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mercoledì 25 maggio 2011

“Non si parte!” : il movimento di renitenza alla leva nel Regno del Sud

Gioconda Bartolotta

Il 23 novembre 1944 viene pubblicato sui quotidiani l’annuncio del bando di “Presentazione alle armi “ per i giovani delle classi dal 1914 al primo scaglione di quella del 1924, rispondente all’esigenza di completare l’organico delle forze impegnate sul campo e che avrebbe dovuto trovare realizzazione a cominciare dal Lazio e dalla Campania per concludersi in Sicilia. Si trattava in sostanza di continuare nell’azione di ricostituzione dell’esercito, intrapresa dal governo subito dopo il trasferimento a Brindisi, che si era resa necessaria in seguito allo sbandamento dei soldati dopo l’annuncio dell’armistizio .

In Sicilia, però, la reazione al provvedimento in questione non si fece attendere e, sui muri di ogni centro dell’isola, presero a comparire scritte di aperta disapprovazione per lo stesso, cui presto si accompagnò la diffusione di manifesti che sollecitavano a non rispondere al richiamo e nei quali si sottolineava il bisogno, che la Sicilia stessa aveva, di giovani di cui servirsi per ricostruire quanto era andato distrutto e per rifondare su valori nuovi e diversi lo spirito della sua popolazione martoriata dal recente conflitto. Era dunque impensabile, in una situazione del genere, che questi accettassero di buon grado di andare in guerra.

Alla necessità dello Stato di tenere fede agli impegni contratti con gli Alleati, con la quale pure si voleva giustificare il richiamo alle armi, si rispondeva che comunque la nostra era una nazione vinta e che quegli stessi Alleati che ci avrebbero potuto aiutare a ricostruirla “(...) non possono dimenticare - e a ragione - che fra loro e noi c’è un taglio più forte di loro stessi (...) aperto col sangue dei caduti loro in tre anni di guerra“ . Considerazione amara e polemica dalla quale pare trasparire una non totale fiducia a proposito del reale atteggiamento che gli Alleati potevano adottare nei nostri confronti.

Di diverso tono il contenuto di un volantino, ritrovato vicino Palermo, diffuso da un gruppo di studenti, nel quale si sottolineava che le condizioni poste con l’armistizio dell’8 settembre erano così indegne per il fiero popolo italiano che questo non avrebbe dovuto legittimarle presentandosi alle armi, essendo unica condizione valida per tornare a combattere che l’Italia venisse riconosciuta come un vero e proprio paese alleato .

Un manifesto rinvenuto ad Agrigento poneva l’accento sul fatto che l’Italia - come già era stato annunciato - avrebbe dovuto subire forti perdite territoriali, una volta terminata la guerra, e questa era una prospettiva che - al pari di tante altre - non poteva certa essere considerata come favorevole, ai fini della presentazione alle armi .

Molto forte l’attacco contenuto in un altro manifesto ritrovato, anche questo, a Palermo: “ (...) l’infame nemico di ieri e di sempre ricco di dollari e di sterline ha bisogno di carne da cannone per risparmiare i suoi preziosi soldati. Al solito i vilissimi nostrani che hanno impedito ai valorosi soldati italiani di conquistare la vittoria, vorrebbero mandare a morire per la grandezza dell’America e della Inghilterra la nostra gioventù (...)“.

La matrice politica di quest’appello è più immediatamente individuabile che nei precedenti, leggendosi ad un certo punto “ (...) I fratelli del Nord si accingono a venire a liberarvi. E’ questione di qualche mese e sarà la vera liberazione (...)“ . Nel considerare quanto accadde tra il 1944 ed il 1945 in Sicilia non si può infatti sorvolare sul ruolo svolto in proposito dai fascisti che, nel malcontento popolare, speravano di trovare terreno fertile per il progetto di una loro riorganizzazione, ora che il duce, libero e a capo della RSI sostenuta dai tedeschi, aveva ripreso fiato ed annunciava potersi ancora, sul fronte bellico, “ristabilire in un primo tempo l’equilibrio e successivamente la ripresa delle iniziative in mano germanica“ , il che avrebbe dovuto avere conseguenze facilmente intuibili sulle sorti politiche italiane .

Per diverso tempo, la contestazione mantenne un carattere non violento ma, in seguito, degenerò in atti che di pacifico avevano ben poco. Così il 14 dicembre la popolazione insorge a Catania, in risposta all’uccisione di un giovane dimostrante, colpito dal fuoco dei militari .

Il “ Tempo “ del 15 dicembre 1944 titola: “Manifestazioni di studenti contro il richiamo alle armi - Molti edifici pubblici tra i quali il Municipio, il Tribunale , e l’Ufficio Leva incendiati “.

L’insurrezione continua fino al giorno successivo, quando esercito e polizia riassumono finalmente il controllo della situazione.

Diversi quotidiani si occuparono di tale episodio sia ricostruendone la dinamica che commentandolo nel merito, seguendo, nel far ciò, una linea comune, ponendo cioè l’accento su quanto importante fosse in quel momento “la ricostruzione del paese “cui bisognava che tutti contribuissero senza lasciarsi andare a gesti istintivi ed incontrollati .

In relazione ai fatti accaduti, il 15 dicembre era intervenuto anche il C.L.N. della provincia che, nell’esprimere tutto il suo sdegno per quanto avvenuto, poneva l’accento sull’operato “(...) degli elementi separatisti in combutta con gli affini superstiti del fascismo (...)” la cui azione era certo tesa a “(...) creare imbarazzi e difficoltà ai movimenti politici ansiosi di lavorare per la ricostruzione materiale e morale del paese (...)“. Si invitava pertanto la popolazione a mantenersi estranea a tali indegni propositi .

Il punto sui disordini cittadini viene fatto anche in un articolo de “L’Unità” – sempre del 15 dicembre – in un trafiletto del quale si riporta un comunicato diramato dall’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio che “(…) deplora il tentativo di sabotare la guerra liberatrice, tanto più esecrabile ove si consideri che nel resto d’Italia l’arruolamento procede regolarmente e che nelle regioni ancora occupate i patrioti offrono spontaneamente il loro contributo di sangue e di martirio nell’impari lotta contro il nemico (…)” e che si conclude con un appello alla “(…) generosa popolazione siciliana perché, raccolta nelle sue organizzazioni politiche e sindacali, collabori con le pubbliche autorità per mantenere nell’isola le nobili tradizioni di solidarietà nazionale (…)” .

Nello stesso periodo violenti scontri si ebbero anche in altre zone dell’isola, nonostante l’Alto Commissario per la Sicilia - nel tentativo di prevenire ulteriori disordini - avesse disposto il divieto di riunione e di assembramento nei luoghi pubblici e presto la rivolta popolare si estese a ben cinque province dell’isola.

Uno dei luoghi più “caldi” fu certamente Ragusa, dove, dopo l’arrivo delle prime cartoline di richiamo, la popolazione venne chiamata ad una riunione e si procedette ad istituire un comitato che elaborasse un piano di azione. Tra i motivi che spingevano i richiamati ragusani a non presentarsi alle armi era di non poco conto il fatto che molti di loro avevano in precedenza militato nelle fila degli armati della RSI - anzi Ragusa, per la resistenza opposta al governo, sembra essersi meritata la medaglia d’oro della Repubblica di Salò - e pertanto, ora, ritenevano di non poter rispondere ad una “(...) assurda e mostruosa chiamata, che doveva schierarli contro quegli stessi uomini con i quali avevano condiviso le ansie, le trepidazioni, i dolori e le sofferenze di una guerra che assieme avevano voluto e combattuto (...)”. Anche in questo caso l’esito era scontato, grazie all’intervento repentino ed efficace delle forze di polizia. La città fu riconsegnata all’ordine e si avviò subito il rastrellamento dei quartieri nei quali aveva avuto origine la sommossa, tra cui quello divenuto famoso de “I mastri dei carretti” che era stato “(...) il primo a sentire il grido dei Non si parte (...)” . L’operazione si concluse con l’arresto di molti dei protagonisti dei moti e con il loro invio al confino nell’isola di Ustica, che poterono abbandonare solo nel luglio 1946 in seguito all’amnistia disposta dalla Repubblica .

A dicembre anche Palermo insorge. La sommossa palermitana aveva, però, avuto un drammatico precedente nella strage del 19 ottobre 1944, quando i soldati – pure in seguito ad una aggressione di cui vennero fatti oggetto – spararono sulla folla che manifestava contro il carovita in contemporanea con lo sciopero degli impiegati comunali. Due mesi dopo, il 15 dicembre 1944, studenti universitari manifestarono contro il richiamo alle armi, contestazione che venne subito negativamente giudicata e dal C.L.N. e dalla locale sezione del Movimento Giovanile Comunista .

A leggere però il numero del “ Popolo “ del giorno successivo sembra che la sommossa di Palermo - anch’essa inevitabilmente degenerata in fatti di sangue - si sia distinta da quella di Catania per aver avuto, quest’ultima, un carattere più politico - la reazione contraria ai richiami, appunto- che non la prima, per lo scoppio della quale decisiva sarebbe stata “(...) la fame, dovuta al prezzo governativo del pane (...)” .

Lo stesso articolista afferma inoltre che di una tale situazione avrebbero approfittato tanto i fascisti quanto i separatisti, per favorire i loro reciproci e, in certi casi, convergenti interessi, sobillando la pubblica opinione e spronando il popolo alla rivolta.

Il ruolo del separatismo


Tra i separatisti c’erano delle componenti il cui primario intento era quello di non consentire lo sviluppo ulteriore dei partiti impegnati nella guerra che si facevano portatori di istanze popolari e che così grande consenso erano già riusciti a conseguire tra le masse.

Nel movimento separatista – che sembra, però, fosse riuscito a trovare sostenitori anche fra gli studenti, “(…) per un malinteso spirito di orgoglio regionale” - militavano infatti per lo più elementi della grande borghesia agraria, la cui preoccupazione principale era la difesa del diritto di proprietà il che, evidentemente, li rendeva “nemici naturali“ del partito comunista che tanta parte ricopriva nella guerra di liberazione - e che in Sicilia era il più grande partito di massa - lasciando così supporre che , una volta che il governo dell’Italia liberata fosse riuscito ad estendere la sua giurisdizione sul resto del paese, questo si sarebbe visto riconosciuto il contributo a ciò fornito con “ricompense “ di natura politica .

Col nuovo Alto Commissario per la Sicilia, Aldisio - che sostituiva l’ex Prefetto di Palermo, Francesco Musotto, che della stessa carica era stato in precedenza investito su decisione degli Alleati e che si distingueva dal primo per le sue simpatie socialiste - era giunta al potere la Democrazia Cristiana il che si ritenne potesse aprire delle strade ad un’azione anticomunista svolta, come dice La Morsa, “dall’interno attraverso azioni più o meno indirette“ . In tal modo, offrendo ai grandi proprietari una garanzia al mantenimento del proprio status economico - il che aveva una valenza politica rilevantissima, dato chepermetteva di incanalare e di controllare le tendenze eversive che questi, con la loro presenza nel movimento separatista, sembravano sostenere - si rendeva possibile adottare, ora, nei confronti del separatismo una politica di opposizione più decisa e severa rispetto a quanto non si fosse potuto fare con Musotto il quale - per ovvie ragioni politiche - non poteva che mostrarsi disponibile ad una azione cauta e di compromesso . Sul tema del separatismo interviene in quei giorni la “Voce Repubblicana“ che nel precisare come “(...) il nome stesso del movimento separatista è un errore, tanto più grave perchè per molti è un equivoco (...)“, ridimensiona - o almeno tenta di farlo - il carattere di estremismo per cui il movimento si era distinto.

L’autore dell’articolo in proposito sostiene che il sentimento diffuso nell’isola è quello repubblicano, non volendo più la Sicilia sentire parlare di Savoia e di monarchia, chè le ricordano una gestione accentratrice e “coloniale “, un regime ed una guerra che le ha portato solo lutti.

Era da questa istituzione, deludente e poco responsabile, che ci si doveva allontanare e non dall’Italia.

E’ certo, comunque, che il Governo dell’Italia liberata prese atto dell’insofferenza che cresceva nell’isola a riguardo e dell’esigenza, che andava facendosi sempre più sentita, di affidarne l’amministrazione non più ad autorità a tale scopo inviate in Sicilia in rappresentanza dello Stato centrale ma a personale del luogo che, della propria terra, conoscesse tutte le ricchezze, i problemi e le potenzialità . Per quanto riguarda nello specifico il movimento separatista propriamente inteso, è certo che i suoi membri agirono da protagonisti nelle vicende successive al richiamo alle armi, addirittura traendo dalle sollevazioni popolari tanto di quel vigore che si impegnarono nella loro causa fino ad arrivare al punto di poter da lì a poco - queste le voci che circolavano - giungere a proclamare l’indipendenza dell’isola .

e repubbliche del 1944 – 45. La Repubblica di Comiso

Così a Comiso, dove sembrava che i tempi fossero ormai maturi perchè si potesse realizzare il progetto - preparato già da tempo - dell’on. La Rosa che aveva cercato e trovato l’appoggio dei separatisti del luogo per far partire, non appena ci fosse stato il richiamo alle armi, una rivolta che si sarebbe poi dovuta estendere al resto della Sicilia.

E così nel dicembre del 1944, gli studenti del paese, ricevuta la cartolina di richiamo, iniziarono una protesta nella quale subito coinvolsero il resto della popolazione che prese a guardare ad essi come a dei “benemeriti “.
Vennero organizzati comizi e dimostrazioni in cui i giovani intervenivano facendosi portatori del sentimento di delusione che tanti aveva assalito al momento dell’annuncio, da parte del Governo, del cambiamento di fronte. Ed ora finalmente, anche per quanti ritenevano che i morti amaramente pianti, la fame e gli stenti giustificassero la protesta molto più di qualunque scelta politica - per quanto non condivisibile essa fosse - era arrivato il tempo di ergersi contro chi a quelle durissime condizioni di vita li voleva ulteriormente costringere, piuttosto che agire concretamente per porvi rimedio.

Fu anzi addirittura necessario che gli studenti, ritenendo che non fosse ancora il momento giusto, placassero gli animi di tutti quelli che, esasperati, avrebbero voluto subito ricorrere alla forza.

Niente fu lasciato al caso. Si procedette a rifornire gli uomini di tutte le armi, di ogni specie, che fu possibile rastrellare, “(...) la città fu divisa in zone e gli uomini inquadrati nelle squadre cittadine che dovevano controllare tutta l’attività e costituire l’esercito permanente della Repubblica di Comiso (...)“ .

Venne istituito un “ Comitato del Popolo” che dichiarò decaduta l’autorità dello Stato e costituita, di contro, la Repubblica di Comiso alla quale sembra che Mussolini avrebbe conferito la medaglia d’argento della RSI .

Per diversi giorni i comisani riuscirono a respingere tutti i tentativi fatti dai militari di riconquistare le loro posizioni e ripristinare l’ordine pubblico nel paese. Tutto questo sarebbe costato ai ribelli morti e feriti ma ciò non li fece desistere dall’intento di impedire il rientro ai “(...) soldati di un Governo che aveva prostituito il Paese allo Straniero (...)“ tanto più che si sperava, sempre stando alla ricostruzione fornita da Cilia, in un repentino intervento delle forze del Nord .

Arrivò tuttavia il momento della resa. La prospettiva di vedere il paese raso al suolo, come era stato minacciato, costrinse i comisani a considerare più oculatamente il da farsi. Venne costituito pertanto un comitato parlamentare che avrebbe dovuto “(...) trattare un armistizio dignitoso e giusto (...)“. Non fu tuttavia possibile realizzare tale proposito ponendo la controparte, come unica condizione alla rinuncia a rappresaglia nei confronti della popolazione, l’accettazione della resa incondizionata.

Nel pomeriggio del 10 gennaio le forze governative rientrarono a Comiso , senza peraltro che agli abitanti venisse risparmiata - come pure era stato promesso - una violenta persecuzione che portò in carcere la gran parte di quanti avevano partecipato ai moti e costrinse molti giovani a presentarsi alle armi .


La Repubblica Popolare di Piana degli Albanesi

Anche a Piana degli Albanesi, il 31 dicembre del 1944, era stata proclamata la “Repubblica Popolare” ad opera di Giacomino Petrotta che, nella neo-proclamata repubblica, si avvalse anche dell’ accondiscendenza del Sindaco - che conservò la sua carica perchè favorevole al nuovo assetto istituzionale che era venuto configurandosi - per il compimento di alcuni atti di chiara ingerenza nella pubblica amministrazione e che si sostanziarono, ad esempio, nell’impedire oltre l’espletamento delle proprie funzioni a quanti non erano graditi specie per la loro precedente militanza fascista.

Tutto ciò fino alla fine di febbraio del 1945 quando, con l’arrivo in forza dei militari, l’ordine pubblico venne ristabilito e la repubblica soppressa . Pure, in quei cinquanta giorni l’esperienza repubblicana venne compiutamente realizzata perchè “(…) le masse sono armate, il medio ceto è legato più o meno di propria volontà agli obiettivi egemonici del popolo, perché è impedita la leva militare e resa realmente obbligatoria per gli agrari la consegna del grano ai magazzini popolari a favore delle masse più povere ed affamate (…)” .

Le conseguenze della mancata risposta al richiamo e i problemi posti nel caso di presentazione alle armi.
Questa dunque la situazione in Sicilia, fra il 1944 ed il 1945.

Ma l’ondata di contestazione al provvedimento di richiamo investì tutte le zone della penisola che da esso furono interessate e, di ciò, dovettero prendere atto le autorità competenti investite del compito di presiedere alla presentazione alle armi.

Nei rapporti inviati dalle Regie Prefetture al governo si documenta con precisione questo stato di cose sottolineando anche che la mancata risposta all’appello ben si comprendeva, ”(...) essendo facilmente intuibili gli ulteriori sacrifici cui andrebbe incontro il popolo con una più larga partecipazione alla guerra, mentre assai deboli sono le illusioni di effettivi benefici, basate solo su promesse rimaste aleatorie, non essendo ancora stato assunto dagli Alleati nessun preciso impegno al riguardo (...)” . E’ da sottolineare inoltre che la resistenza opposta al richiamo alle armi poteva finire coll’arrecare un danno all’immagine dell’Italia, già duramente penalizzata nella partecipazione alle operazioni di guerra, “(…) nella considerazione degli Alleati” .

La mancata affluenza di grandissima parte dei richiamati rappresentava, tuttavia, un enorme perdita , in termini di potenziale, per l’esercito tanto che il Ministero della Guerra si vide costretto, ai primi di gennaio del 1945, a ripresentare il bando, stabilire nuovi termini per la presentazione e promettere che non si sarebbe dato corso ad alcun procedimento penale per quanti non avevano ancora risposto al richiamo purchè, ovviamente, decidessero di farlo allora .

La nuova chiamata del gennaio 1945 riguardò anche il secondo scaglione della classe 1924 ed il primo di quella 1925 - ultima classe utile per la leva- nel tentativo di rimediare alla scarsa affluenza in precedenza registrata.

Ma ancora una volta non si ottennero i risultati sperati tanto che, nel febbraio dello stesso anno, un generale dello Stato Maggiore auspicava, per porre finalmente riparo a questa situazione, il ricorso a soluzioni drastiche che avrebbero dovuto colpire direttamente la massa dei richiamati distogliendoli dal proposito, eventualmente maturato, di opporre resistenza al provvedimento prospettando loro, come conseguenze di tale malaugurata decisione, la cancellazione dalle liste politiche o l’eliminazione dagli studi.

C’erano però anche problemi di altro genere da affrontare, che riguardavano quanti, invece, ai bandi di richiamo decidevano di rispondere, presentandosi così ai distretti.

Da alcuni telegrammi, inviati nel febbraio 1945 alle autorità competenti dall’Alto Commissario Aldisio, si desume che il trattamento ad essi riservato nei campi di raccolta non era certo tale da confermarli nella scelta fatta né, tantomeno, tale da poter incentivare altri richiamati a partire, in tal modo ponendo, evidentemente, nel nulla gli sforzi operati dalle autorità civili e militari in questa direzione.

Così, ad esempio, il 27 gennaio 1945 “(...) disertarono dal campo affluenza Afragola - nel quale i volontari si trovavano in pessime condizioni: il campo era allagato e loro non erano neanche stati forniti dei necessari “indumenti militari”- circa mille richiamati siciliani su milleduecento colà affluiti dal 15 gennaio detto (...)” .

Era naturale, dunque, che Aldisio avvertisse la necessità - testimoniata dalla qualifica di “precedenza assoluta su tutte le precedenze assolute” al telegramma da lui in proposito inviato - di informare chi di dovere su quanto stava accadendo, chiedendo un intervento immediato perché “(...) incidenti simili siano evitati curando affettuosamente i richiamati (...)” .

Conclusioni
Il quadro che emerge dall’analisi delle vicende registratesi in Sicilia tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945, non sembra essere minimamente rispondente all’idea, che generalmente si è abituati a condividere, di un movimento resistenziale che ha visto impegnati sul fronte della lotta contro il nazifascismo tutte le forze “vive e sane” del nostro paese e a cui sarebbe stato dato un sostanziale apporto dalle masse popolari, spontaneamente impegnatesi nella lotta contro il tedesco invasore e nell’estirpazione della “mala pianta” del fascismo. L’Italia dell’ultimo anno di guerra fu, invece, anche il Paese dei renitenti alla leva, delle donne pronte a sfidare le autorità per impedire la partenza per il fronte dei loro figli e dei loro compagni, di quanti vivevano la frustrazione conseguente alle misere condizioni di vita cui erano costretti, di quanti si mantennero estranei all’attivismo politico, perché ormai convinti dell’inutilità di continuare a riporre fiducia in coloro che si proponevano per l’amministrazione della cosa pubblica, ogni volta promettendo risposta alle istanze più urgenti dell’isola che restavano però sistematicamente irrisolte, di quanti, invece, alla vita politica parteciparono in prima persona, tentando però la via delle Repubbliche popolari in polemica – e a volte violenta – replica all’immobilismo delle autorità competenti. Tutto ciò a riprova dell’esistenza di una situazione diversa da quella largamente propagandata e che però, non per questo, sembra essere meno attendibile pur essendo meno eroica e meno adatta alla costruzione del mito della partecipazione di massa per la rinascita del Paese alla vita democratica.

Le motivazioni con cui si giustificava la renitenza alla leva erano principalmente di carattere pratico, mentre ruolo minore sembrano aver avuto quelle di carattere essenzialmente politico ed ideologico. In tali condizioni non sembra possibile considerare disonorevole la decisione di anteporre le preoccupazioni quotidiane, gli affetti e gli interessi personali al dovere di continuare a combattere. Quella in cui fino ad allora ci si era impegnati era stata una guerra che aveva arrecato solo lutti e miserie, e sul prosieguo della quale non si era autorizzati a nutrire speranze di positivi esiti.

La volontà di proporre, come alternativa alla continuazione della guerra stessa, l’impegno per la ricostruzione civile ed economica della propria terra era lì a testimoniare il dinamismo e non l’inerzia, la determinazione e non la mancanza di volontà di quanti ritenevano fosse giunta l’ora di offrirle, finalmente, nuove opportunità.