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L'UNUCI per l'Umbria

Il Volume "La Divisione "Perugia" Dalla Tragedia all'Oblio" è disponibile in tutte le librerie. ISBN 886134305-8, Roma, 2010, Euro 20,00 pag. 329.



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lunedì 21 novembre 2011

Polacchi in Italia

ACCADEMIA POLACCA DELLE SCIENZE
 CENTRO DI STUDI A ROMA

invita alla conferenza di

Prof. Jerzy Adam RADOMSKI
sul tema

I soldati del II Corpo d’Armata polacco
del Generale Władysław Anders
alle università italiane negli anni 1945-1951




la conferenza sarà preceduta  dalla presentazione del libro di
Cristina MARTINELLI
“Salento d’altre storie”, Ed. Grifo 2011

introduce Ijola Hornziel Martinelli
la presentazione in collaborazione con Associazione Italo-Polacca di Roma (AIPRO)


Martedì, 22 novembre 2011, alle ore 18.30
presso il Centro di Studi dell’Accademia Polacca delle Scienze a Roma, vicolo Doria, 2 (Piazza Venezia)
R.S.V.P. tel.: 06.6792170 fax: 06.6794087 E-mail: accademia@accademiapolacca.it

venerdì 11 novembre 2011

Conferenza 16 novembre 2011 nel 150° anniversario dell'Unità d'Italia

Mercoledi 16 novembre alle ore 17 presso la sede dell'UNUCI di Spoleto, Massimo Coltrinari terrà una conferenza dal tema
Il 150° anniversario dell'Unità d'Italia.
 La questione agraria: una questione che ha segnato la nostra storia unitaria 
Il sillabus della conferenza è il seguente:

La spedizionde dei Mille: il confronto tra moderati (Cavour) e democratici e prgressiti ( Mazzini e Garibaldi).
Andrea Costa e la nasciat del socialismo. La tassa sul macinato
Bava Beccaris e le rivolte di Milano del 1996
Il regicidio del 1900
La Settimana Rossa del 1914 ad Ancona e nelle Romagne Mussolini socialista e Nenni repubblicano
L'11 novembre 1917: la fima di una cambiale. Il proclama del re alle Truppe
Il 1922. La marcia su Roma. La cambiale disattesa. la rivolta degli agrari e l'arrivo dell'uomo della provvidenza
Il 1943. la crisia rmistiziale, la guerra di liberazione la fine della guerra la scelta istituzionale
La repubblica e la soluzione della questione agraria.







lunedì 19 settembre 2011

Napoleone: la fase iniziale della seconda cmapagna d'Italia

Storia Militare III


Une armée n’est rien que par la tête ( )






Storia MIlitare III


Luigi Manfredi


Anche nella seconda campagna risalta, prima ancora che l’aspetto tattico, la grande intuizione strategica. Bonaparte, Primo Console, costituì in brevissimo tempo un’armata di riserva a Digione, valicò le Alpi dove nessuno lo aveva immaginato possibile, aggirò l’intera armata austriaca protesa dal Piemonte verso la Provenza sull’onda dei successi ottenuti l’anno precedente, realizzando così la sorpresa non solo in campo tattico ma addirittura strategico. Battè infine l’armata austriaca al comando del feldmaresciallo von Melas a Marengo (14 giugno 1800).


Marengo non fu però il capolavoro di Bonaparte che egli si sforzò di far credere, in verità riuscendoci. Tanto fu brillante la manovra che condusse l’armata francese nella pianura padana alle spalle degli austriaci quanto la condotta dello scontro di Marengo fu miope. Napoleone errò nella valutazione delle intenzioni del nemico e disperse le forze. Il Corpo di Desaix solo fortunosamente ritornò in tempo sul campo di battaglia.



La battaglia di Marengo non consentì l’annientamento dell’Armata di von Melas, lasciò i contendenti alla sera del 14 giugno sulle stesse posizioni sulle quali si trovavano al mattino, indebolì quasi nella stessa misura austriaci e francesi. Fu vinta da Bonaparte solo perché il Comandante in capo austriaco non trovò di meglio che arrendersi spontaneamente. Marengo non pose termine alla guerra che sarebbe terminata solo a febbraio dell’anno successivo (Pace di Lunéville), dopo la vittoria, questa sì determinante, del Generale Moreau a Hohenlinden nel dicembre del 1800.



Il felmaresciallo von Melas accumulò sbagli su sbagli:



• perse l’occasione di occupare la Provenza in primavera;

• sottovalutò l’Armata di riserva e non averla bloccata sulle Alpi;

• disseminò l’Armata in Piemonte e in Lombardia;

• accettò lo scontro invece di portarsi verso Mantova o Genova;

• suddivise la propria cavalleria, che era un punto di forza determinante;

• non effettuò ricognizioni sul terreno, pur avendo preso l’iniziativa;

• costituì colonne d’attacco “ad hoc” smembrando reparti organici;

• informò scarsamente i Comandanti in sottordine sul piano d’operazioni;

• non motivò i reparti alla vigilia della battaglia;

• abbandonò al nemico il giorno 13 sera proprio l’area di Marengo che il giorno dopo fu costretto a riconquistare a caro prezzo.



A Marengo anche Bonaparte non fu però immune da errori:

• non individuò a tempo le intenzioni offensive degli austriaci;

• distaccò tre Divisioni (Desaix e Lapoype) in inutili esplorazioni;

• non perseguì l’annientamento dell’Armata austriaca.

sabato 17 settembre 2011

Napoleone ed i principi dell'arte della Guerra

Storia Militare II


La fase iniziale della prima campagna d’Italia

Luigi Manfredi

Nel 1796 durante la guerra contro la prima coalizione (Inghilterra, Austria, Piemonte) il Direttorio riteneva che il fronte principale fosse a nord delle Alpi e considerava le operazioni dell’Armata d’Italia secondarie e destinate solo a fare cassa nella ricca Italia.

L’offensiva di Bonaparte ribaltò la gravitazione degli sforzi e le sue brillanti vittorie furono la dimostrazione della bontà della sua strategia. Contravvenne anche alle direttive del Direttorio che intendeva salvaguardare il Piemonte dei Savoia mentre egli volle neutralizzarlo e costringerlo a una pace separata. Partendo da Nizza arrivò quasi alle porte di Vienna. La sua genialità rifulse nella prima parte della campagna, quando aveva di fronte ancora le due armate piemontese ed austriaca.

Contro due armate, una austriaca di 40.000 uomini al comando del feldmaresciallo Beaulieu e una piemontese di 42.000 uomini al comando del feldmaresciallo Colli, avendo a disposizione 47.000 uomini in pessime condizioni, facendo leva sulla disciplina ma anche sulla promessa di onori e di bottino, riuscì a galvanizzare una truppa sfiduciata, senza soldo, senza viveri e senza scarpe, a separare le due armate, battere la piemontese costringendola, dopo appena un mese dall’inizio delle ostilità, all’armistizio di Cherasco e proseguire poi contro gli austriaci. Fu certo aiutato in questo dalla mancanza di cooperazione tra gli avversari che fecero a gara per farlo vincere.

In sintesi, gli austriaci e i piemontesi commisero errori esiziali:

• operarono con obiettivi divergenti (salvare Torino e salvare Milano) ed esclusivamente in difensiva;

• non strinsero un patto di comando unico;

• disseminarono le forze (doppie dei francesi);

• non coordinarono operazioni di soccorso reciproco;

• non sfruttarono successi locali, che pur ci furono.

Bonaparte non fece invece praticamente errori e l’offensiva che condusse all’armistizio di Cherasco fu una guerra lampo “ante litteram”.

martedì 6 settembre 2011

Storia Militare I

Une armée n’est rien que par la tête ( )


Napoleone ed i principi dell’Arte della Guerra
di Luigi Manfredi

Napoleone a Sant’Elena affermò, conscio delle sue eccezionali qualità, che anche dopo la sconfitta di Waterloo di lui si sarebbe parlato in futuro mentre invece i suoi avversari sarebbero stati dimenticati. Anche in questo la sua intuizione è stata esatta: pare che su Napoleone Bonaparte siano state scritte più opere che su qualsiasi altro personaggio storico.
Napoleone aveva sicuramente assimilato la teoria dell’arte della guerra sin dai tempi della scuola di Brienne, alla quale l'aveva iscritto il padre e, soprattutto, alla scuola militare di Parigi, dove però i risultati negli studi non furono brillanti: diventò infatti sottotenente di artiglieria classificandosi tra gli ultimi del suo corso.
Ciò peraltro non deve stupire se si pensa che Napoleone era un piccolo nobile di una provincia d'oltremare, la Corsica, in mezzo ai più noti rampolli della grande nobiltà francese che lo prendevano in giro per la sua pelle olivastra e la scarsa conoscenza del francese. Anche allora probabilmente non era estraneo il principio della raccomandazione.

Inoltre, non si deve dimenticare che Napoleone Buonaparte (così si chiamava fino al marzo del 1796, quando francesizzò il proprio nome in Bonaparte) non padroneggiava la lingua francese come i suoi compagni di scuola ed eccelleva in matematica ma non nelle altre materie.
La teoria ha codificato i principi dell’arte della guerra sostenendo che essi sono immutabili nel tempo. Nella storia moderna i maestri in materia sono stati, come tutti sappiamo, Machiavelli e Clausewitz e nei testi didattici delle scuole militari moderne sono ormai consolidati alcuni principi fondamentali che tutti conosciamo, come la massa, la velocità, la sorpresa.
Machiavelli è stato sicuramente studiato da Napoleone ed è stata pubblicata anche un'edizione de “Il principe” annotata da Napoleone; il testo sarebbe stato ritrovato nella carrozza dell'imperatore al rientro dall'infausta campagna di Russia. Le annotazioni di Napoleone appaiono verosimili perché sostanzialmente confronta la figura del principe con se stesso, ma si ritiene che l’opera sia sostanzialmente apocrifa.

Clausewitz, invece, ha scritto la sua opera “Della guerra” avvalendosi delle esperienze e degli ammaestramenti tratti anche e soprattutto dalla strategia e dalla tattica napoleonica.
Il celebre aforisma di Clausewitz “La guerra non è soltanto un atto politico, ma un vero strumento politico: una prosecuzione dell'attività politica, una sua continuazione con altri mezzi” è una perspicace osservazione della vicenda napoleonica.

Bonaparte fu prevalentemente un autodidatta ed era notoriamente un grande lettore e conosceva approfonditamente i classici della storia e della strategia, da Tito Livio a Giulio Cesare e Machiavelli, per non citare che i più noti, e ne portava i testi con sé anche durante le campagne di guerra. Derivò però la sua vera cultura in tema di strategia e di tattica soprattutto dagli insegnamenti del Maresciallo Maillebois, un condottiero francese della metà del settecento che egli studiò e apprezzò in modo particolare.

Napoleone tuttavia non fu mai un teorico bensì un grande pragmatico. Le memorie che dettò a Sant'Elena possono apparire come una codificazione di principi dell'arte della guerra che egli aveva sperimentato e padroneggiato. Non è così: sono piuttosto un tentativo brillantemente riuscito di mettere in rilievo per la posterità le sue straordinarie capacità non solo di ingegno ma anche di lavoro, determinazione e soprattutto di ambizione.

Napoleone Bonaparte durante le sue campagne, sia come giovane generale, sia come Primo Console e anche come imperatore, ha applicato i principi dell'arte della guerra in maniera intuitiva e pragmatica; egli stesso sostiene, infatti, che nessuna battaglia è uguale alla successiva e che nessuna battaglia è condotta e terminata come era stata pianificata.

Il piano strategico-tattico preventivo è indubbiamente necessario ma è ancor più necessario, affermava, avere il coraggio e la capacità di adattarlo alla situazione del momento e all'evolvere del conflitto ( ).

L’immaginario collettivo è, ad esempio, affascinato dalla vittoria di Austerlitz nella campagna del 1805 contro la terza coalizione (Inghilterra, Austria e Russia) che si concluse appunto con quella celeberrima battaglia.

a quella campagna non fu caratterizzata solo dall’esito della giornata di Austerlitz ma, soprattutto, dalla determinazione e dalla capacità dell'Imperatore di spostare nel giro di un mese dalle coste della Manica un esercito di 300.000 uomini, con i quali si riprometteva di invadere l’Inghilterra, attraversare vittorioso tutta l'Europa per giungere oltre Vienna, ad Austerlitz appunto, concentrando nel momento e nel luogo più idoneo le forze per battere la coalizione avversaria ( ).

Ritengo che sia più interessante, piuttosto che analizzare sotto il profilo teorico la genialità di Napoleone, conoscerne le vicende più significative. In altri e più chiari termini s’impara di più la strategia e la tattica studiando l’evoluzione delle campagne dei grandi condottieri piuttosto che mandare a memoria il Clausewitz. Ho scelto a questo scopo le fasi iniziali delle due campagne d'Italia del 1796 e del 1800, dove egli, ancora giovanissimo (nel 1796 aveva solo 27 anni), seppe agire con quella genialità pratica che è l’essenza della sua arte della guerra.

Non a caso ho scelto queste due campagne, anche se altri eventi bellici successivi hanno un maggior valore nell'immaginario collettivo (mi riferisco alle battaglie di Austerlitz, Jiena o Wagram, per non citare che alcune delle 100 battaglie combattute da Napoleone).

Si tratta di operazioni belliche condotte su un territorio che noi italiani ben conosciamo ma soprattutto, più che nelle altre, da esse si può capire come Napoleone abbia armonizzato brillantemente movimento, massa e sorpresa e come esigenze politiche, esigenze strategiche ed esigenze tattiche siano state un insieme inscindibile nella sua mente.

(per note ed informazioni: 57sessione@libero.it)

sabato 23 luglio 2011

L'anno "Mirabilis": il 1860 e l'Umbria

IL PASSAGGIO DELL’UMBRIA DALLO STATO PREUNITARIO ALLO STATO NAZIONALE

1860

IL RUOLO DELLE FORZE ARMATE

Il 7 settembre 1860 Giuseppe Garibaldi entrava a Napoli e proclamava chiaramente che dopo il potere borbonico avrebbe abbattuto il potere temprale dei Papi, ovvero marciare e conquistare Roma. Il processo unitario italiano aveva avuto la sua nascita nel 1799 con la formazione delle repubbliche filofracensi . A Vienna veniva ripristinato il potere temporale dei Papi  ma il sentimento nazionale si sviluppo per tutta la prima metà dell’ottocento. Sconfitto nel 1848-49, si sviluppò attraverso quello che fu definito il decennio di preparazione. Papa Pio IX  con gli altri regni conservatori si opponeva ad ogni forma di unità nazionale. Nel 1859 La Francia scese in campo per aiutare i protagonisti del processo unitario  e con l’Armistizio di Villafranca sembra tutto compromesso. Ma l’iniziativa Garibaldinia, voluta dal partito progressista altera ogni cosa. Napoli in mano garibaldina apre nuovi scenari

L’equilibrio europeo poteva essere fortemente alterato da questa iniziativa. La Francia, e soprattutto, l’Austria, non avrebbero permesso un simile affronto al Soglio pontificio ed erano pronte ad intervenire.  Era necessario fermarlo.

Cavour colse questa occasione che l’iniziativa progressista e rivoluzionaria gli offriva e offri a Napoleone III la soluzione per mantenere la situazione in equilibrio. (Lastrina 19)Ottenuta l’approvazione francese, il Cavour operò immediatamente, in una situazione ad alto rischio in quanto non si era certidell’atteggiamento dell’Austria. Posto a difesa della Lombardia e del restante territorio sabaudo il grosso dell’Esercito (147.000 uomini) incaricava Manfredo Franti di organizzare una forza di invasione che doveva conquistare, in una prima fase le marche e l’Umbria, e successivamente scendere nel meridione per andare incontro a Garibaldi e fermarlo.

Fanti organizzò questa forza su due Corpi d’Armata (Lastrina 21) il IV, al comando di Enrico Cialdini ( 20.000 uomini) che doveva operare lungo la litoranea adriatica con obiettivo Ancona; il V, al comando di Enrico Morozzo della Rocca, (15.000 uomini) che doveva invadere l’Umbria con obiettivo Perugia nella loro marcia dovevano conquistare e rendere inoffensive le piazzaforti pontificie catturane le guarnigioni, sostituendole con forze sarde. La 13a Divisione, al comando di Raffaele Cadorna, doveva operare lungo la dorsale appenninica con compiti di collegamento e raccordo con i due Corpi d’Armata.

LA difesa pontificia era in mano al generale francese Cristoforo de La Moricière, l’eroe di Costantina e l’inventore del corpo coloniale degli Zuavi. (Lastrina 23) Il piano di difesa approntato nel maggio-giugno 1860 prevedeva di lasciare Roma e il Lazio alla difesa delle truppe francesi (Gen. Goyon, 15 uomini), mentre tutte le forze operative pontificie furono stanziate in Umbria sull’asse terni, Spoleto, Foligno perugia. La 1a Brigata (3500 uomini, al comando del Gen. De Pimodan, a terni; la Brigata di Riserva ( 3000 uomini, gen. Cropt, a Spoleto-Foligno, la 2a Brigata (3000 uomini, gen.Schimdt, quella che si era resa protagonista delle sanguinose giornate del 1859 a Perugia passate alla storia come “le stragi di Perugia) tra Foligno Città della Pieve e Perugia. Quartier Generale, baricentro, a Spoleto. La 3a Brigata operativa ( 3500 uomini, al comando del gen. De Courthen), a Macerata ed Ancona con elementi irradianti in tutte le Marche per controllare il territorio da ogni insorgenza e per assicurare i collegamenti con Ancona e quindi con l’Austria. La minaccia principale era l’azione garibaldina da sud, materializzatesi alla fine di agosto, e tutto il dispositivo sia operativo che quello ancorato sulle piazzeforti era orientato a sud.

In caso di attacco, la Francia e l’Austria sicuramente sarebbero accorse e compito dell’esercito pontificio era resistere quel lasso di tempo per permettere alle truppe francesi, via Tolone-Civitavecchia, e austriache, via Trieste-Ancona, di portare aiuto e soccorso.

L’11 settembre, dopo un ultimatum di Torino al Governo Pontificio, naturalmente respinto, iniziano le operazioni di invasione, al comando del Fanti mentre la Flotta al comando del Persano lascia Napoli destinazione Ancona. Cialdini in breve si rende padrone di Pesaro e Fano e macia su Senigallia che raggiunge il 14 settembre.

Le truppe del V Corpo d’Armata, non da meno, operarono celermente. Varcato il confine con la Toscana, primo obiettivo era occupare Città di Castello, che fu conseguito alla sera del 12 settembre; senza por tempo in mezzo le forze di Morozzo della Rocca puntarono su Fratta che fu investita e conquista nella giornata del 13. A sera le truppe sarde erano in grado di minacciare Perugia.

A fronteggiarle si era diretta la Brigata del gen. Schimdt pontificia, ma presto dovette ritornare su i suoi passi e rinserrarsi a Perugia.

Intanto le forze pontificie stanziate in Umbria, si erano radunate, nei giorni 11 e 12 settembre e avevano preso la strada per Macerata ed Ancona, via Colfiorito, tanto che alla sera del 13 settembre l’Umbria non aveva più truppe operative pontificie. Il loro intento era di raggiungere Ancona, rinserrarsi e dare vita ad un assedio, per permettere ad Austria e Francia di intervenire. Durante la marcia su Ancona, De La Moricière riceve un dispaccio da Roma che lo informa che “L’Imperatore ha dato ordine a truppe di fanteria di imbarcarsi a Tolone”. Questo viene interpretato come il primo segnale dell’intervento francese. In realtà tali truppe servono solo a rinforzare la guarnigione francese di Roma.

Certo che i Francesi non si sarebbero mossi dal Lazio, Morozzo della Rocca il 14 settembre diede l’assalto a Perugia, alla fortezza Paolina che, in virtù dell’ardimento e del valore del I Reggimento Granatieri, ove trovo gloriosa morte il cap. Ripa di Meana, medaglia d’oro alla memoria, fu conquistata. La guarnigione pontificia si arrese e Morozzo della Rocca potè comunicare a Fanti che il suo obiettivo era stato raggiunto. Ma la situazione era in movimento e tutto il V Copro d’Arma, oltrepassa perugia e il 15 settembre raggiunge Foligno. Qui si riordina e organizza colonne di marcia per raggiungere, via Colfiorito, sulle orme delle truppe pontificie, Ancona. Mentre inizia a valicare l’Appennino, Morozzo della Rocca distacca un colonna, al comando del generale Brignone, con il compito di conquistare Spoleto.

La Rocca spolietina è difesa da un battaglione di Irlandesi, il Battaglione San Patrizio. Cattolici ferventi e determinati, oppongono una serie resistenza, e solo dopo reiterati assalti, il 17 settembre 1860, Brignone si rese padrone di Spoleto.

Con la conquista di Spoleto e il passaggio dell’Appennino da parte del V Corpo d’Armata, che aveva lasciato guarnigioni nelle principali piazzeforti pontificie conquistate, si completa il passaggio dell’Umbria dallo stato preunitario allo stato nazionale; in pratica viene a finire il potere temporale dei Papi, iniziato dieci secoli prima.

Contemporaneamente, il 18 settembre i pontifici furono sconfitti a Castelfidardo e, con i due corpo d’armata convergenti su Ancona, la piazzaforte cadde il 29 settembre, in virtù anche dell’Azione del Cialdini  e del Persano Il re arrivò ad Ancona il 3 ottobre e con questo gesto la campagna di invasione per l’annessione dell’Umbria e delle Marche ebbe termine.

Fatto l’Italia occorreva fare gli Italiani e in questo ruolo si distinsero le Forze Armate che nei 50 anni successivi cementarono il sentimento di unità nazionale e che messo a dura prova nella Prima Guerra Mondiale, si affermò definitivamente, al costo di gravi sacrifici, con la vittoria del 1918.

giovedì 14 luglio 2011

Progetto Storia In Laboratorio per il 2011-2012

Riportiamo lil progetto proposto lo scorso anno al Comune di Spoleto sottolienando che anche quest'anno si è disponibili ad attivare il progetto:

 AREA TEMATICA : Sorico culturale


 TITOLO: Storia in laboratorio

 ENTE ORGANIZZATORE : UNUCI sezione di Spoleto in collaborazione con la rivista “Il secondo Risorgimento d’Italia”

 DESCRIZIONE SINTETICA DEL PERCORSO E DELLE ATTIVITA’ DIDATTICHE PROPOSTE.


Nell’approssimarsi del 150° anniversario della costituzione dello Stato italiano, l’UNUCI, nel quadro delle attività volte a far conoscere gli avvenimenti di storia Patria, propone agli studenti delle scuole secondarie di I e II grado il progetto “Storia in laboratorio” già sperimentato negli anni passati.

La proposta prevede seminari/convegni sui temi che hanno interessato il territorio del Comune di Spoleto, a partire dal passaggio di Spoleto dallo Stato preunitario allo Stato Nazionale (17 settembre 1860) fino alla Guerra di Liberazione (1943 – 1945), allo scopo di tener viva la memoria storica locale nel più ampio contesto di quella nazionale. In particolare agli studenti, opportunamente coordinati dai loro professori, si chiede di svolgere ricerche, fare interviste, raccogliere materiali, informazioni e testimonianze, a partire dall’ambiente familiare.

Scopo del progetto è quello di guidare gli studenti, nell’approssimarsi del 150° anniversario della costituzione dello Stato italiano (17 marzo 1861 – 17 marzo 2011), ad una riflessione sul significato profondo della ricorrenza. Un processo di unificazione che è passato, oltre al 17 marzo 1861, attraverso altre due date non meno importanti: il 4 novembre 1918, la fine vittoriosa della I Guerra Mondiale e la conclusione del processo di unificazione nazionale ovvero del I Risorgimento ed il 25 aprile 1945 che rappresenta la conclusione della Guerra di Liberazione e quindi del II Risorgimento italiano.

Sotto la guida degli insegnanti, il materiale raccolto sarà sistemato in maniera organica secondo tassonomie stabilite in precedenza al fine di attribuire ad esso un preciso valore semantico e di valenza storica. Tutti i lavori degli studenti verranno pubblicati sulla Rivista “Il Secondo Risorgimento d'Italia”.

 DURATA: settembre 2010 – aprile 2011

 DESTINATARI: Scuole Secondarie di I e II Grado


 COSTI : Gratuito


 CONTATTI : Franco Fuduli ((tel. 0743.223401), Massimo Coltrinari (tel. 06.46913238), Osvaldo Biribicchi (tel. 06.46912838)

mercoledì 25 maggio 2011

“Non si parte!” : il movimento di renitenza alla leva nel Regno del Sud

Gioconda Bartolotta

Il 23 novembre 1944 viene pubblicato sui quotidiani l’annuncio del bando di “Presentazione alle armi “ per i giovani delle classi dal 1914 al primo scaglione di quella del 1924, rispondente all’esigenza di completare l’organico delle forze impegnate sul campo e che avrebbe dovuto trovare realizzazione a cominciare dal Lazio e dalla Campania per concludersi in Sicilia. Si trattava in sostanza di continuare nell’azione di ricostituzione dell’esercito, intrapresa dal governo subito dopo il trasferimento a Brindisi, che si era resa necessaria in seguito allo sbandamento dei soldati dopo l’annuncio dell’armistizio .

In Sicilia, però, la reazione al provvedimento in questione non si fece attendere e, sui muri di ogni centro dell’isola, presero a comparire scritte di aperta disapprovazione per lo stesso, cui presto si accompagnò la diffusione di manifesti che sollecitavano a non rispondere al richiamo e nei quali si sottolineava il bisogno, che la Sicilia stessa aveva, di giovani di cui servirsi per ricostruire quanto era andato distrutto e per rifondare su valori nuovi e diversi lo spirito della sua popolazione martoriata dal recente conflitto. Era dunque impensabile, in una situazione del genere, che questi accettassero di buon grado di andare in guerra.

Alla necessità dello Stato di tenere fede agli impegni contratti con gli Alleati, con la quale pure si voleva giustificare il richiamo alle armi, si rispondeva che comunque la nostra era una nazione vinta e che quegli stessi Alleati che ci avrebbero potuto aiutare a ricostruirla “(...) non possono dimenticare - e a ragione - che fra loro e noi c’è un taglio più forte di loro stessi (...) aperto col sangue dei caduti loro in tre anni di guerra“ . Considerazione amara e polemica dalla quale pare trasparire una non totale fiducia a proposito del reale atteggiamento che gli Alleati potevano adottare nei nostri confronti.

Di diverso tono il contenuto di un volantino, ritrovato vicino Palermo, diffuso da un gruppo di studenti, nel quale si sottolineava che le condizioni poste con l’armistizio dell’8 settembre erano così indegne per il fiero popolo italiano che questo non avrebbe dovuto legittimarle presentandosi alle armi, essendo unica condizione valida per tornare a combattere che l’Italia venisse riconosciuta come un vero e proprio paese alleato .

Un manifesto rinvenuto ad Agrigento poneva l’accento sul fatto che l’Italia - come già era stato annunciato - avrebbe dovuto subire forti perdite territoriali, una volta terminata la guerra, e questa era una prospettiva che - al pari di tante altre - non poteva certa essere considerata come favorevole, ai fini della presentazione alle armi .

Molto forte l’attacco contenuto in un altro manifesto ritrovato, anche questo, a Palermo: “ (...) l’infame nemico di ieri e di sempre ricco di dollari e di sterline ha bisogno di carne da cannone per risparmiare i suoi preziosi soldati. Al solito i vilissimi nostrani che hanno impedito ai valorosi soldati italiani di conquistare la vittoria, vorrebbero mandare a morire per la grandezza dell’America e della Inghilterra la nostra gioventù (...)“.

La matrice politica di quest’appello è più immediatamente individuabile che nei precedenti, leggendosi ad un certo punto “ (...) I fratelli del Nord si accingono a venire a liberarvi. E’ questione di qualche mese e sarà la vera liberazione (...)“ . Nel considerare quanto accadde tra il 1944 ed il 1945 in Sicilia non si può infatti sorvolare sul ruolo svolto in proposito dai fascisti che, nel malcontento popolare, speravano di trovare terreno fertile per il progetto di una loro riorganizzazione, ora che il duce, libero e a capo della RSI sostenuta dai tedeschi, aveva ripreso fiato ed annunciava potersi ancora, sul fronte bellico, “ristabilire in un primo tempo l’equilibrio e successivamente la ripresa delle iniziative in mano germanica“ , il che avrebbe dovuto avere conseguenze facilmente intuibili sulle sorti politiche italiane .

Per diverso tempo, la contestazione mantenne un carattere non violento ma, in seguito, degenerò in atti che di pacifico avevano ben poco. Così il 14 dicembre la popolazione insorge a Catania, in risposta all’uccisione di un giovane dimostrante, colpito dal fuoco dei militari .

Il “ Tempo “ del 15 dicembre 1944 titola: “Manifestazioni di studenti contro il richiamo alle armi - Molti edifici pubblici tra i quali il Municipio, il Tribunale , e l’Ufficio Leva incendiati “.

L’insurrezione continua fino al giorno successivo, quando esercito e polizia riassumono finalmente il controllo della situazione.

Diversi quotidiani si occuparono di tale episodio sia ricostruendone la dinamica che commentandolo nel merito, seguendo, nel far ciò, una linea comune, ponendo cioè l’accento su quanto importante fosse in quel momento “la ricostruzione del paese “cui bisognava che tutti contribuissero senza lasciarsi andare a gesti istintivi ed incontrollati .

In relazione ai fatti accaduti, il 15 dicembre era intervenuto anche il C.L.N. della provincia che, nell’esprimere tutto il suo sdegno per quanto avvenuto, poneva l’accento sull’operato “(...) degli elementi separatisti in combutta con gli affini superstiti del fascismo (...)” la cui azione era certo tesa a “(...) creare imbarazzi e difficoltà ai movimenti politici ansiosi di lavorare per la ricostruzione materiale e morale del paese (...)“. Si invitava pertanto la popolazione a mantenersi estranea a tali indegni propositi .

Il punto sui disordini cittadini viene fatto anche in un articolo de “L’Unità” – sempre del 15 dicembre – in un trafiletto del quale si riporta un comunicato diramato dall’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio che “(…) deplora il tentativo di sabotare la guerra liberatrice, tanto più esecrabile ove si consideri che nel resto d’Italia l’arruolamento procede regolarmente e che nelle regioni ancora occupate i patrioti offrono spontaneamente il loro contributo di sangue e di martirio nell’impari lotta contro il nemico (…)” e che si conclude con un appello alla “(…) generosa popolazione siciliana perché, raccolta nelle sue organizzazioni politiche e sindacali, collabori con le pubbliche autorità per mantenere nell’isola le nobili tradizioni di solidarietà nazionale (…)” .

Nello stesso periodo violenti scontri si ebbero anche in altre zone dell’isola, nonostante l’Alto Commissario per la Sicilia - nel tentativo di prevenire ulteriori disordini - avesse disposto il divieto di riunione e di assembramento nei luoghi pubblici e presto la rivolta popolare si estese a ben cinque province dell’isola.

Uno dei luoghi più “caldi” fu certamente Ragusa, dove, dopo l’arrivo delle prime cartoline di richiamo, la popolazione venne chiamata ad una riunione e si procedette ad istituire un comitato che elaborasse un piano di azione. Tra i motivi che spingevano i richiamati ragusani a non presentarsi alle armi era di non poco conto il fatto che molti di loro avevano in precedenza militato nelle fila degli armati della RSI - anzi Ragusa, per la resistenza opposta al governo, sembra essersi meritata la medaglia d’oro della Repubblica di Salò - e pertanto, ora, ritenevano di non poter rispondere ad una “(...) assurda e mostruosa chiamata, che doveva schierarli contro quegli stessi uomini con i quali avevano condiviso le ansie, le trepidazioni, i dolori e le sofferenze di una guerra che assieme avevano voluto e combattuto (...)”. Anche in questo caso l’esito era scontato, grazie all’intervento repentino ed efficace delle forze di polizia. La città fu riconsegnata all’ordine e si avviò subito il rastrellamento dei quartieri nei quali aveva avuto origine la sommossa, tra cui quello divenuto famoso de “I mastri dei carretti” che era stato “(...) il primo a sentire il grido dei Non si parte (...)” . L’operazione si concluse con l’arresto di molti dei protagonisti dei moti e con il loro invio al confino nell’isola di Ustica, che poterono abbandonare solo nel luglio 1946 in seguito all’amnistia disposta dalla Repubblica .

A dicembre anche Palermo insorge. La sommossa palermitana aveva, però, avuto un drammatico precedente nella strage del 19 ottobre 1944, quando i soldati – pure in seguito ad una aggressione di cui vennero fatti oggetto – spararono sulla folla che manifestava contro il carovita in contemporanea con lo sciopero degli impiegati comunali. Due mesi dopo, il 15 dicembre 1944, studenti universitari manifestarono contro il richiamo alle armi, contestazione che venne subito negativamente giudicata e dal C.L.N. e dalla locale sezione del Movimento Giovanile Comunista .

A leggere però il numero del “ Popolo “ del giorno successivo sembra che la sommossa di Palermo - anch’essa inevitabilmente degenerata in fatti di sangue - si sia distinta da quella di Catania per aver avuto, quest’ultima, un carattere più politico - la reazione contraria ai richiami, appunto- che non la prima, per lo scoppio della quale decisiva sarebbe stata “(...) la fame, dovuta al prezzo governativo del pane (...)” .

Lo stesso articolista afferma inoltre che di una tale situazione avrebbero approfittato tanto i fascisti quanto i separatisti, per favorire i loro reciproci e, in certi casi, convergenti interessi, sobillando la pubblica opinione e spronando il popolo alla rivolta.

Il ruolo del separatismo


Tra i separatisti c’erano delle componenti il cui primario intento era quello di non consentire lo sviluppo ulteriore dei partiti impegnati nella guerra che si facevano portatori di istanze popolari e che così grande consenso erano già riusciti a conseguire tra le masse.

Nel movimento separatista – che sembra, però, fosse riuscito a trovare sostenitori anche fra gli studenti, “(…) per un malinteso spirito di orgoglio regionale” - militavano infatti per lo più elementi della grande borghesia agraria, la cui preoccupazione principale era la difesa del diritto di proprietà il che, evidentemente, li rendeva “nemici naturali“ del partito comunista che tanta parte ricopriva nella guerra di liberazione - e che in Sicilia era il più grande partito di massa - lasciando così supporre che , una volta che il governo dell’Italia liberata fosse riuscito ad estendere la sua giurisdizione sul resto del paese, questo si sarebbe visto riconosciuto il contributo a ciò fornito con “ricompense “ di natura politica .

Col nuovo Alto Commissario per la Sicilia, Aldisio - che sostituiva l’ex Prefetto di Palermo, Francesco Musotto, che della stessa carica era stato in precedenza investito su decisione degli Alleati e che si distingueva dal primo per le sue simpatie socialiste - era giunta al potere la Democrazia Cristiana il che si ritenne potesse aprire delle strade ad un’azione anticomunista svolta, come dice La Morsa, “dall’interno attraverso azioni più o meno indirette“ . In tal modo, offrendo ai grandi proprietari una garanzia al mantenimento del proprio status economico - il che aveva una valenza politica rilevantissima, dato chepermetteva di incanalare e di controllare le tendenze eversive che questi, con la loro presenza nel movimento separatista, sembravano sostenere - si rendeva possibile adottare, ora, nei confronti del separatismo una politica di opposizione più decisa e severa rispetto a quanto non si fosse potuto fare con Musotto il quale - per ovvie ragioni politiche - non poteva che mostrarsi disponibile ad una azione cauta e di compromesso . Sul tema del separatismo interviene in quei giorni la “Voce Repubblicana“ che nel precisare come “(...) il nome stesso del movimento separatista è un errore, tanto più grave perchè per molti è un equivoco (...)“, ridimensiona - o almeno tenta di farlo - il carattere di estremismo per cui il movimento si era distinto.

L’autore dell’articolo in proposito sostiene che il sentimento diffuso nell’isola è quello repubblicano, non volendo più la Sicilia sentire parlare di Savoia e di monarchia, chè le ricordano una gestione accentratrice e “coloniale “, un regime ed una guerra che le ha portato solo lutti.

Era da questa istituzione, deludente e poco responsabile, che ci si doveva allontanare e non dall’Italia.

E’ certo, comunque, che il Governo dell’Italia liberata prese atto dell’insofferenza che cresceva nell’isola a riguardo e dell’esigenza, che andava facendosi sempre più sentita, di affidarne l’amministrazione non più ad autorità a tale scopo inviate in Sicilia in rappresentanza dello Stato centrale ma a personale del luogo che, della propria terra, conoscesse tutte le ricchezze, i problemi e le potenzialità . Per quanto riguarda nello specifico il movimento separatista propriamente inteso, è certo che i suoi membri agirono da protagonisti nelle vicende successive al richiamo alle armi, addirittura traendo dalle sollevazioni popolari tanto di quel vigore che si impegnarono nella loro causa fino ad arrivare al punto di poter da lì a poco - queste le voci che circolavano - giungere a proclamare l’indipendenza dell’isola .

e repubbliche del 1944 – 45. La Repubblica di Comiso

Così a Comiso, dove sembrava che i tempi fossero ormai maturi perchè si potesse realizzare il progetto - preparato già da tempo - dell’on. La Rosa che aveva cercato e trovato l’appoggio dei separatisti del luogo per far partire, non appena ci fosse stato il richiamo alle armi, una rivolta che si sarebbe poi dovuta estendere al resto della Sicilia.

E così nel dicembre del 1944, gli studenti del paese, ricevuta la cartolina di richiamo, iniziarono una protesta nella quale subito coinvolsero il resto della popolazione che prese a guardare ad essi come a dei “benemeriti “.
Vennero organizzati comizi e dimostrazioni in cui i giovani intervenivano facendosi portatori del sentimento di delusione che tanti aveva assalito al momento dell’annuncio, da parte del Governo, del cambiamento di fronte. Ed ora finalmente, anche per quanti ritenevano che i morti amaramente pianti, la fame e gli stenti giustificassero la protesta molto più di qualunque scelta politica - per quanto non condivisibile essa fosse - era arrivato il tempo di ergersi contro chi a quelle durissime condizioni di vita li voleva ulteriormente costringere, piuttosto che agire concretamente per porvi rimedio.

Fu anzi addirittura necessario che gli studenti, ritenendo che non fosse ancora il momento giusto, placassero gli animi di tutti quelli che, esasperati, avrebbero voluto subito ricorrere alla forza.

Niente fu lasciato al caso. Si procedette a rifornire gli uomini di tutte le armi, di ogni specie, che fu possibile rastrellare, “(...) la città fu divisa in zone e gli uomini inquadrati nelle squadre cittadine che dovevano controllare tutta l’attività e costituire l’esercito permanente della Repubblica di Comiso (...)“ .

Venne istituito un “ Comitato del Popolo” che dichiarò decaduta l’autorità dello Stato e costituita, di contro, la Repubblica di Comiso alla quale sembra che Mussolini avrebbe conferito la medaglia d’argento della RSI .

Per diversi giorni i comisani riuscirono a respingere tutti i tentativi fatti dai militari di riconquistare le loro posizioni e ripristinare l’ordine pubblico nel paese. Tutto questo sarebbe costato ai ribelli morti e feriti ma ciò non li fece desistere dall’intento di impedire il rientro ai “(...) soldati di un Governo che aveva prostituito il Paese allo Straniero (...)“ tanto più che si sperava, sempre stando alla ricostruzione fornita da Cilia, in un repentino intervento delle forze del Nord .

Arrivò tuttavia il momento della resa. La prospettiva di vedere il paese raso al suolo, come era stato minacciato, costrinse i comisani a considerare più oculatamente il da farsi. Venne costituito pertanto un comitato parlamentare che avrebbe dovuto “(...) trattare un armistizio dignitoso e giusto (...)“. Non fu tuttavia possibile realizzare tale proposito ponendo la controparte, come unica condizione alla rinuncia a rappresaglia nei confronti della popolazione, l’accettazione della resa incondizionata.

Nel pomeriggio del 10 gennaio le forze governative rientrarono a Comiso , senza peraltro che agli abitanti venisse risparmiata - come pure era stato promesso - una violenta persecuzione che portò in carcere la gran parte di quanti avevano partecipato ai moti e costrinse molti giovani a presentarsi alle armi .


La Repubblica Popolare di Piana degli Albanesi

Anche a Piana degli Albanesi, il 31 dicembre del 1944, era stata proclamata la “Repubblica Popolare” ad opera di Giacomino Petrotta che, nella neo-proclamata repubblica, si avvalse anche dell’ accondiscendenza del Sindaco - che conservò la sua carica perchè favorevole al nuovo assetto istituzionale che era venuto configurandosi - per il compimento di alcuni atti di chiara ingerenza nella pubblica amministrazione e che si sostanziarono, ad esempio, nell’impedire oltre l’espletamento delle proprie funzioni a quanti non erano graditi specie per la loro precedente militanza fascista.

Tutto ciò fino alla fine di febbraio del 1945 quando, con l’arrivo in forza dei militari, l’ordine pubblico venne ristabilito e la repubblica soppressa . Pure, in quei cinquanta giorni l’esperienza repubblicana venne compiutamente realizzata perchè “(…) le masse sono armate, il medio ceto è legato più o meno di propria volontà agli obiettivi egemonici del popolo, perché è impedita la leva militare e resa realmente obbligatoria per gli agrari la consegna del grano ai magazzini popolari a favore delle masse più povere ed affamate (…)” .

Le conseguenze della mancata risposta al richiamo e i problemi posti nel caso di presentazione alle armi.
Questa dunque la situazione in Sicilia, fra il 1944 ed il 1945.

Ma l’ondata di contestazione al provvedimento di richiamo investì tutte le zone della penisola che da esso furono interessate e, di ciò, dovettero prendere atto le autorità competenti investite del compito di presiedere alla presentazione alle armi.

Nei rapporti inviati dalle Regie Prefetture al governo si documenta con precisione questo stato di cose sottolineando anche che la mancata risposta all’appello ben si comprendeva, ”(...) essendo facilmente intuibili gli ulteriori sacrifici cui andrebbe incontro il popolo con una più larga partecipazione alla guerra, mentre assai deboli sono le illusioni di effettivi benefici, basate solo su promesse rimaste aleatorie, non essendo ancora stato assunto dagli Alleati nessun preciso impegno al riguardo (...)” . E’ da sottolineare inoltre che la resistenza opposta al richiamo alle armi poteva finire coll’arrecare un danno all’immagine dell’Italia, già duramente penalizzata nella partecipazione alle operazioni di guerra, “(…) nella considerazione degli Alleati” .

La mancata affluenza di grandissima parte dei richiamati rappresentava, tuttavia, un enorme perdita , in termini di potenziale, per l’esercito tanto che il Ministero della Guerra si vide costretto, ai primi di gennaio del 1945, a ripresentare il bando, stabilire nuovi termini per la presentazione e promettere che non si sarebbe dato corso ad alcun procedimento penale per quanti non avevano ancora risposto al richiamo purchè, ovviamente, decidessero di farlo allora .

La nuova chiamata del gennaio 1945 riguardò anche il secondo scaglione della classe 1924 ed il primo di quella 1925 - ultima classe utile per la leva- nel tentativo di rimediare alla scarsa affluenza in precedenza registrata.

Ma ancora una volta non si ottennero i risultati sperati tanto che, nel febbraio dello stesso anno, un generale dello Stato Maggiore auspicava, per porre finalmente riparo a questa situazione, il ricorso a soluzioni drastiche che avrebbero dovuto colpire direttamente la massa dei richiamati distogliendoli dal proposito, eventualmente maturato, di opporre resistenza al provvedimento prospettando loro, come conseguenze di tale malaugurata decisione, la cancellazione dalle liste politiche o l’eliminazione dagli studi.

C’erano però anche problemi di altro genere da affrontare, che riguardavano quanti, invece, ai bandi di richiamo decidevano di rispondere, presentandosi così ai distretti.

Da alcuni telegrammi, inviati nel febbraio 1945 alle autorità competenti dall’Alto Commissario Aldisio, si desume che il trattamento ad essi riservato nei campi di raccolta non era certo tale da confermarli nella scelta fatta né, tantomeno, tale da poter incentivare altri richiamati a partire, in tal modo ponendo, evidentemente, nel nulla gli sforzi operati dalle autorità civili e militari in questa direzione.

Così, ad esempio, il 27 gennaio 1945 “(...) disertarono dal campo affluenza Afragola - nel quale i volontari si trovavano in pessime condizioni: il campo era allagato e loro non erano neanche stati forniti dei necessari “indumenti militari”- circa mille richiamati siciliani su milleduecento colà affluiti dal 15 gennaio detto (...)” .

Era naturale, dunque, che Aldisio avvertisse la necessità - testimoniata dalla qualifica di “precedenza assoluta su tutte le precedenze assolute” al telegramma da lui in proposito inviato - di informare chi di dovere su quanto stava accadendo, chiedendo un intervento immediato perché “(...) incidenti simili siano evitati curando affettuosamente i richiamati (...)” .

Conclusioni
Il quadro che emerge dall’analisi delle vicende registratesi in Sicilia tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945, non sembra essere minimamente rispondente all’idea, che generalmente si è abituati a condividere, di un movimento resistenziale che ha visto impegnati sul fronte della lotta contro il nazifascismo tutte le forze “vive e sane” del nostro paese e a cui sarebbe stato dato un sostanziale apporto dalle masse popolari, spontaneamente impegnatesi nella lotta contro il tedesco invasore e nell’estirpazione della “mala pianta” del fascismo. L’Italia dell’ultimo anno di guerra fu, invece, anche il Paese dei renitenti alla leva, delle donne pronte a sfidare le autorità per impedire la partenza per il fronte dei loro figli e dei loro compagni, di quanti vivevano la frustrazione conseguente alle misere condizioni di vita cui erano costretti, di quanti si mantennero estranei all’attivismo politico, perché ormai convinti dell’inutilità di continuare a riporre fiducia in coloro che si proponevano per l’amministrazione della cosa pubblica, ogni volta promettendo risposta alle istanze più urgenti dell’isola che restavano però sistematicamente irrisolte, di quanti, invece, alla vita politica parteciparono in prima persona, tentando però la via delle Repubbliche popolari in polemica – e a volte violenta – replica all’immobilismo delle autorità competenti. Tutto ciò a riprova dell’esistenza di una situazione diversa da quella largamente propagandata e che però, non per questo, sembra essere meno attendibile pur essendo meno eroica e meno adatta alla costruzione del mito della partecipazione di massa per la rinascita del Paese alla vita democratica.

Le motivazioni con cui si giustificava la renitenza alla leva erano principalmente di carattere pratico, mentre ruolo minore sembrano aver avuto quelle di carattere essenzialmente politico ed ideologico. In tali condizioni non sembra possibile considerare disonorevole la decisione di anteporre le preoccupazioni quotidiane, gli affetti e gli interessi personali al dovere di continuare a combattere. Quella in cui fino ad allora ci si era impegnati era stata una guerra che aveva arrecato solo lutti e miserie, e sul prosieguo della quale non si era autorizzati a nutrire speranze di positivi esiti.

La volontà di proporre, come alternativa alla continuazione della guerra stessa, l’impegno per la ricostruzione civile ed economica della propria terra era lì a testimoniare il dinamismo e non l’inerzia, la determinazione e non la mancanza di volontà di quanti ritenevano fosse giunta l’ora di offrirle, finalmente, nuove opportunità.

martedì 5 aprile 2011

IL PROGETTO CONTINUA

Il Progetto Storia in Laboratorio continua anche per i mesi fino alla chisura delle scuole. I cntributi saranno pubblicati nel numero di settembre di "I Risorgimento d'Italia"


 AREA TEMATICA : Sorico culturale


 TITOLO: Storia In Laboratorio

 ENTE ORGANIZZATORE : UNUCI sezione di Spoleto in collaborazione con la rivista “Il secondo Risorgimento d’Italia”


 DESCRIZIONE SINTETICA DEL PERCORSO E DELLE ATTIVITA’ DIDATTICHE PROPOSTE.

Nell’approssimarsi del 150° anniversario della costituzione dello Stato italiano, l’UNUCI, nel quadro delle attività volte a far conoscere gli avvenimenti di storia Patria, propone agli studenti delle scuole secondarie di I e II grado il progetto “Storia in laboratorio” già sperimentato negli anni passati.

La proposta prevede seminari/convegni sui temi che hanno interessato il territorio del Comune di Spoleto, a partire dal passaggio di Spoleto dallo Stato preunitario allo Stato Nazionale (17 settembre 1860) fino alla Guerra di Liberazione (1943 – 1945), allo scopo di tener viva la memoria storica locale nel più ampio contesto di quella nazionale. In particolare agli studenti, opportunamente coordinati dai loro professori, si chiede di svolgere ricerche, fare interviste, raccogliere materiali, informazioni e testimonianze, a partire dall’ambiente familiare.

Scopo del progetto è quello di guidare gli studenti, nell’approssimarsi del 150° anniversario della costituzione dello Stato italiano (17 marzo 1861 – 17 marzo 2011), ad una riflessione sul significato profondo della ricorrenza. Un processo di unificazione che è passato, oltre al 17 marzo 1861, attraverso altre due date non meno importanti: il 4 novembre 1918, la fine vittoriosa della I Guerra Mondiale e la conclusione del processo di unificazione nazionale ovvero del I Risorgimento ed il 25 aprile 1945 che rappresenta la conclusione della Guerra di Liberazione e quindi del II Risorgimento italiano.

Sotto la guida degli insegnanti, il materiale raccolto sarà sistemato in maniera organica secondo tassonomie stabilite in precedenza al fine di attribuire ad esso un preciso valore semantico e di valenza storica. Tutti i lavori degli studenti verranno pubblicati sulla Rivista “Il Secondo Risorgimento d'Italia”.


 DURATA: settembre 2010 – aprile 2011

 DESTINATARI: Scuole Secondarie di I e II Grado

 COSTI : Gratuito

 CONTATTI : Franco Fuduli ((tel. 0743.223401), Massimo Coltrinari (tel. 06.46913238), Osvaldo Biribicchi (tel. 06.46912838)

giovedì 10 marzo 2011

 Macrostoria e Microstoria: nota a margine
La macrostoria rappresenta la sintesi degli avvenimenti che si sono succeduti in una determinata epoca in determinato territorio. La necessità di sintesi rappresenta l’esigenza di conoscere quanto accaduto precedentemente in quel luogo al fine di avere una idea, un quadro chiaro del succedersi del tempo: con ciò la Storia assolve alla sua funzione.
Ma questa visione a tutto tondo non esclude la possibilità, anzi la sollecita, di scendere, via via a seconda degli interessi e degli scopi che si vogliono perseguire , nel particolare, a cerchi concentrici, restringendo sempre più i due parametri considerati, il tempo, ovvero l’epoca presa in esame, e lo spazio, ovvero il territorio di interesse.
Questi cerchi concentrici vengono fissati da chi si avvicina alla Storia, in base ai suoi scopi ed interessi.
Processando questo concetto di macrostoria, in un approccio lineare ed orizzontale, non ciclico, si arriva a poter individuare e definire l’antitesi della macrostoria, ovvero la microstoria. Via via che si vuole conoscere in modo sempre più preciso e definito fatti e situazioni, ci si avvina al concetto di microstoria.
La microstoria rappresenta la conoscenza di un determinato fatto o evento in un individuato punto spaziale, nella sua complementarità assoluta.. La conoscenza nei suoi minuti dettagli dell’evento è la caratteristica della microstoria che in essa si esalta, mentre, come appare ovvio, si attena e scompare nel concetto opposto di macrostoria.

In questo asse orizzontale, quindi, chi si avvicina alla Storia può muoversi e quindi fissare il suo punto di osservazione o, di conseguenza, di conoscenza.
Esiste,pertanto, un filo rosso che unisce, in modo non ciclico, ma lineare la macro e la microstoria, che permette di affrontare ogni argomento storico, o meglio di ricostruire avvenimenti del passato, in base alle motivazioni., interessi e scopi.
Nel fare un esempio, si può ben prendere Anzio è l’evento del 22 Gennaio 1944, ovvero lo sbarco Angloamericano volto ad aggirare le difese tedesche imperniate su Cassino e quindi conquistare Roma e portare il fronte più a Nord possibile.
Se prendiamo in esame il fattore spazio, in questo evento, dal punto di vista microstorico, si possono andare a visitare ed approfondire tutti gli aspetti minuti che hanno interessato Anzio e Nettuno e tutte le implicazioni relative, restringendo la ricostruzione al particolare.
Dal punti di vista della macrotoria, questo evento si inserisce come episodio della Campagna d’Italia condotta dagli Alleati, campagna che aveva come obiettivo iniziale l’uscita dell’Italia dalla coalizione dell’Asse, e poi quello di tenere aperto un fronte in Europa al fine di attirare il maggior numero di unità tedesche, per alleggerire la pressione sul Fronte russo. Per gli Italiani questo evento si inserisce nella Guerra di Liberazione, in cui le forze non aderenti alla coalizione hitleriana collaboravano con gli Alleati al fine di giungere alla fine della guerra con una partecipazione tale da poter definire in modo accettabile il futuro assetto dell’Italia, uscita sconvolta dalla crisi armistiziale del 1943
Se prendiamo in esame il fattore tempo, vediamo che per gli Italiani la Guerra di Liberazione poteva rappresentare una sorta di Secondo Risorgimento, in quanto le uniche due forze che nella prima metà del 900 erano alla guida del Paese, si erano, per motivi vari, liquefatte ed implose. Occorreva una nuova azione per definire l’assetto istituzionale dell’Italia stessa, o nuovo o quello passato rigenerato da questa esperienza.
Il riferimento in questo processo è il primo Risorgimento, in cui per fare l’Italia ci si dovete impegnare in una lotta contro Potenze straniere e contro il potere temporale dei Papi per definire lo Stato Italiano. I motivi che nei due processi sono i medesimi, ed il fine uguale. Ecco perchè, come macrostoria, si può parlare di Primo e di Secondo Risorgimento.
Quindi lo sbarco di Anzio del gennaio 1944, episodio della Campagna d’Italia per gli Alleati, per noi Italiani è un evento che permette di focalizzare gli sforzi di definire attraverso la Guerra di Liberazione il nuovo asseto istituzionale dell’Itala, avendo come riferimento il processo unitario del primo risorgimento.

venerdì 18 febbraio 2011

Il Consiglio della Corona dell’8 Settembre 1943, nelle memorie del maggiore Luigi Marchesi

e nelle motivazioni

del Maresciallo Pietro Badoglio e di S. M. il Re Vittorio Emanuele III


Riccardo Scarpa

Il Consiglio della Corona, convocato da S. M. il Re Vittorio Emanuele III, alle cinque e mazza pomeridiane dell’8 Settembre 1943, nella sala Don Chisciotte del Palazzo del Quirinale, nel quale verrà deciso di dare notizia dell’armistizio firmato a Cassibile da parte del Generale Giuseppe Castellano e del Generale Walter Bedell Smith, e gli eventi che hanno immediatamente preceduto la riunione, condizionandone l’esito, e ne sono seguiti, costituiscono tasselli imprescindibili per ricostruire esattamente un momento determinante nella Storia d’Italia. Eventi, peraltro, descritti solo da testimonianze dei presenti, con tutti i limiti che tale fonte pone. La descrizione più dettagliata è senza dubbio contenuta nella testimonianza dell’allora Maggiore Luigi Marchesi, in servizio allo Stato Maggiore del Regio Esercito, proveniente dagli Alpini. Figlio d’un Colonnello del Regio Esercito, era entrato nella Regia Accademia di Fanteria e Cavalleria nel 1928. Sottotenente nel 1931 ed inviato al 3° reggimento Alpini sulle Alpi occidentali, alpinista ed istruttore di sci, ammesso alla Scuola di Guerra a ventisette anni, nel 1940 era stato inviato in missione al Comando Supremo della Wermacht, per la sua conoscenza della lingua tedesca, sulla linea Maginot. Dallo scoppio della guerra era stato, per ben tre anni, col Generale Vittorio Ambrosio, che aveva seguito all’ufficio operazioni della 2ª Armata, allo Stato Maggiore del Regio Esercito, al Comando Supremo, ed a Cassibile, col Generale Giuseppe Castellano, durante la fase conclusiva del negoziato per l’armistizio. Il Marchesi ha pubblicato, su questi eventi, due memorie: Come siamo arrivati a Brindisi, uscito per i tipi della Bompiani nel 1969, e: 1939-1945 – Dall’impreparazione alla resa incondizionata, edito da Mursia nel 1993. Il Generale Enrico Boscardi, Direttore del Centro Studî e Ricerche Storiche sulla Guerra di Liberazione, nel presentare quest’ultima pubblicazione del Marchesi, il 17 Giugno del 1993, in Palazzo Barberini, ha evidenziato alcuni elementi essenziali, sull’oggetto che ci concerne. Il Maggiore Luigi Marchesi era rientrato a Roma il 5 di Settembre del 1943, da Cassibile, per riferirne al Generale Vittorio Ambrosio, e consegnare, oltre ad una lettera del Gen. Giuseppe Castellano che accompagnava il testo dell’armistizio e delle clausole aggiuntive, un biglietto del Gen. Bedell Smith pel Maresciallo Pietro Badoglio e due pro memoria, per i Capi di Stato Maggiore della Regia Marina e della Regia Aeronautica e, per il SIM, l’Ordine di Operazioni per la 82ª divisione airborne degli Stati Uniti d’America, cioè il piano della famosa operazione GIANT DUE, colla quale quella divisione americana avrebbe dovuto essere aviotrasportata a Roma, il giorno stesso della pubblicazione dell’armistizio, per garantire la difesa della Capitale del Regno d’Italia dalle forze germaniche. Il successivo 7 Settembre giunsero a Roma il Gen. Maxwell Taylor ed il Col. William Tudor Gardiner per verificare la fattibilità dell’operazione GIANT DUE. Essi vennero ricevuti dal Col. Salvi e dallo stesso Marchesi. Questi assicurò al Gen. Taylor che i campi d’aviazione erano, con tutta probabilità, stati preparati per l’atterraggio dei velivoli che avrebbero dovuto trasportare la 82ª divisione aerotrasportata nordamericana. Infatti i relativi ordini erano stati impartiti allo Stato Maggiore della Regia Aeronautica il giorno 5. Perciò suggerì un’incontro col Gen. Giacomo Carboni, nella sua veste di Comandante del Corpo d’Armata Motorizzato, dal quale avrebbe dovuto dipendere la 82ª divisione aerotrasportata nordamericana durante l’operazione GIANT DUE, secondo gli accordi di Cassibile. Il Gen. Maxwell Taylor, tra l’altro, informò il Magg. Luigi Marchesi che «l’indomani notte saranno lanciati i paracadutisti e subito dopo gli aerei cominceranno ad atterrare». Egli aggiunse che, sempre l’indomani, 8 Settembre, sarà, contestualmente, il giorno dell’operazione Avalanche, cioè dello sbarco, ed il giorno in cui il Maresciallo Pietro Badoglio dovrà divulgare l’armistizio. Ciò malgrado il Marchesi avesse fatto presente all’ospite che il Comando Supremo non s’attendeva tale comunicazione prima di quattro o cinque giorni. Tuttavia, come ribatté il Taylor, l’armistizio di Cassibile non predefiniva alcuna data. Sopraggiunto il Generale Giacomo Carboni, questi volle parlare col Gen. Maxwell Taylor senza il Marchesi dichiarando, alla fine:«tutto aggiustato, adesso andiamo da Badoglio». Il Gen. Giacomo Carboni, dopo un colloquio col Gen. Maxwell Taylor ed il Col. William Tudor Gardiner ed un secondo colloquio a Villa Italia, residenza del Maresciallo Pietro Badoglio, indusse quest’ultimo a firmare un telegramma pel Gen. Dwight D. Eisenhower che chiedeva di ritardare la proclamazione dell’armistizio e cancellare l’operazione GIANT DUE: «dati cambiamenti e il precipitare situazione ed esistenza forze tedesche zona di Roma». Forze che renderebbero, a detta del Carboni, impossibile l’operazione della 82ª divisione paracadutisti, in quanto non ci sarebbero state forze sufficienti per garantire gli aeroporti. Solo dopo il messaggio di risposta del Gen. Dwight D. Eisenhower, che intima al rispetto degli impegni assunti e minaccia, in caso contrario, di far conoscere a tutto il mondo l’«affare», viene avvertito, dal Ministro Acquarone, S. M. il Re, che dispone immediatamente la convocazione del Consiglio della Corona per le ore cinque e mezza pomeridiane, nella sala del Don Chisciotte. Sono presenti il Capo del Governo Maresciallo Pietro Badoglio, il Capo di Stato Maggiore Generale Vittorio Ambrosio, il Ministro della Guerra Generale Antonio Sorice, il Ministro della Regia Marina Ammiraglio Raffaele De Courten, il Ministro della Regia Aeronautica Gen. Renato Sandalli, il capo del SIM, Gen. Giacomo Carboni, il Sottocapo di Stato Maggiore del Regio Esercito De Stefanis, in rappresentanza del Gen. Mario Roatta, Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito, impegnato in un colloquio col Gen. Westphall, l’Aiutante di campo di S. M. il Re Paolo Puntoni, ed il detto Magg. Luigi Marchesi. In quella sede il Gen. Giacomo Carboni, che aveva mandato a casa il Gen. Maxwell Taylor ed il Col. William Tudor Gardiner dopo aver di fatto annullato l’operazione GIANT DUE, attacca violentemente il Generale Giuseppe Castellano, la sua conduzione del negoziato per l’armistizio, tace ogni cosa sull’operazione GIANT DUE, che aveva rifiutato senza avvisare nessuno, e propone di sconfessare Capo del Governo, Capo di Stato Maggiore Generale, il Gen. Giuseppe Castellano, e di ritrovare immediatamente un’intesa coi germanici, e riconfermare l’alleanza dell’Asse e la volontà di proseguire la guerra al fianco del Terzo Impero Germanico nazionalsocialista. Il Magg. Marchesi, che era stato chiamato fuori dalla sala, vi rientra per dare la notizia che Radio Algeri, alle ore sei e mezza pomeridiane, aveva diffuso la proclamazione dell’armistizio col Regno d’Italia, sia col messaggio del Gen. Dwight D. Eisenhower che colla traduzione in Inglese del messaggio del Maresciallo Pietro Badoglio. Il Gen. Giacomo Carboni, a questo punto, riprese a parlare sostenendo che ciò non cambiava nulla nella sua proposta. Viene, però, interrotto dal Maggiore Luigi Marchesi, che inizia: «con una precisa esposizione degli accordi intervenuti con il Comando Alleato dopo la firma dell’armistizio, illustrai – egli prosegue – l’importanza che gli anglo-americani annettono alla nostra collaborazione militare. Essa soltanto, ed in misura della sua entità, avrebbe potuto cancellare la durezza delle clausole armistiziali». E proseguì:«La anticipazione dell’armistizio da parte degli alleati era per noi una dolorosa sorpresa. A rigore, però, gli alleati erano nei termini degli accordi, perché la data ipotetica del 12, indicata dal Gen. Castellano, (…) era frutto di una deduzione del generale stesso (…) Era stato un errore non dare credito alla comunicazione del Gen. Taylor e, peggio ancora, illudersi circa la possibilità di ottenere una proroga. Parlare di tradimento da parte degli anglo americani, come il Gen. Carboni aveva appena accennato, era assurdo (…) Non mantenere fede agli accordi presi e firmati avrebbe costituito storicamente un indelebile macchia di disonore per l’Italia. La firma dell’armistizio da parte del delegato italiano il giorno 3 era stata fotografata e cinematografata da giornalisti, fotografi e curiosi. Il testo del proclama che doveva subito, senza ulteriori ritardi, essere diramato dal Maresciallo Badoglio, si trovava nella sua stesura integrale nelle mani degli Alleati. C’era da aspettarsi, ritardando ancora, che ne dessero essi stessi lettura dalle loro stazioni radio (come, infatti, fecero). Dissi che qualora non avessimo mantenuto gli impegni presi, potevamo contare con tutta sicurezza su una vastissima reazione alleata. Raccontai che il Gen. Alexander ci aveva accolti a Cassibile, dopo aver saputo che il Gen. Castellano non aveva ancora la delega per firmare l’armistizio e come egli ci aveva fatto sapere che, sui campi dell’Africa settentrionale e della Sicilia, era concentrata la più grossa formazione da bombardamento che mai si fosse avuta durante la guerra. Il bombardamento aereo tedesco della città ci sarebbe, forse, stato; niente tuttavia, in confronto a quello che certamente avremmo potuto subire dagli anglo americani». Dopo un silenzio degli astanti, il Gen. Giacomo Carboni tentò di riprendere la parola, ma Sua Maestà il Re glielo impedì, con un gesto perentorio, si alzò, il Consiglio era sciolto. Uscirono tutti, tranne il Capo del Governo. Il Sovrano decise con rapidità; dopo qualche minuto uscì anche il Maresciallo Pietro Badoglio, e dichiarò: «Il Re ha deciso che l’armistizio venga proclamato secondo gli accordi». Chiese, quindi, al Gen. Vittorio Ambrosio da dove potesse trasmettere l’annuncio alla Nazione e, poiché non era stato installato al Quirinale nessun impianto per trasmissioni radiofoniche, come avrebbe dovuto essere installato per chiare disposizioni date al Gen. Carboni, si recò alla sede dell’EIAR, in via Asiago. Sul contesto nel quale si svolse il Consiglio della Corona l’8 Settembre del 1943, e sulle necessitate decisioni operative che ne seguirono, così ebbe ad esprimersi il Maresciallo Pietro Badoglio, pochi giorni dopo lo sbarco a Brindisi, parlando a Limone delle Puglie: «Mi si fa colpa di avere tardato a concludere l’armistizio. Cosa questa ingiusta, poiché è evidente che per addivenire ad una conclusione bisognava prima che aderisse anche l’altra parte: e sino al 3 Settembre noi non abbiamo avuto il consentimento alleato. Una semplice dichiarazione di resa, umiliante, ossia soltanto da parte nostra, ci avrebbe consegnato in pieno potere ai tedeschi senz’alcuna speranza di aiuto da parte degli anglo-americani ancora ben lontani da Roma […] Proclamato l’armistizio, subito le divisioni germaniche stanziate nei pressi della capitale si mossero contro la città, e, per cause che saranno a suo tempo appurate, dopo qualche episodio di eroica resistenza, la difesa crollò. Non era più possibile rimanere a Roma senza cadere nelle mani dei tedeschi (cioè, senza lasciare l’Italia priva di un governo legittimo); perciò, tutta la famiglia reale, io, e i ministri che avevo potuto avvertire, ci recammo a Brindisi, passando per Tivoli e Pescara» . Sua Maestà il Re, Vittorio Emanuele III, così descrive il contesto e le decisioni da Lui prese in base a quel Consiglio della Corona: «La sera dell’8 Settembre le divisioni tedesche che si trovavano nei pressi della capitale, mossero verso Roma. Se il lancio dei paracadutisti alleati nei dintorni della città avesse avuto luogo, oppure se lo sbarco ad Anzio fosse avvenuto l’8 Settembre, né il governo, né tantomeno il Re e la famiglia reale, si sarebbero mossi da Roma. Invece, rimanere prigionieri nella capitale, significava lasciare l’Italia priva del capo dello Stato e del governo legittimo, od unicamente con un governo illegittimo alla mercé dei tedeschi. […] Nulla di glorioso, ha detto qualcuno? Ma sembra che alla gloria un Re debba saper rinunciare quando l’interesse del Paese esige che egli operi in libertà e con vantaggio per la Nazione. Rimanere a Roma sarebbe stato fare la fine del reggente Horthy che i tedeschi costrinsero a dire alla radio il contrario di quanto spontaneamente espresso qualche giorno prima. Se nel 1940 gli inglesi fossero rimasti a Dunkerque per morire tutti sul posto, avrebbero scritto una pagina evidentemente più gloriosa, ma inutile, o ben poco utile, mentre gli stessi soldati servirono molto meglio dopo, quando l’esercito britannico, ricostituito, passò all’offensiva. Quindi, non fuga, né rifugio all’estero, per me, ciò che sarebbe stato abbandonare la Patria. Se mi recai col governo a Brindisi, cioè in una parte libera del suolo della Nazione, fu per creare in piena libertà un governo legittimo, ricostruire un esercito, come subito avvenne, evitando che i soldati delle divisioni italiane rimaste al Sud fossero considerati prigionieri di guerra. La cobelligeranza, ottenuta dal mio governo, salvò parecchie cose, compresi gli interessi personali di molti antimonarchici, specie dell’ultima ora, che con il loro carico d’odio non sarebbero rientrati in quel periodo in Italia senza la cobelligeranza» . Quindi il Re ed il governo avrebbero deciso diversamente se, l’8 Settembre del 1943, avesse avuto luogo l’operazione GIANT DUE, che non ebbe luogo perché, prima che S. M. il Re fosse informata d’alcun ché e convocasse il Consiglio della Corona, il Gen. Giacomo Carboni s’assunse la responsabilità morale, militare e politica di imporre agli alleati di rinunciare all’operazione già programmata. Dal tono delle dichiarazioni del Gen. Giacomo Carboni nel Consiglio della Corona si evince, altresì, come l’iniziativa del medesimo fosse ispirata dal tentativo di porre il Sovrano ed il governo nelle condizioni di denunciare l’armistizio appena sottoscritto e costringerli all’alleanza col Terzo Impero Tedesco, sino alla completa debellatio delle potenze dell’Asse, nel quadro d’una scelta politica decisamente filogermanica. Il Re, sentito l’intervento del semplice Maggiore Luigi Marchesi, invece, operò una scelta decisamente opposta e la attuò avendo il coraggio di decisioni certamente gravi, per le conseguenze, ma che si dimostrarono le uniche in grado di salvare la personalità internazionale dello Stato italiano nato dal primo Risorgimento, e di porre le basi istituzionali, militari e politiche della Guerra di Liberazione, secondo Risorgimento d’una Nazione. E vennero scelte le province libere del mezzogiorno, anziché la Sardegna, come innanzi programmato, per essere più vicini al fronte, ed agli italiani delle province occupate, esattamente come in altre circostanze il Re soldato decise di resistere sulla linea del Piave, invece che ritirarsi sul Po, come anche allora avrebbero preferito gli alleati.

mercoledì 9 febbraio 2011

Ritirata di Russia e 150°  Anniversario dell'Unità d'Italia
Rossosch (Medio Don). Percorrere una delle strade più tragiche della Storia d’Italia. E’ questa l’idea, che sta realizzando un gruppo di camminatori lombardi. Sono in cinque, tutti con considerevoli esperienze come alpini e scout. Alessio Cabello, Cristiano Baroni, Diego Pellacini, Giancarlo Cotta Ramusino e Nicola Mandelli hanno organizzato questa passeggiata di oltre 150 chilometri dalle rive del fiume Don a Nikolajewka, l’odierna Livenka, dove, il 26 gennaio 1943, quello che rimaneva delle divisioni italiane riuscì a rompere l’accerchiamento delle truppe sovietiche ed uscì dall’infernale “sacca”. Decine di migliaia di nostri ragazzi persero la vita in quelle giornate terribili, le peggiori di sempre per le Forze Armate italiane. Le temperature erano allora intorno ai 30 gradi sottozero, i campi pieni di neve e le vie principali occupate dai mezzi corazzati sovietici.

L’anniversario del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia ha reso questa iniziativa ancora più significativa. Il nostro – hanno scritto prima della partenza – “è un cammino che vuole incontrare anche coloro che vivono in quelle terre. Non ci sono vette da conquistare o méte da raggiungere. E’ un viaggio per ricordare quanto terribile sia il dramma della guerra e per prodigarsi per evitarla in futuro”.
In passato tre di loro hanno percorso più volte il cammino di Santiago di Compostela, quello di San Francesco, la via Francigena. Diego Pellacini ha girato molto in America ed in Africa, mentre Nicola Mandelli ha scalato montagne come l’Aconcagua o il Kilimangiaro.
“Ogni territorio – dice Giancarlo Cotta Ramusino – vive la propria evoluzione: il tempo non si è certo fermato al 1943 così come verso Roncisvalle non si ode il corno di Rolando”. Proprio per cercare al massimo il contatto con la gente il gruppo non ha portato con sé delle tende. Come 68 anni fa furono costretti a fare i militari dell’Armir – per non restare di notte all’addiaccio – chiederanno ospitalità nelle izbe. Sono tantissime le storie delle donne russe ed ucraine che curarono, salvandoli, i nostri poveri ragazzi assiderati così assomiglianti ai loro figli schierati, però, sul fronte opposto. L’anima slava ha sempre un posto di riguardo verso chi soffre.
“L’idea di questa impresa – continua Cotta Ramusino – è venuta a Cristiano Baroni circa un anno fa. A me subito è apparsa un po’ troppo ambiziosa”. La parte più complessa è stata quella di raccogliere informazioni sufficienti soprattutto perché nessuno del gruppo parla russo. L’incontro con la professoressa Gianna Valsecchi e l’ausilio della sezione Ana di Casatenovo si sono rivelati “fondamentali”.
Infatti, se si cerca sulle carte geografiche russe non si trova Nikolajewka, dizione presente sulle carte militari tedesche della Prima guerra mondiale utilizzate dalle truppe italiane. Lo stesso Mario Rigoni Stern, autore dell’indimenticabile racconto “Il Sergente nella neve”, ebbe non poche difficoltà a ritrovare il luogo dove lasciò per sempre tanti suoi compagni d’armi. Scoprì, però, l’izba in cui mangiò insieme a dei soldati nemici in un momento di tregua della battaglia. Certe cose incredibili accadono solo in Russia.
Vedi anche MUSEO DEL MEDIO DON Rossosch – Russia.
g.d’a.


Nella Collana Storia In Laboratorio è stato pubblicato il volume N.14

Massimo. Coltrinari.


I prigionieri italiani nella Seconda Guerra Mondiale in Unione Sovietica
 La guerra Italiana all’URSS – 1941-1943
 Le Operazioni
 Roma, Editrice Nuova Cultura, Euro 20

Il Volume può essere chiesto a odrini@nuovacultura.it oppre a risorgimento23@libero.it

martedì 4 gennaio 2011

Presentazione del vol. n. 6 della Collana Storia in Laboratorio


Il Comune di Osimo, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia A.N.P.I., Associazione Combattenti della Guerra di Liberazione, Venerdi 14 Gennaio 2011 ore 17,30, nella Sala Grande del Palazzo Municipale, organizzano, con l’introduzione di Massimo Morroni, la presentazione del volume di

Giorgio Prinzi e Massimo Coltrinari

“Salvare il Salvabile”
La crisi armistiziale dell’8 settembre 1943. Per gli Italiani il momento delle scelte
Edizioni Nuova Cultura Università La Sapienza Roma

L’incontro si inserisce nelle attività per dotare Osimo di un Giardino della Memoria dedicato alle vittime civili del 1940-1945, e quelle per il riaddobbo del Monumento al Corpo Italiano di Liberazione in località Casenuove

Elementi indicativi e contenuti del volume sono disponibili su www.coltrinarimassimo.blogspot.com

domenica 2 gennaio 2011

Relazione

Il Consiglio della Corona dell’8 Settembre 1943, nelle memorie del maggiore Luigi Marchesi
e nelle motivazioni
del Maresciallo Pietro Badoglio e di S. M. il Re Vittorio Emanuele III

Riccardo Scarpa

Il Consiglio della Corona, convocato da S. M. il Re Vittorio Emanuele III, alle cinque e mazza pomeridiane dell’8 Settembre 1943, nella sala Don Chisciotte del Palazzo del Quirinale, nel quale verrà deciso di dare notizia dell’armistizio firmato a Cassibile da parte del Generale Giuseppe Castellano e del Generale Walter Bedell Smith, e gli eventi che hanno immediatamente preceduto la riunione, condizionandone l’esito, e ne sono seguiti, costituiscono tasselli imprescindibili per ricostruire esattamente un momento determinante nella Storia d’Italia. Eventi, peraltro, descritti solo da testimonianze dei presenti, con tutti i limiti che tale fonte pone. La descrizione più dettagliata è senza dubbio contenuta nella testimonianza dell’allora Maggiore Luigi Marchesi, in servizio allo Stato Maggiore del Regio Esercito, proveniente dagli Alpini. Figlio d’un Colonnello del Regio Esercito, era entrato nella Regia Accademia di Fanteria e Cavalleria nel 1928. Sottotenente nel 1931 ed inviato al 3° reggimento Alpini sulle Alpi occidentali, alpinista ed istruttore di sci, ammesso alla Scuola di Guerra a ventisette anni, nel 1940 era stato inviato in missione al Comando Supremo della Wermacht, per la sua conoscenza della lingua tedesca, sulla linea Maginot. Dallo scoppio della guerra era stato, per ben tre anni, col Generale Vittorio Ambrosio, che aveva seguito all’ufficio operazioni della 2ª Armata, allo Stato Maggiore del Regio Esercito, al Comando Supremo, ed a Cassibile, col Generale Giuseppe Castellano, durante la fase conclusiva del negoziato per l’armistizio. Il Marchesi ha pubblicato, su questi eventi, due memorie: Come siamo arrivati a Brindisi, uscito per i tipi della Bompiani nel 1969, e: 1939-1945 – Dall’impreparazione alla resa incondizionata, edito da Mursia nel 1993. Il Generale Enrico Boscardi, Direttore del Centro Studî e Ricerche Storiche sulla Guerra di Liberazione, nel presentare quest’ultima pubblicazione del Marchesi, il 17 Giugno del 1993, in Palazzo Barberini, ha evidenziato alcuni elementi essenziali, sull’oggetto che ci concerne. Il Maggiore Luigi Marchesi era rientrato a Roma il 5 di Settembre del 1943, da Cassibile, per riferirne al Generale Vittorio Ambrosio, e consegnare, oltre ad una lettera del Gen. Giuseppe Castellano che accompagnava il testo dell’armistizio e delle clausole aggiuntive, un biglietto del Gen. Bedell Smith pel Maresciallo Pietro Badoglio e due pro memoria, per i Capi di Stato Maggiore della Regia Marina e della Regia Aeronautica e, per il SIM, l’Ordine di Operazioni per la 82ª divisione airborne degli Stati Uniti d’America, cioè il piano della famosa operazione GIANT DUE, colla quale quella divisione americana avrebbe dovuto essere aviotrasportata a Roma, il giorno stesso della pubblicazione dell’armistizio, per garantire la difesa della Capitale del Regno d’Italia dalle forze germaniche. Il successivo 7 Settembre giunsero a Roma il Gen. Maxwell Taylor ed il Col. William Tudor Gardiner per verificare la fattibilità dell’operazione GIANT DUE. Essi vennero ricevuti dal Col. Salvi e dallo stesso Marchesi. Questi assicurò al Gen. Taylor che i campi d’aviazione erano, con tutta probabilità, stati preparati per l’atterraggio dei velivoli che avrebbero dovuto trasportare la 82ª divisione aerotrasportata nordamericana. Infatti i relativi ordini erano stati impartiti allo Stato Maggiore della Regia Aeronautica il giorno 5. Perciò suggerì un’incontro col Gen. Giacomo Carboni, nella sua veste di Comandante del Corpo d’Armata Motorizzato, dal quale avrebbe dovuto dipendere la 82ª divisione aerotrasportata nordamericana durante l’operazione GIANT DUE, secondo gli accordi di Cassibile. Il Gen. Maxwell Taylor, tra l’altro, informò il Magg. Luigi Marchesi che «l’indomani notte saranno lanciati i paracadutisti e subito dopo gli aerei cominceranno ad atterrare». Egli aggiunse che, sempre l’indomani, 8 Settembre, sarà, contestualmente, il giorno dell’operazione Avalanche, cioè dello sbarco, ed il giorno in cui il Maresciallo Pietro Badoglio dovrà divulgare l’armistizio. Ciò malgrado il Marchesi avesse fatto presente all’ospite che il Comando Supremo non s’attendeva tale comunicazione prima di quattro o cinque giorni. Tuttavia, come ribatté il Taylor, l’armistizio di Cassibile non predefiniva alcuna data. Sopraggiunto il Generale Giacomo Carboni, questi volle parlare col Gen. Maxwell Taylor senza il Marchesi dichiarando, alla fine:«tutto aggiustato, adesso andiamo da Badoglio». Il Gen. Giacomo Carboni, dopo un colloquio col Gen. Maxwell Taylor ed il Col. William Tudor Gardiner ed un secondo colloquio a Villa Italia, residenza del Maresciallo Pietro Badoglio, indusse quest’ultimo a firmare un telegramma pel Gen. Dwight D. Eisenhower che chiedeva di ritardare la proclamazione dell’armistizio e cancellare l’operazione GIANT DUE: «dati cambiamenti e il precipitare situazione ed esistenza forze tedesche zona di Roma». Forze che renderebbero, a detta del Carboni, impossibile l’operazione della 82ª divisione paracadutisti, in quanto non ci sarebbero state forze sufficienti per garantire gli aeroporti. Solo dopo il messaggio di risposta del Gen. Dwight D. Eisenhower, che intima al rispetto degli impegni assunti e minaccia, in caso contrario, di far conoscere a tutto il mondo l’«affare», viene avvertito, dal Ministro Acquarone, S. M. il Re, che dispone immediatamente la convocazione del Consiglio della Corona per le ore cinque e mezza pomeridiane, nella sala del Don Chisciotte. Sono presenti il Capo del Governo Maresciallo Pietro Badoglio, il Capo di Stato Maggiore Generale Vittorio Ambrosio, il Ministro della Guerra Generale Antonio Sorice, il Ministro della Regia Marina Ammiraglio Raffaele De Courten, il Ministro della Regia Aeronautica Gen. Renato Sandalli, il capo del SIM, Gen. Giacomo Carboni, il Sottocapo di Stato Maggiore del Regio Esercito De Stefanis, in rappresentanza del Gen. Mario Roatta, Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito, impegnato in un colloquio col Gen. Westphall, l’Aiutante di campo di S. M. il Re Paolo Puntoni, ed il detto Magg. Luigi Marchesi. In quella sede il Gen. Giacomo Carboni, che aveva mandato a casa il Gen. Maxwell Taylor ed il Col. William Tudor Gardiner dopo aver di fatto annullato l’operazione GIANT DUE, attacca violentemente il Generale Giuseppe Castellano, la sua conduzione del negoziato per l’armistizio, tace ogni cosa sull’operazione GIANT DUE, che aveva rifiutato senza avvisare nessuno, e propone di sconfessare Capo del Governo, Capo di Stato Maggiore Generale, il Gen. Giuseppe Castellano, e di ritrovare immediatamente un’intesa coi germanici, e riconfermare l’alleanza dell’Asse e la volontà di proseguire la guerra al fianco del Terzo Impero Germanico nazionalsocialista. Il Magg. Marchesi, che era stato chiamato fuori dalla sala, vi rientra per dare la notizia che Radio Algeri, alle ore sei e mezza pomeridiane, aveva diffuso la proclamazione dell’armistizio col Regno d’Italia, sia col messaggio del Gen. Dwight D. Eisenhower che colla traduzione in Inglese del messaggio del Maresciallo Pietro Badoglio. Il Gen. Giacomo Carboni, a questo punto, riprese a parlare sostenendo che ciò non cambiava nulla nella sua proposta. Viene, però, interrotto dal Maggiore Luigi Marchesi, che inizia: «con una precisa esposizione degli accordi intervenuti con il Comando Alleato dopo la firma dell’armistizio, illustrai – egli prosegue – l’importanza che gli anglo-americani annettono alla nostra collaborazione militare. Essa soltanto, ed in misura della sua entità, avrebbe potuto cancellare la durezza delle clausole armistiziali». E proseguì:«La anticipazione dell’armistizio da parte degli alleati era per noi una dolorosa sorpresa. A rigore, però, gli alleati erano nei termini degli accordi, perché la data ipotetica del 12, indicata dal Gen. Castellano, (…) era frutto di una deduzione del generale stesso (…) Era stato un errore non dare credito alla comunicazione del Gen. Taylor e, peggio ancora, illudersi circa la possibilità di ottenere una proroga. Parlare di tradimento da parte degli anglo americani, come il Gen. Carboni aveva appena accennato, era assurdo (…) Non mantenere fede agli accordi presi e firmati avrebbe costituito storicamente un indelebile macchia di disonore per l’Italia. La firma dell’armistizio da parte del delegato italiano il giorno 3 era stata fotografata e cinematografata da giornalisti, fotografi e curiosi. Il testo del proclama che doveva subito, senza ulteriori ritardi, essere diramato dal Maresciallo Badoglio, si trovava nella sua stesura integrale nelle mani degli Alleati. C’era da aspettarsi, ritardando ancora, che ne dessero essi stessi lettura dalle loro stazioni radio (come, infatti, fecero). Dissi che qualora non avessimo mantenuto gli impegni presi, potevamo contare con tutta sicurezza su una vastissima reazione alleata. Raccontai che il Gen. Alexander ci aveva accolti a Cassibile, dopo aver saputo che il Gen. Castellano non aveva ancora la delega per firmare l’armistizio e come egli ci aveva fatto sapere che, sui campi dell’Africa settentrionale e della Sicilia, era concentrata la più grossa formazione da bombardamento che mai si fosse avuta durante la guerra. Il bombardamento aereo tedesco della città ci sarebbe, forse, stato; niente tuttavia, in confronto a quello che certamente avremmo potuto subire dagli anglo americani». Dopo un silenzio degli astanti, il Gen. Giacomo Carboni tentò di riprendere la parola, ma Sua Maestà il Re glielo impedì, con un gesto perentorio, si alzò, il Consiglio era sciolto. Uscirono tutti, tranne il Capo del Governo. Il Sovrano decise con rapidità; dopo qualche minuto uscì anche il Maresciallo Pietro Badoglio, e dichiarò: «Il Re ha deciso che l’armistizio venga proclamato secondo gli accordi». Chiese, quindi, al Gen. Vittorio Ambrosio da dove potesse trasmettere l’annuncio alla Nazione e, poiché non era stato installato al Quirinale nessun impianto per trasmissioni radiofoniche, come avrebbe dovuto essere installato per chiare disposizioni date al Gen. Carboni, si recò alla sede dell’EIAR, in via Asiago. Sul contesto nel quale si svolse il Consiglio della Corona l’8 Settembre del 1943, e sulle necessitate decisioni operative che ne seguirono, così ebbe ad esprimersi il Maresciallo Pietro Badoglio, pochi giorni dopo lo sbarco a Brindisi, parlando a Limone delle Puglie: «Mi si fa colpa di avere tardato a concludere l’armistizio. Cosa questa ingiusta, poiché è evidente che per addivenire ad una conclusione bisognava prima che aderisse anche l’altra parte: e sino al 3 Settembre noi non abbiamo avuto il consentimento alleato. Una semplice dichiarazione di resa, umiliante, ossia soltanto da parte nostra, ci avrebbe consegnato in pieno potere ai tedeschi senz’alcuna speranza di aiuto da parte degli anglo-americani ancora ben lontani da Roma […] Proclamato l’armistizio, subito le divisioni germaniche stanziate nei pressi della capitale si mossero contro la città, e, per cause che saranno a suo tempo appurate, dopo qualche episodio di eroica resistenza, la difesa crollò. Non era più possibile rimanere a Roma senza cadere nelle mani dei tedeschi (cioè, senza lasciare l’Italia priva di un governo legittimo); perciò, tutta la famiglia reale, io, e i ministri che avevo potuto avvertire, ci recammo a Brindisi, passando per Tivoli e Pescara» . Sua Maestà il Re, Vittorio Emanuele III, così descrive il contesto e le decisioni da Lui prese in base a quel Consiglio della Corona: «La sera dell’8 Settembre le divisioni tedesche che si trovavano nei pressi della capitale, mossero verso Roma. Se il lancio dei paracadutisti alleati nei dintorni della città avesse avuto luogo, oppure se lo sbarco ad Anzio fosse avvenuto l’8 Settembre, né il governo, né tantomeno il Re e la famiglia reale, si sarebbero mossi da Roma. Invece, rimanere prigionieri nella capitale, significava lasciare l’Italia priva del capo dello Stato e del governo legittimo, od unicamente con un governo illegittimo alla mercé dei tedeschi. […] Nulla di glorioso, ha detto qualcuno? Ma sembra che alla gloria un Re debba saper rinunciare quando l’interesse del Paese esige che egli operi in libertà e con vantaggio per la Nazione. Rimanere a Roma sarebbe stato fare la fine del reggente Horthy che i tedeschi costrinsero a dire alla radio il contrario di quanto spontaneamente espresso qualche giorno prima. Se nel 1940 gli inglesi fossero rimasti a Dunkerque per morire tutti sul posto, avrebbero scritto una pagina evidentemente più gloriosa, ma inutile, o ben poco utile, mentre gli stessi soldati servirono molto meglio dopo, quando l’esercito britannico, ricostituito, passò all’offensiva. Quindi, non fuga, né rifugio all’estero, per me, ciò che sarebbe stato abbandonare la Patria. Se mi recai col governo a Brindisi, cioè in una parte libera del suolo della Nazione, fu per creare in piena libertà un governo legittimo, ricostruire un esercito, come subito avvenne, evitando che i soldati delle divisioni italiane rimaste al Sud fossero considerati prigionieri di guerra. La cobelligeranza, ottenuta dal mio governo, salvò parecchie cose, compresi gli interessi personali di molti antimonarchici, specie dell’ultima ora, che con il loro carico d’odio non sarebbero rientrati in quel periodo in Italia senza la cobelligeranza» . Quindi il Re ed il governo avrebbero deciso diversamente se, l’8 Settembre del 1943, avesse avuto luogo l’operazione GIANT DUE, che non ebbe luogo perché, prima che S. M. il Re fosse informata d’alcun ché e convocasse il Consiglio della Corona, il Gen. Giacomo Carboni s’assunse la responsabilità morale, militare e politica di imporre agli alleati di rinunciare all’operazione già programmata. Dal tono delle dichiarazioni del Gen. Giacomo Carboni nel Consiglio della Corona si evince, altresì, come l’iniziativa del medesimo fosse ispirata dal tentativo di porre il Sovrano ed il governo nelle condizioni di denunciare l’armistizio appena sottoscritto e costringerli all’alleanza col Terzo Impero Tedesco, sino alla completa debellatio delle potenze dell’Asse, nel quadro d’una scelta politica decisamente filogermanica. Il Re, sentito l’intervento del semplice Maggiore Luigi Marchesi, invece, operò una scelta decisamente opposta e la attuò avendo il coraggio di decisioni certamente gravi, per le conseguenze, ma che si dimostrarono le uniche in grado di salvare la personalità internazionale dello Stato italiano nato dal primo Risorgimento, e di porre le basi istituzionali, militari e politiche della Guerra di Liberazione, secondo Risorgimento d’una Nazione. E vennero scelte le province libere del mezzogiorno, anziché la Sardegna, come innanzi programmato, per essere più vicini al fronte, ed agli italiani delle province occupate, esattamente come in altre circostanze il Re soldato decise di resistere sulla linea del Piave, invece che ritirarsi sul Po, come anche allora avrebbero preferito gli alleati.