale considerare la struttura e il ritorno dell’investimento e non unicamente l’ammontare del costo totale, com’è accaduto durante il dibattito politico.

Se, infatti, il costo complessivo è pari a circa 14 miliardi di euro, per il 2012 i costi stimati erano pari “solamente” al 3% di tale somma (ovvero 548.7 milioni). Questo 3% è stato destinato alla conclusione della fase di progettazione del programma e alla realizzazione, presso la base dell’Aeronautica militare di Cameri, di una linea di assemblaggio finale, manutenzione e aggiornamento, l’unica al di fuori degli Stati Uniti.

La rinuncia al finanziamento del progetto JSF in questa fase avrebbe pertanto vanificato i passati sforzi e risorse (circa 1 miliardo) impiegati nella lunga fase di progettazione e sviluppo, rendendo potenzialmente inutile un sito di 124 mila metri quadrati appena costruito (e costato 800 milioni), che darà lavoro a 1.816 dipendenti. Avrebbe inoltre portato all’interruzione di ogni attività produttiva sui velivoli militari entro fine decennio, senza risolvere il problema della sostituzione dei vecchi AV8B con nuovi caccia.

La maggior parte dei costi (circa 10 miliardi) saranno sostenuti in futuro per l’acquisizione dei velivoli e per il supporto logistico. Si tratta di circa 900 milioni l’anno, un ammontare che rende più che lecita la persistenza di forti dubbi da parte dei contribuenti.

Il fronte del “no” all’arrembaggio
A fronte di questi dubbi legittimi, il dibattito politico ha clamorosamente fallito. Non è entrato nei dettagli della partecipazione italiana al programma, le cui ricadute industriali ed economiche sono molto complesse. La mozione sugli F35 mostra anzi la voragine che continua a separare i cittadini dai rappresentanti in Parlamento.

Il “fronte del no” ha cavalcato in tono populista i dubbi dei contribuenti, paragonando in modo inesatto il costo complessivo dell’investimento con le manovre fiscali improntate all’austerità di questi ultimi anni. Si è perso in proposte marziane di disarmo del Paese e folate di anti-americanismo hippie. Il risultato è stata quindi la strumentalizzazione di un dibattito che doveva analizzare cautamente l’interesse industriale e le implicazioni tecniche per le forze armate.

Chi si è espresso in favore della partecipazione italiana al programma ha invece addotto motivazioni convincenti, ma limitate a una visione troppo settoriale dell’interesse nazionale. La difesa è, senza dubbio, il cuore della sovranità statale e l’industria che la sorregge uno dei settori più forti della nostra economia.

Tuttavia ogni scelta può essere rivista alla luce delle priorità che si vogliono affermare. Un dibattito più completo avrebbe dovuto affrontare non solo le eventuali alternative (ove esse esistano) sia in termini di costo che di efficacia, ma anche le conseguenze - politiche e strategiche - di una eventuale rinuncia a qualsiasi ammodernamento (ove, come è probabile, le alternative si rivelassero inefficaci e altrettanto se non più costose) e il reale impatto - positivo e negativo - in termini economici ed industriali, delle scelte possibili.

In altri termini sarebbe stato forse utile un dibattito serio e approfondito, a partire dalla valutazione dello stesso modello di difesa italiano, senza il quale le attuali polemiche e prese di posizione appaiono piuttosto appese in aria.

Politica non all’altezza delle sfide 
Il problema della decisione politica sugli F35 non è quindi nella scelta in sé, quanto piuttosto nel modo in cui si è sviluppato il dibattito che ha condotto a tale decisione, sintomo preoccupante dell’immaturità politica del nostro paese.

Nessun paese europeo, a fronte della crisi finanziaria, potrebbe affrontare spese di questo tipo senza far fronte a un’inevitabile e legittima levata di scudi da parte dei cittadini. È responsabilità dei rappresentanti in Parlamento contenere lo scontento e prendere decisioni nell’interesse generale.

L’assenza di un ragionato e non-ideologico “no”, capace di tutelare l’industria aerospaziale e della difesa, sia sotto il profilo occupazionale che tecnologico, deve fare riflettere. La difesa italiana è a rischio di perdere le necessarie capacità operative nei prossimi anni. Se dal dibattito politico non emerge una visione di lungo periodo, le conseguenze negative socio-economiche potrebbero andare ben oltre quelle legate agli F35.

Giovanni Faleg è ricercatore dello IAI; Alessandro Giovannini è Associate Research Assistant al Centre for European Policy Studies.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2382#sthash.imt6HYa6.dpuf

giovedì 3 ottobre 2013

Conferenza: L'armistizio dell'8 settembre 1943 Salvare il Salvabile



Il Presidente della Sezione Unici di Spoleto,  Gen. Ing. Antonio Cuozzo presenta il Conferenziere
 Nella Sala delle Conferenze della Sezione Unici di Spoleto, Massimo Coltrinari, lo scorso 26 settembre 2013, ha tenuto una conferenza sul tema L'Armistizio dell'8 settembre 1943 Salvare il Salvabile alla presenza di numerosi soci della Sezione e di altri invitati, tra cui il partigiano Loreti ed il presidentete della Sezione dell'Ampi di Foligno Giovanni Simoncelli.
Per ulteriori note sul volume vedi:www.storiainlaboratorio.blogspot.com
I temi trattati sono stati tratti dal volume "Salvare il Salvabile" pubblicato a doppia firma da Massimo Coltrinari con interessanti note in merito a questa controversa pagina della nostra storia recente.
Aggiungi didascalia
 La conferenza si è conclusa dopo un interessante dibattito e numerose domande tra il Conferenziere ed esponenti del pubblico intervenuti.

Di seguito alcune immagini del bellissimo incontro, organizzato dal Presidente Gen. Ing. Antonio Cuozzo.