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L'UNUCI per l'Umbria

Il Volume "La Divisione "Perugia" Dalla Tragedia all'Oblio" è disponibile in tutte le librerie. ISBN 886134305-8, Roma, 2010, Euro 20,00 pag. 329.



Ordini: ordini@nuovacultura.it, http://www.nuovacultura.it/ Collana storia in laboratorio; per ordini diretti risorgimento23@libero.it; per info:ricerca23@libero.it; per entrare in contatto con gli autori: massimo.coltrinari@libero.it



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sabato 31 dicembre 2016

mercoledì 21 dicembre 2016

SCenari e minacce al termine di un anno

Difesa europea
Arriva l’inverno: è bene coprirsi
Stefano Silvestri
29/11/2016
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Le linee programmatiche volte ad attuare la Strategia Globale (SG) della Politica estera, di sicurezza e difesa europea (Pesd) approvate dal Consiglio affari esteri nei giorni scorsi confermano il carattere limitato, e per dir così sussidiario, di tale politica, ma potrebbero rivelarsi rapidamente obsolete.

Quali sono le minacce?
Tutto ruota attorno alla individuazione delle minacce alla sicurezza dell’Europa e al ruolo che potrà o vorrà giocare la Nato (in questo caso essenzialmente gli americani) per contrarle e dissuaderle.

Da sempre la costruzione europea si è sviluppata in un quadro di sicurezza garantito dalla Nato e dalle forze convenzionali e nucleari che gli Stati Uniti hanno dedicato alla difesa del vecchio continente. Ciò era vero quando si pensava di istituire la Comunità europea di difesa (Ced) negli anni ’50, ed è rimasto a maggior ragione vero negli anni successivi quando la costruzione europea si è indirizzata in campo politico-economico.

Ora si riparla di difesa europea, ma in sostanza si parte ancora dai limitati “compiti di Petersberg” identificati dall’Unione europea occidentale nel 1992, poi incorporati, dal 1997, nei Trattati dell’Unione europea (Ue). Allargati e approfonditi, essi riguardano essenzialmente le missioni di gestione delle crisi al di fuori dell’Europa e lasciano la difesa vera e propria alla competenza della Nato.

Naturalmente l’Ue contribuisce alla difesa: alcune sue politiche (sorveglianza delle frontiere, compiti di addestramento e di intelligence, missioni di sicurezza interna e di sicurezza cibernetica, eccetera) svolgono importanti funzioni di supporto. Inoltre l’Unione sta progressivamente sviluppando una sua politica industriale, di ricerca e sviluppo e di integrazione dei mercati europei che potrà contribuire a mantenere l’importante vantaggio tecnologico occidentale nei confronti del resto del mondo.

Guardiamo bene agli scenari
Tuttavia queste politiche devono ora fare i conti con l’arrivo dell’inverno. Gli sviluppi in Russia e nei paesi dell’ex-Unione Sovietica possono mettere a rischio la stabilità strategica europea. L’importante riarmo nucleare e convenzionale della Russia si accompagna ad una politica espansionista, dal Mediterraneo ai territori ex-sovietici, e forse anche in Asia, se ad esempio venisse confermata l’intenzione russa di riaprire una base navale in Vietnam.

A questo aggiungiamo gli equilibri asiatici già sottoposti a forti stress dal riarmo nucleare della Corea del Nord, dalle rivendicazioni marittime della Cina e dalla confusissima situazione in Medio Oriente, dove si delinea un confronto a quattro tra Turchia, Iran, Arabia Saudita e Israele (con impliciti rischi di proliferazione nucleare).

L’Europa ha sinora guardato a questi scenari con un certo distacco, ritenendosi garantita dal baluardo dissuasivo della Nato. È possibile che il nuovo Presidente americano confermi la solidità di questo impianto (pagato per circa ¾ degli stessi americani), ma è anche possibile che la Nato cominci a mostrare crepe pericolose.

Che farà la Russia?
Sinora Vladimir Putin si è limitato a piccole punture di spillo (come i sorvoli non autorizzati da parte di aerei militari), ma non ha esercitato significative pressioni militari contro l’Alleanza, ma in compenso è più volte caduto nella tentazione della escalation retorica e soprattutto ha abbracciato con entusiasmo la politica di liquidazione degli accordi di disarmo e controllo degli armamenti, improvvidamente iniziata da Washington con la denuncia del Trattato sui sistemi antimissile (Abm) e l’introduzione di nuove tecnologie destabilizzanti.

Ora egli annuncia che considera decaduto anche il Trattato che bandiva i missili a medio raggio (Inf), che preoccupano in primo luogo l’Europa, e non rimpiange certo la perdita, dal 2007, del Trattato che regolava le dislocazioni e i livelli delle forze militari convenzionali in Europa.

Egli sta conducendo un processo unilaterale di riarmo, che l’Europa sembra guardare con un eccesso di compiacenza, senza reagire, anche se in ballo ci sono paesi partner di una certa importanza come la Georgia e l’Ucraina, e l’equilibrio di aree strategicamente significative, dal Caucaso all’Asia centrale.

Ciò non servirà certo ad influenzare positivamente il nuovo Presidente americano: al contrario lo confermerà nella sua convinzione che, in questo campo, gli europei siano sostanzialmente dei saprofiti.

Una svolta positiva, ma incompleta
La svolta che l’Unione sta dando alla Pesd è certamente positiva e potrà contribuire, se ben sviluppata, sia alla sua buona salute che a quella della Nato. Tuttavia le sue limitazioni, che un tempo erano state concepite anche per renderla più accettabile agli occhi dell’Alleanza Atlantica (per non entrare in competizione e duplicazione con la Nato) ora delineano uno scenario del tutto insufficiente e rischiano di apparire come l’ennesimo tentativo di sfuggire alle proprie responsabilità parlando d’altro. Non possiamo ignorare la minaccia più importante che esiste ai nostri confini, e sperare di essere presi sul serio.

Certamente la questione della Russia non è solo militare, ma anche politica. È mancata una strategia coerente e lungimirante nei confronti di Mosca che aprisse la strada ad una reale partnership continentale. Ma un simile sviluppo non potrà basarsi sulla debolezza militare e sulla crisi della dissuasione. Il rischio che corriamo è quello di un progressivo indebolirsi della credibilità dell’Alleanza che potrebbe incoraggiare sia pericolose scelte avventuriste russe sia reazioni improvvisate e caotiche in Europa.

Come ad esempio quando, nel commentare l’elezione di Donald Trump e la possibilità di un ritiro americano dall’Europa, il portavoce dei Cristiano-democratici tedeschi, Roderich Kiesewetter, ha dichiarato che al limite lo scudo nucleare americano avrebbe potuto essere sostituito da uno scudo nucleare anglo-francese.

Non è la prima volta che queste idee sono state fatte circolare (anche se in genere riguardano più la Francia che il Regno Unito, le cui forze nucleari sono quasi integralmente dipendenti da quelle americane), ma non hanno mai dato frutti, soprattutto perché i paesi nucleari europei sono inerentemente più vulnerabili degli Usa, e hanno molte meno opzioni operative.

Ciò non significa che un deterrente europeo, nazionale o collettivo, sia impossibile, ma che per avere una credibilità sufficiente a coprire gli attuali paesi membri dell’Unione, richiederebbe importanti investimenti e soprattutto un livello di coesione e solidarietà oggi tutt’altro che evidente.

Prima di tentare disperate fughe in avanti è dunque opportuno che l’Europa mostri, con urgenza, la sua volontà di essere all’altezza delle sfide reali, e che accetti di dimensionare il suo sforzo militare ai livelli della minaccia (e non di sottolineare solo quelle minacce che il suo attuale livello di impegno le permette di contrare).

Qualcosa si muove, ma è una grave debolezza il fatto che, nella strategia globale e nelle sue linee programmatiche, questo punto non venga affrontato di petto. Possiamo capire le ragioni politiche e di opportunità che hanno portato a questo, ma non possiamo accettarle.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.

venerdì 9 dicembre 2016

Lanzarotto Malocello

PonentevazzinoNews
Varazze, 12.12.2016.                     Home page
Tradotto e pubblicato in lingua spagnola il libro di Licata su Lanzarotto Malocello
http://www.ponentevarazzino.com/wp-content/uploads/2016/12/Pubblicato-in-spagnolo-il-libro-di-Licata-su-Lanzarotto-Malocello-300x224.jpgIl “Comitato Promotore per le Celebrazioni del VII centenario della scoperta di Lanzarote e delle Isole Canarie da parte del navigatore italiano Lanzarotto Malocello (1312-2012)“, nel confermare il prosieguo delle attività celebrative per il prossimo 2017 in Italia e all’estero, rende noto che il libro di Alfonso Licata dal titolo “Lanzarotto Malocello, dall’Italia alle Canarie“, già ristampato in edizione bilingue italiano/inglese (“Lanzarotto Malocello, from Italy to the Canarian Islands“), è appena stato tradotto e pubblicato in lingua spagnola con il titolo “Lanzarotto Malocello, de Italia a Canarias“, a cura del Cabildo di Lanzarote (Governo Insulare di Lanzarote).
Il volume sarà presente e potrà essere consultato in tutte le biblioteche pubbliche delle Isole Canarie nonché diffuso, attraverso i canali  istituzionali, in tutta la penisola Iberica.
http://www.ponentevarazzino.com/wp-content/uploads/2016/12/Roma.11.02.2017-Cerimonia-internazionale-di-Gemellaggio-Hermanamiento-tra-Distretti-Lions-300x212.jpgIl libro, che ricordiamo vanta la prefazione dei medievalisti di fama internazionale Franco Cardini e Francesco Surdich, tratteggia, pur nella scarsità dei documenti e di dati precisi sulla vita del grande navigatore, gli orizzonti di una Genova che già aveva toccato l’acme della propria storia quale prima potenza marittima del Mediterraneo e che stava spostando la propria curiosità mercantile ed economica e le proprie navigazioni verso il quadrante occidentale del Mediterraneo, verso il varco di Gibilterra, puntando verso navigazioni atlantiche che miravano tanto a settentrione quanto lungo le coste africane.
Nell’opera, compendio, sono riportate le fonti documentali genovesi che parlano di un Lanzarotto Malocello già defunto, nel più ampio quadro di una rassegna delle fonti storiografiche italiane assieme a quelle straniere, soprattutto francesi, anglosassoni ed ispaniche.
Un ampio spazio viene riservato alla trattazione delle prime esplorazioni atlantiche da parte di navigatori liguri, ossia italiani, alla relazione di Giovanni Boccaccio sulla navigazione, questa con data certa, lungo la medesima rotta verso le Canarie, e forse Madera e le Azzorre, di Nicoloso da Recco e sul trattato De insulis di Domenico Silvestri, non dimenticando il quadro di riferimento mitico che faceva delle Canarie le Insulae Fortunatae.
L’opera, arricchita da numerose illustrazioni, non tralascia di tratteggiare lo stato delle Isole  Canarie al momento del primo impatto con una civiltà che arrivava da lontano e si conclude con un doveroso omaggio alle ricerche archeologiche, tuttora in corso, che mirano a mettere in chiaro eventuali residue tracce del passaggio di Lanzarotto Malocello sull’isola di Lanzarote, indissolubilmente legata con il proprio nome al navigatore ligure-varazzino.
Il volume, come è noto, non è in commercio ed è riservato alle Istituzioni, alle Università, agli accademici, docenti, studenti e appassionati di storia medievale e delle scoperte geografiche i quali, ove vogliano consultarlo nella originaria versione in italiano, potranno farlo on line sul sito del “Ministero della Difesa” oppure, entro il limite delle copie disponibili, richiederlo al “Comitato per le Celebrazioni del VII Centenario“, o all’Ufficio Storico dello Stato Maggiore della Difesa: quinto.segrstorico@smd.difesa.it.
L’iniziativa di tradurre il testo del libro in varie lingue è finalizzata alla più ampia diffusione, divulgazione e valorizzazione dell’eccezionale impresa del navigatore varazzino ben oltre i confini nazionali.
A tal proposito, l’edizione in lingua spagnola del volume , che era stata preannunciata dall’autore  nel corso di una conferenza al Parlamento Europeo lo scorso 31 maggio 2016, sarà presentata l’11 febbraio 2017 a Roma, presso la sede della Casa dell’Aviatore (Viale dell’Università n.20), in occasione della Cerimonia internazionale di Gemellaggio/Hermanamiento tra il Distretto Lions 108L d’Italia (Lazio, Umbria e Sardegna) e il Distretto Lions 116B di Spagna (Andalusia, Extremadura, Ceuta e Melilla, Isole Canarie) nel corso della quale alla Delegazione lionistica spagnola ed alle Autorità presenti sarà fatto omaggio dell’opera editoriale.

lunedì 14 novembre 2016

Mercoled' ' 16 Novembre ore 16,30. Conferenza.


   Titolo

"L'Ultima difesa Pontificia - 1860"

di Massimo Coltrinari

La descriverà gli avvenimenti che sottrassero le Marche e l'Umbria nel 1860 al Potere Temporale dei papi e quindi annesse al regno d'Italia

In particolare il settembre 1860, con particolare riguardo alle vicende a Spoleto






Sintesi dei volumi qui presentati

Carlo d’Angiò è il cavaliere che campeggia al centro dello stemma d’Ancona. Lo sostiene, senza porre dubbi, l’ultimo governatore pontificio di Ancona, conte de Quatrebarbes. Dopo giorni di lotte accanite, con suo grande rammarico, lo stemma pontificio, il 29 settembre 1860 doveva essere abbassato per far posto allo stemma sabaudo, significando la fine del potere temporale dei Papi nelle Marche. La descrizione degli avvenimenti di parte pontificia per la difesa di questo potere è il filo conduttore del presente volume, che pone Ancona al centro degli avvenimenti del 1860. Avvenimenti che sono descritti nell’ottica di coloro, i legittimisti cattolici, che volevano difendere questo potere, perdurante da oltre tre secoli, che ritenevano indispensabile per l’esercizio della missione del Papa e della Chiesa Cattolica.
Nel adottare il principio che è con la geografia che qualsiasi storia deve iniziare, caro all’Autore, il volume dedica ampio spazio ad Ancona come città e come piazzaforte. Ne esce un quadro di come Ancona era nel 1860, un quadro che si può considerare come il punto di partenza dello sviluppo, non solo urbanistico, della Dorica negli ultimi 150 anni.
Nella prima parte del volume, che è questo Tomo I, viene presentata Ancona come era nel 1860, ovvero dopo oltre tre secoli di dominio papale. Ancona nella sua struttura urbanistica, tutta racchiusa entro le mura, in cui le opere militari di difesa, forti, bastioni, portelle, mura si alternano con i simboli e i luoghi della Chiesa, in particolare chiese e conventi. Ad Ancona accorsero per la difesa dei diritti della Chiesa la gran massa dei legittimisti di tutta Europa, escludendo o emarginato l’elemento “italiano” chiamato con una parola estremamente significativa “indigeno” o romano; aspetto questo che sottolinea come la Chiesa della seconda metà dell’ottocento era contraria al processo unitario italiano e sosteneva con tutte le sue forze i suoi diritti temporali; una convinzione che oggi appare non solo superata, ma aberrante nella visione della Chiesa universale, riferimento di tutti i popoli di buona volontà. Questo Tomo I è la fotografia, quindi, di Ancona, nel 1860; Ancona dentro le sue mura in una visione conservatrice e rivolta al passato di una città dalla vocazione cosmopolita e marinara. Gli avvenimenti come sono descritti fanno emergere una azione, da parte dei responsabili pontifici, piena di errori politici, sociali, economici, diplomatici e, soprattutto militari, che agevolò non poco l’affermarsi della temuta quanto odiata “rivoluzione”, tanto che le vittorie dei Sardi, ovvero degli Italiani, ottenute in questo modo, per la facilità con cui sono state conseguite, oggi non vengono considerate importanti, come in realtà sono, ma sostanzialmente disconosciute. Un oblio che coinvolge anche Ancona, nella Storia nazionale, che in questo passaggio, per lei fondamentale dallo Stato preunitario allo Stato nazionale perdette uno dei suoi monumenti più qualificanti e rappresentativi; la Lanterna, simbolo della essenzialità della sua vocazione commerciale e marittima. Un volume che vuole sottolineare che il nostro Risorgimento, in questa appena passata data anniversaria del 2011, più che celebrarlo va conosciuto e, possibilmente, studiato. Così come la Storia di Ancona.

Massimo Coltrinari, generale, analista militare, giornalista, è contitolare della Cattedra di Dottrine Strategiche e Storia Militare all’Istituto Superiore di Stato Maggiore Interforze, e ricercatore del Centro di Studi Strategici al Centro Alti Studi per la Difesa. È Cultore della Materia alla Cattedra di Geografia Politica ed Economica alla Facoltà di Scienze Politiche della Università “La Sapienza” di Roma. È direttore della Rivista “Il Secondo Risorgimento d’Italia” e collabora a giornali e riviste specializzate. Medaglia Mauriziana per i dieci lustri di servizio continuativo, è Cavaliere Ufficiale al merito della Repubblica.

domenica 23 ottobre 2016

Mercoledì 16 novembre 2016 Ore 16,30 Conferenza Alla Sezione UNUCI

 Il Volumi qui rappresentati descrivo gli eventi del 1860 dalla parte dei Vincitori
La Conferenza sarà incentrata sulla descrizione degli avvenimenti dalla parte dei Vinti, ovvero i ontifici

lunedì 10 ottobre 2016

UN problema da affrontare

Disarmo
Onu, possibile evoluzione sul nucleare
Carlo Trezza
06/10/2016
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Da molti anni nulla di significativo si è registrato sul fronte degli accordi multerali nel campo del disarmo nucleare. L'ultima intesa risale al 1996 con la conclusione delComprehensive test ban treaty, Ctbt, che proibisce gli esperimenti atomici.

Da allora la Conferenza del Disarmo di Ginevra, l'organo istituzionalmente competente per condurre tali negoziati, è rimasta paralizzata. È deprecabile che per oltre un ventennio non si sia riusciti a sfruttare le occasioni offerte dall'allentamento della tensione post-guerra fredda il quale va oggi tramontando.

Una novità per la messa al bando dell’arma atomica
La frustrazione si riscontra in particolare in seno alla Prima Commissione dell'Assemblea Generale dell'Onu che si riunisce ogni anno a New York nel mese di ottobre e che segue i temi del disarmo e della sicurezza internazionale.

Quest'anno si prevede un elemento di novità: verrà infatti discussa e votata una nuova risoluzione in cui un gruppo di Paesi capeggiati da Austria, Brasile, Irlanda, Messico e Nigeria, propone la celebrazione nel 2017 di una Conferenza per negoziare uno "strumento legalmente vincolante per proibire le armi nucleari che conduca alla loro totale eliminazione". Si tratterebbe in sostanza di perseguire "in un solo colpo" l'ambizioso obiettivo della messa al bando dell'arma atomica.

È la prima volta che in Prima Commissione viene proposto un testo così perentorio in cui vengono già individuati i partecipanti, la data,il luogo e la durata della prevista Conferenza. Ad aprire la strada è stata in realtà la Conferenza di Riesame del Trattato di Non proliferazione nucleare, Tnp, tenutasi nel 2010 a New York dove si convenne sull'obiettivo di un mondo privo di armi nucleari e si giunse ad affermare il principio degli effetti catastrofici dell'uso di tali armi.

Per approfondire questo ultimo tema si sono tenute successivamente, sotto gli auspici dei Paesi citati, tre conferenze internazionali che hanno affinato gli argomenti a favore di un'eliminazione delle armi nucleari ed allargato la piattaforma dei Paesi che condividono tale obiettivo.

La resistenza delle potenze nucleari
Le cinque potenze nucleari riconosciute dal Tnp (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti) che pure avevano aderito ai principi enunciati nel 2010, si trovano ora a resistere a questa iniziativa che giudicano irrealistica. Ad essi si affiancano i quattro Paesi (India, Israele,Pakistan e Corea del Nord) che si sono dotati unilateralmente dell'arma nucleare e che restano al di fuori del Tnp.

Non si trova a proprio agio neppure la Nato, la cui dottrina si fonda sul principio della deterrenza nucleare. Vista l'eterogeneità delle posizioni dei suoi membri sulla questione nucleare, l'Unione europea, Ue, incontrerà difficoltà a trovare un orientamento comune su tale spinoso argomento.

Gli ostacoli procedurali che gli agguerriti oppositori potranno frapporre sono molteplici. Le parti possono chiedere una votazione sui singoli paragrafi del testo ed esercitare ogni tipo di pressione. Le risoluzioni dell'Assemblea non sono comunque giuridicamente vincolanti e un'analoga conferenza sulla proibizione delle armi di distruzione di massa in Medio Oriente, fissata per il 2012, non ha mai visto la luce.

Ciononostante, è assai probabile che la risoluzione finisca per ottenere la maggioranza dei consensi e che quindi si inneschi a New York (e non nella sede istituzionale ginevrina) un effettivo meccanismo negoziale.

Probabilmente molti degli oppositori opteranno per non partecipare all'incontro e per dichiararsi non vincolati dai suoi esiti. Ma dall'esterno gli assenti avranno minori possibilità di influire sui negoziati i cui risultati rischiano in tal modo di essere ancora più contrari a quella che è la loro percezione dei propri interessi.

Molti si domandano se abbia un senso avviare una trattativa sulle armi nucleari se saranno assenti i principali detentori di tali armi. È quanto è già avvenuto allorché,mutatis mutandis, vennero concluse, rispettivamente nel 1997 e nel 2008, le convenzioni sulla proibizione delle mine anti persona e quella sulle munizioni a grappolo dalle quali rimasero estranei paesi importanti come Stati Uniti, Russia, Cina e India. Tali convenzioni furono adottate e vengono ora applicate senza la partecipazione dei "major players" che si sono trovarono relegati in un angolo.

Due sentieri negoziali da tenere insieme
Nel valutare i pro e i contro dell’iniziativa nucleare, che è però ben diversa da quella delle mine e delle munizioni a grappolo, occorre tener conto che va lentamente maturando il convincimento di un tramonto del dogma della bomba atomica come arma egemonica ed assoluta.

Il Presidente Usa Barack Obama se ne è reso primo interprete attraverso la sua dichiarata propensione a ridurre il ruolo dell'arma nucleare nella strategia di difesa statunitense. I tempi di Hiroshima e Nagasaki sono in effetti superati da nuove tecnologie che permettono a mezzi convenzionali più sofisticati e precisi di svolgere un ruolo strategico analogo a quello del nucleare senza averne gli effetti catastrofici.

Un piccolo e disastrato Paese come la Corea del Nord, con le poche risorse di cui dispone, è riuscito a procurarsi l'arma atomica. Qust'ultima, lungi dall'assicurare l'egemonia dei grandi, può permettere a stati fuorilegge ed eventualmente a gruppi terroristici di sfidare anche le maggiori potenze nonostante la loro schiacciante superiorità militare.

Attraverso il Trattato di non Proliferazione si è riusciti sinora a contenere la cerchia degli stati nucleari ma India, Israele, Pakistan e ora la Corea del Nord sono già riusciti a sfuggire dalle maglie di questo meccanismo. Altri paesi li potrebbero seguire. Le tecnologie nucleari si diffondono ormai anche via internet ed i costi delle apparecchiature più sofisticate sono sempre più alla portata anche dei paesi meno abbienti.

In queste circostanze viene da domandarsi se, in aggiunta alle sacrosante considerazioni di umanità e di civiltà, non militino a favore di questo negoziato anche motivi di convenienza strategica delle stesse grandi potenze.

Occorre mettere in conto tuttavia che il processo dall'esito incerto che si va profilando a New York rischia di richiedere anni di trattative. Sarebbe quindi prematuro gettare alle ortiche l'approccio alternativo al negoziato "in un solo colpo": quello che mira a perseguire una proibizione, come si è fatto sinora purtroppo con risultati deludenti, attraverso un processo per tappe successive.I due sentieri non si escludono tra loro, possono convivere e rafforzarsi vicendevolmente.

L'Ambasciatore Carlo Trezza è Presidente uscente del Missile Technology Control Regime. Ha presieduto la Conferenza del Disarmo ed il Advisory Board del Segretario Generale dell'Onu per le questioni del Disarmo. È stato Ambasciatore d'Italia a Seoul e presso la Conferenza del Disarmo a Ginevra.

giovedì 15 settembre 2016

Terrorismo: come affrontarlo

Reagire al terrorismo
Trovare le parole giuste
Cesare Merlini
02/08/2016
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La paura sta pervadendo le nostre società relativamente benestanti, aperte e mobili, dunque vulnerabili. I cittadini inermi, bambini compresi, sono sempre più il target primario della cosiddetta “guerra ibrida”, cioè terroristica e informatica oltre che militare e civile, anziché esserne il “danno collaterale”, come si usava dire.

Una barbarie che investe innanzitutto gli “stati falliti” di Iraq, Libia e Siria, ma che da lì si riflette a casa nostra. Queste forme arretrate di violenza beneficiano paradossalmente di social media avanzati quali veicoli principali di rivendicazione, propaganda e mobilitazione. Attraverso essi vengono fatte filtrare e amplificare motivazioni, che vanno dai fanatismi islamisti ai rigurgiti neo-nazisti e che permeano una gamma di patologie mentali e frustrazioni sociali, dando loro collocazioni religiose o politiche spesso solo pretestuose.

Il linguaggio dei deboli: paura e violenza
Ma la violenza sta anche inquinando il linguaggio e la pratica della lotta politica nei nostri paesi che si dicono democratici. Durante la Convention repubblicana alcuni sostenitori di Trump agitavano cartelli che chiedevano la morte per impiccagione della Clinton. Si dirà che l’America non è nuova a slogan politici estremi: Dallas era tappezzata di manifesti con il ritratto di Kennedy e la scritta “ricercato per tradimento”in quel giorno del novembre 1963 in cui il Presidente visitò la città texana e vi fu assassinato.

Ma la pratica di insultare gli avversari per delegittimarli e additarli al disprezzo, quando non all’odio, della gente si è molto accentuata nell’ultimo decennio o due. Le argomentazioni e la terminologia di reti televisive come la Fox hanno di fatto preparato nel tempo la retorica dell’antagonismo e della rabbia,che è divenuta dominante nella campagna del preteso magnate newyorkese dai capelli a nuvola gialla.

Si dirà anche che l’America non è sola. Il dibattito britannico sull’uscita dall’Unione europea è stato fortemente influenzato dai media popolari e scandalistici, che hanno sistematicamente propalato storture e falsità sul ruolo e le pratiche delle istituzioni di Bruxelles.

E che hanno spesso esaltato la paura degli immigrati: il polacco che sottraeva il lavoro agli idraulici francesi, secondo una bufala corrente nella campagna che portò al fallimento del Trattato dell’Unione nel referendum tenutosi oltr’Alpe nel 2005, è diventato potenziale stupratore di donne inglesi,quando ci si accingeva a votare per la Brexit. Qui alla durezza delle parole è di fatto seguita quella dei fatti con l’assassinio della deputata Jo Cox, socialmente impegnata e politicamente europeista, da parte di un fanatico del “Britain first”.

La retorica delle vittime e della guerra
La casistica potrebbe essere estesa ad altri paesi, in alcuni dei quali, come il nostro, la dialettica politica si sta indurendo e involgarendo così da rendere plausibili derive di imbarbarimento. Ma qui ci si vuole soffermare sull’uso delle parole, a cominciare da quello, appunto dilagante, di “paura” e “rabbia”, che sono indicative del fatto che viviamo in società insieme deboli e violente.

Sembrano contribuirvi ancora una volta i media, compresi quelli che intendono essere obiettivi, indipendenti e moderati, siano essi su carta o in onda. L’insistenza sulle immagini delle vittime innocenti, a Nizza come Monaco di Baviera, o della gente che fugge in preda al panico, all’aeroporto di Bruxelles come al museo di Tunisi, spesso riproposte ossessivamente, aiutano il diffondersi della paura e perciò stesso costituiscono un successo per i perpetratori, tanto più se organizzati, e uno stimolo all’emulazione per gli aspiranti terroristi, tanto più se isolati nei loro problemi di psiche e/o di collocazione sociale.

È dubbio che il diffuso ricorso alla retorica della guerra, ancor più se colorita di religione, ci aiuti ad uscire dal quasi ossimoro della debolezza cum violenza. A meno che non si indulga al libero uso delle armi da parte dei semplici cittadini, come vuole certa destra americana, grande sostenitrice di Trump, il monopolio dell’uso della forza resta ai poteri pubblici secondo le regole di civiltà ereditate dall’Illuminismo.

È solo all’esterno che, nella misura necessaria e nelle modalità adatte al carattere ibrido del guerreggiare, l’impiego dello strumento armato può assumere carattere bellico, mentre spetta ai vari corpi di polizia e militari riconvertiti, nonché a quelli di intelligence, difendere la sicurezza interna e ridurre la paura.

Parole diverse, come coraggio, o ragione
Ma anche il linguaggio può contribuire, riscoprendo parole quasi desuete come il “coraggio”che serve a vincere la paura e la “ragione” da contrapporre alla rabbia. L’uno e l’altra coinvolgono i semplici cittadini, come quel francese che cercò di fermare la corsa del Tir sulla Promenade des Anglais, o gli uomini e donne in uniforme, che abbiamo visto rischiare la vita nel loro operare spesso in condizioni di manifesta impreparazione e disorganizzazione.

Il coraggio e il raziocinio sono requisiti da esaltare nella vasta gamma di interventi che si rendono necessari. Ne tengano ben conto, innanzitutto nei nostri contesti europei e occidentali, sia la politica, reggitrice dei poteri pubblici, sia i media, formatori di opinioni con parole e immagini. Saper “parlare alla pancia” della gente, più che stimolare la ragione, aiutare le scelte e suscitare i valori, sembra invece essere diventato un merito, fonte di potere e di audience. Donde il successo dei partiti e movimenti populisti, nazionalisti e xenofobi, che nella paura e nella rabbia dei cittadini ci sguazzano.

Cesare Merlini è Presidente del Comitato dei Garanti dello IAI.
 

lunedì 12 settembre 2016

Caporal Maggiore Massimo Di Legge



NOI NON DIMENTICHIAMO CHI è CADUTO IN MISSIONI DI PACE




Caporal Maggiore Massimo Di Legge 

( Vds post in data 12 settembre 2016 su
www.secondorisorgimento.blogspot.com)

mercoledì 31 agosto 2016

.Italia. Affrontare l'emeergenza


Terremoto centro Italia
Sisma: come rispondere all’emergenza 
Alessandro Marrone
30/08/2016
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Il terremoto nel centro Italia ha attivato il sistema di sicurezza civile che affronta emergenze quali i disastri naturali, con una serie di misure che riguardano i soccorsi, gli alloggi e l’organizzazione delle attività per superare la crisi.

La Protezione civile e l’organizzazione dei soccorsi
Un cataclisma del genere (292 vittime, circa 400 feriti e oltre 2.900 sfollati) ha attivato il sistema di sicurezza civile che in Italia si occupa di affrontare disastri naturali o causati non intenzionalmente dall’uomo. Sistema che conta sul doppio pilastro del Servizio nazionale di protezione civile, coordinato dal Dipartimento omonimo in seno alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, e del Dipartimento dei Vigili del fuoco parte del Ministero dell’Interno.

Nei casi più gravi intervengono anche le Forze armate, ed infatti nei giorni successivi al sisma sono stati 1.250 i militari impegnati a fianco dei Vigili del fuoco (circa 1.200) e del personale della protezione civile. Quest’ultimo è composto prevalentemente da volontari, inquadrati nelle strutture locali, provinciali e regionali coordinate dal Dipartimento a Roma. Nel complesso si tratta di un sistema articolato con diversi attori coinvolti, incluse altre amministrazioni pubbliche e organizzazioni di volontariato come la Croce Rossa Italiana.

Il sistema è organizzato secondo il principio di sussidiarietà: in caso di crisi risponde per primo il livello locale, ed in base ad estensione ed intensità del disastro la gestione dell’emergenza passa al livello superiore. Quando si verificano calamità come quella dello scorso 24 agosto, la responsabilità passa immediatamente al livello nazionale, ed in particolare alla Presidenza del Consiglio dove il Dipartimento della protezione civile interagisce con i ministeri dell’Interno e della Difesa e gli altri attori coinvolti.

Ovviamente nel momento del disastro, come alle 3.36 della notte del 24 agosto, le “colonne mobili” costituite dai volontari della protezione civile, piuttosto che le unità dei vigili del fuoco o i militari della caserma di Rieti, partono autonomamente e appena possibile dalle province vicine – e meno vicine – per raggiungere e soccorrere le persone rimaste sotto le macerie. Con loro, la scorsa settimana c’erano anche molti semplici cittadini accorsi per dare una mano.

La fase attuale è quella della “risposta” all’emergenza, che dovrebbe essere subito seguita dalla fase della “ripresa” – ed in teoria preceduta da quelle di “prevenzione” e “preparazione” rispetto a disastri naturali ed antropici.

L’istituzione, il 28 agosto, a Rieti della Direzione di comando e controllo (DiComaC) della Protezione civile, assume le funzioni svolte nei giorni successivi al sisma dal Comitato operativo del Dipartimento a Roma, è un passaggio importante per l’organizzazione di attività più legate all'assistenza alla popolazione e al ripristino delle normali condizioni di vita.

Il confine tra “risposta” e “ripresa” dall’emergenza varia a seconda della gravità della crisi: nel caso del terremoto a L’Aquila del 2009, che ha visto circa 64.400 sfollati da assistere, la Protezione civile ha tenuto per otto mesi la guida del complesso delle attività in loco prima di passare il testimone alle autorità locali.

Casette e scuole per superare l’emergenza
Le attività ora in corso nelle zone del sisma riguardano in primo luogo gli alloggi per gli sfollati, anche considerando che l’inverno arriva rapidamente sull’Appennino. Aldilà delle tendopoli, per loro natura provvisorie, quattro sono le soluzioni possibili: l’alloggio in strutture alberghiere spesato dallo stato; i container, utilizzati l’ultima volta per il terremoto del 1997 in Umbria; i Moduli abitativi provvisori (Map) ovvero piccole case di legno ad un piano; i Complessi abitativi sismicamente ecocompatibili (Case), veri e propri edifici di tre-quattro piani poggiati su ampie piastre anti-sismiche.

I Map e le Case sono stati utilizzati estensivamente a L’Aquila, tanto che a dicembre 2009 – poco dopo la chiusura delle ultime tendopoli – ospitavano rispettivamente circa 7.000 e 17.000 sfollati, mentre gli altri erano alloggiati in strutture alberghiere, oppure erano in affitto finanziati tramite i Contributi di autonoma sistemazione (Cas) fino a 600 mensili. Considerando il numero attuale di sfollati, inferiore a 3.000, governo e sindaci si stanno orientando verso i Map e l’utilizzo di alberghi e residence per chiudere entro pochi mesi le tendopoli, mentre l’ordinanza della Protezione civile dello scorso 26 agosto ha già istituito Cas mensili fino a 600 euro.

Altra attività in corso consiste nella verifica dell’agibilità delle strutture scolastiche, per capire quali possono essere utilizzate e quali soluzioni trovare per quelle inagibili. La possibilità di mandare i propri figli a scuola è un elemento fondamentale nella decisione da parte delle famiglie se abbandonare definitivamente le zone terremotate, oppure se resistere al lungo periodo di ripresa dall’emergenza, nei Map piuttosto che negli alberghi.

A L’Aquila furono realizzati una serie di Moduli ad uso scolastico provvisorio (Musp), facendo sì che a settembre 2009 tornasse nelle scuole il 99% degli studenti dei comuni del “cratere” – il territorio che ha ricevuto il maggior danno e a cui si applicano le misure di risposta e ripresa dalla crisi – e questa soluzione è allo studio anche per l’emergenza odierna.

Altre misure adottate riguardano gli aspetti economici, altrettanto importanti per evitare lo spopolamento delle zone colpite dal terremoto: nei 16 comuni del “cratere”, dal 25 agosto è stato sospeso il pagamento dei mutui e delle bollette relative agli edifici distrutti o inagibili, e delle tasse statali – misura quest’ultima che a L’Aquila è durata due anni.

Ricostruzione: sicurezza, identità e comunità
Sebbene pochi giorni siano passati dal sisma e dal lutto, è importante pensare subito alla strada per la ricostruzione e all’idea, condivisa dal livello nazionale a quello locale, di come dovranno essere i centri abitati ricostruiti nelle zone terremotate. Dal punto di vista della sicurezza, è imperativo ricostruire gli edifici secondo i più alti standard anti-sismici per prevenire lutti e danni in caso di ulteriori terremoti, come fatto a Norcia dopo il sisma del 1997.

Dal punto di vista sociale e identitario, il principio “dov’era e com’era” per gli edifici storici, al fine di ricostruire rispettando l’impianto urbano pre-sisma, è oggi richiesto da più parti per Amatrice e gli altri borghi antichi – come fu chiesto e ottenuto a L’Aquila per il centro cittadino.

Dal punto di vista psicologico ed emotivo, tutte le suddette misure sono assolutamente necessarie – primum vivere – ma forse non sufficienti senza idee, simboli e attività che tengano vivo quel tessuto di relazioni umane che rende un paese o una città diversi da un cantiere e da un presepe – che li rende una comunità.

Alessandro Marrone è responsabile di ricerca del Programma sicurezza e difesa dello IAI (Twitter @Alessandro__Ma).

lunedì 22 agosto 2016

Le Banche: un grande Mistero

Economia
Ue, lo strano caso delle crisi bancarie italiane
Mario La Torre
28/07/2016
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In Europa il ‘nodo banche’ continua a preoccupare e confondere. In ragione dell’assetto istituzionale dell’Unione monetaria, tutte le decisioni prese sulle crisi bancarie sono state coordinate tra paesi membri e competenti autorità europee; la ratio è stata quella di assicurare trattamenti ‘concorrenziali’ nella gestione delle crisi bancarie, per non discriminare tra banche e tra paesi. Il principio alla base - quello degli aiuti di Stato - sancisce che, nell’Unione europea (Ue), la libera concorrenza e la circolazione di beni e servizi non può essere distorta da interventi statali che tendano a favorire specifici operatori o settori industriali. Dunque, anche le banche devono sottostare a questo principio e, se in difficoltà, possono essere aiutate con fondi pubblici solo in casi eccezionali.

Condizioni del bail-in
Il recente bail-in aggiunge un ulteriore elemento: il dissesto di una banca non deve gravare sui cittadini se non dopo aver chiamato in causa i privati che hanno rapporti con la banca stessa. Con l’’internalizzazione delle perdite’ il ricorso agli aiuti di Stato per le crisi bancarie, già soggetto ad una verifica del ‘disturbo di concorrenza’, diventa soluzione residuale rispetto all’utilizzo dei fondi dei privati coinvolti nel dissesto bancario.

La prima questione che si impone, quindi, è quella di definire il perimetro dei soggetti che, avendo rapporti con la banca, sono chiamati a rispondere delle perdite. Il bail-inestende tale perimetro dai classici azionisti ad altre tipologie di creditori, principalmente sottoscrittori di obbligazioni ‘subordinate’. Questa scelta dà per scontato che gli obbligazionisti abbiano piena consapevolezza del maggior rischio che assumono e ricevano rendimenti coerenti con tale rischio. Quanto avvenuto nei casi delle quattro banche italiane – Banca Marche, Banca popolare dell’Emilia Romagna (Bper), Cassa di risparmio di Ferrara, CariChieti – ha fatto emergere con evidenza come tali condizioni non fossero affatto rispettate.

Crediti deteriorati e aiuti di Stato
In questo scenario si innesta il tema attuale della gestione dei non performing loans(Npl), ovvero dei crediti deteriorati che le banche hanno nei propri bilanci; policy makerse operatori si preoccupano di evitare possibili nuove crisi bancarie ripulendo i bilanci delle banche più esposte. Le soluzioni percorribili potrebbero impattare ancora una volta su tutti, clienti bancari e non, determinando proprio quella esternalizzazione delle perdite che si vorrebbe evitare.

In tale prospettiva, la visione dell’Italia è avanzata, rispetto a quella di altri paesi Ue. Per la gestione dei Npl, l’Italia chiede, ancora una volta, alla Commissione europea il via libera a forme di sostegno più aderenti all’eccezionalità delle circostanze; in sostanza: maggiore apertura nel ricorso agli aiuti di Stato. La sentenza della Corte di giustizia dell’Ue del 19 luglio scorso, che ribadisce la legittimità del bail-in e conferma il ricorso agli aiuti di Stato subordinatamente ai fondi privati, non agevola una soluzione in tal senso. Determinata ancora una volta da una negoziazione one-to-one tra Roma e Bruxelles, qualunque decisione confermerà il rischio che, nel prossimo futuro, altre trattative, con altri Stati membri, possano trovare soluzioni o equilibri differenti. Prima ancora dei contenuti di risoluzione delle crisi, emerge una esigenza definire processi e criteri interpretativi del bail-in che minimizzino il rischio di fine tuning distorsivi in sede di singole negoziazioni.

Esiste, poi, un ben più grave tema di economia sostanziale. L’Europa rincorre disperatamente crescita sostenibile, stabilità finanziaria e coesione sociale. È palese che le regole di vigilanza, e quelle di risoluzione delle crisi bancarie, sono state costruite pensando unicamente alla stabilità finanziaria.

Conseguenze all’orizzonte
L’Ue ammette il ricorso agli aiuti di Stato solo subordinatamente ai fondi privati per evitare comportamenti di azzardo morale da parte delle banche: c’è da chiedersi quanto azzardo morale possa nascondere il business dei Npl, che si moltiplicherà nei prossimi mesi a seguito delle operazioni di pulizia dei bilanci bancari e del proliferare di bad bankse veicoli da cartolarizzazione.

L’Ue ammette aiuti di Stato solo in casi eccezionali, ovvero quando sia minacciata la stabilità finanziaria. C’è da chiedersi quanta instabilità finanziaria potrà derivare dal coinvolgimento degli obbligazionisti inconsapevoli nei dissesti bancari; la perdita di fiducia dei clienti si tradurrà facilmente in minore raccolta per le banche.

L’Ue tenta quotidianamente nuove politiche per la crescita sostenibile; c’è da chiedersi quanta crescita potremo avere con banche senza Npl, ma anche senza raccolta.

L’Ue promuove politiche di coesione sociale ed inclusione finanziaria; c’è da chiedersi quanta inclusione finanziaria stimolerà il coinvolgimento dei creditori nella gestione delle crisi delle banche.

Dobbiamo operare affinché le misure che l’Italia sta negoziando in questi giorni per il Monte dei Paschi, e che potrà trovarsi a negoziare in futuro per altre banche, trovino una Commissione in grado di mettere a sistema tutte le variabili in gioco. Non si tratta di salvare una banca italiana in un modo meno rigoroso rispetto ad una tedesca; né di incentivare le banche ad avere comportamenti opportunistici sulla base di aiuti pubblici assicurati indiscriminatamente. Si tratta di comprendere che ogni soluzione – se non calibrata opportunamente – può portare un effetto contrario a quello sperato. Si tratta di trovare i giusti equilibri tra aiuti pubblici e fondi privati anche alla luce degli effetti macroeconomici, di inclusione finanziaria e sociale. Ma questo lo si capisce solo se si alza lo sguardo oltre gli angusti confini dei tecnicismi regolamentari.

Mario La Torre è ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari all’Università La Sapienza di Roma

giovedì 28 luglio 2016

I Droni: le opportunità di impiego

Sicurezza e difesa
Droni: protezione e sicurezza oltre la difesa 
Alessandro Ungaro, Paola Sartori
19/07/2016
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Concepiti e impiegati inizialmente in ambito militare, gli Aeromobili a pilotaggio remoto (Apr) - entrati nel nostro gergo comune con il termine “droni” - si rivelano sempre più uno strumento a carattere prettamente duale, in grado di assolvere o contribuire a tutta una serie di missioni civili e/o di sicurezza.

Pensiamo ad esempio alla sorveglianza delle frontiere terrestri e marittime, al monitoraggio delle infrastrutture critiche, oppure a supporto di operazioni di ricerca e soccorso e in casi di disastri naturali e/o antropici, e così via.

Strumenti versatili per la sicurezza
Da un lato, la possibilità di scegliere tra diversi tipi di sistemi - da quelli semplici di pochi grammi a quelli più complessi e che possono arrivare a pesare anche migliaia di kg - consente applicazioni multiformi e variegate, in grado di soddisfare le esigenze di diversi utilizzatori finali, sia civili che militari.

Dall’altra, la modularità del payloade dei dispositivi elettronici (sensori, radar, ecc.) garantisce l’acquisizione di una grande varietà di dati a seconda dei requisiti di missione e delle specifiche esigenze.

Ciò li rende particolarmente flessibili e “spendibili”, ma soprattutto in grado di massimizzare l’informazione ottenuta: i dati raccolti nell’ambito di una determinata missione potrebbero risultare utili anche per altri tipi di esigenze affini e compatibili.

Ad esempio, i dati collezionati nel corso di un’operazione di disaster managementpotrebbero rivelarsi validi anche nell’ambito della ricerca scientifica. Oppure, durante un’attività di monitoraggio ambientale si potrebbero raccogliere informazioni sfruttabili altresì per la fase di prevenzione e/o ripristino in caso di disastri naturali o antropici.

Vulnerabilità cyber e potenziali rischi
L’assenza dell’uomo a bordo del velivolo rende l’aspetto della sicurezza - nella doppia accezione di security e safety - un elemento pressoché cruciale.

Gli Apr interagiscono con l’ambiente esterno tramite l’elettronica e lo spettro elettromagnetico, raccogliendo, processando e scambiando una grande quantità di dati e informazioni che viaggiano nel cyberspazio e tra le infrastrutture fisiche e di rete a loro dedicate.

Questa caratteristica li rende potenzialmente vulnerabili ad attacchi esterni perché ogni interazione e scambio di dati tra la piattaforma e ciò che la circonda potrebbe costituire una possibile porta di ingresso per un attacco in grado di minacciare la funzionalità del segmento di bordo e di quello di terra.

Ecco perché è determinante che tali sistemi siano “resilienti”, ovvero in grado di operare in sicurezza anche qualora siano vittima di un attacco e/o ne sia compromesso il funzionamento (dal concetto di cyber-defence a quello di cyber-resilience).

Ma non ci sono esclusivamente le interferenze di tipo elettronico o cibernetico. La sicurezza si declina anche in termini prettamente fisici. Gli Apr di piccole dimensioni fanno ormai parte della realtà quotidiana e la loro diffusione è in crescita esponenziale.

Sempre più spesso li vediamo volare vicino a noi, fare riprese e registrare video a centinaia di metri di altezza, mentre all’orizzonte si profilano nuove modalità didelivery, con Amazon e altre società di e-commerce in testa.

Per quanto si tratti di sistemi piccoli o piccolissimi, essi possono comunque rappresentare un rischio considerevole per le persone e per gli altri utenti del cielo, ostacolando e compromettendo l’effettiva integrazione di tali velivoli all’interno dello spazio aereo civile.

Si pensi, ad esempio, al numero sempre più rilevante di collisioni sfiorate tra velivoli commerciali e Apr, nonché ai diversi incidenti provocati da piccoli sistemi utilizzati da operatori privati e/o improvvisati in prossimità degli aeroporti, o in grado di volare a quote abbastanza alte per interferire con i corridoi di transito dei velivoli tradizionali. Per non parlare, infine, del potenziale impiego a fini malevoli o addirittura terroristici da parte di organizzazioni o singoli individui.

Fattori abilitanti e prospettive future: un convegno IAI
Uno dei principali fattori abilitanti per il futuro degli Apr è quello dell’integrazione negli spazi aerei non segregati e l’inserimento nell’ambiente Atm (Air Traffic Management).

Si tratta di un aspetto destinato a cambiare radicalmente l’aviazione civile e militare, e le sue modalità di gestione, controllo e supervisione. Questa dinamica vede legate a doppio filo l’innovazione tecnologica da un lato, e la necessità di stabilire standard, procedure e regole comuni e sinergiche tra le due sfere di applicazione, dall’altro.

In quest’ottica,il convegno IAI del prossimo 26 luglio cercherà di contribuire alla riflessione sul tema, presentando uno studio sui velivoli a pilotaggio remoto e la sicurezza nazionale ed europea.

Nella partita che si sta giocando, l’Italia ha dimostrato e dimostra di poter far leva sull’esperienza acquisita in campo militare e civile, su capacità industriali di rilievo e, infine, su un approccio di sistema che sta dando i primi positivi frutti.

Sebbene tanto sia stato realizzato in questi anni, molto resta ancora da fare. Il mercato dei sistemi Apr rappresenta un’opportunità per promuovere crescita economica ed occupazionale così come innovazione tecnologica e industriale.

La sfida è appena iniziata e richiede che tutti gli stakeholder in campo adottino o perseguano un approccio armonico, coordinato e sinergico. L’obiettivo è quello di garantire che il segmento dei velivoli a pilotaggio remoto cresca all’interno di un mercato unico europeo nel rispetto di adeguati livelli di sicurezza e protezione per i cittadini.

Alessandro R. Ungaro è ricercatore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI, twitter@AleRUnga
Paola Sartori è assistente alla ricerca del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI, twitter@SartoriPal
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sabato 9 luglio 2016

Serbia e Kosovo e

Balcani
Vite parallele di Serbia e Kosovo nell'Ue
Sara Bonotti
06/07/2016
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La via europea di Serbia e Kosovo procede su binari paralleli per la scelta strategica di Bruxelles di diluire le frontiere in un percorso negoziale sincronico. Obiettivo collaterale è la normalizzazione delle relazioni tra Serbia ed ex-provincia autonoma, autoproclamatasi indipendente nel 2008. I rapporti della Commissione europea del novembre 2015 tracciano un percorso speculare d’integrazione e concessioni reciproche.

Alla Serbia, candidata dal 2012, si riconosce una politica regionale di riconciliazione e buon vicinato per stabilizzare il Kosovo e gestire la crisi migratoria.

Anche i progressi del Kosovo sono valutati in relazione al dialogo con la Serbia sul Primo Accordo del 2013 e sugli accordi di attuazione, e nella misura in cui Pristina tiene il passo con Belgrado (tra gli altri, in materia energetica, di libero scambio e regime Schengen). La Commissione ha spesso rilevato come la normalizzazione dei rapporti sia cruciale per imprimere slancio al futuro europeo di entrambi i paesi.

Belgrado, equilibrio instabile tra Bruxelles e Mosca
Incognite sul sentiero europeo s’insidiano nella mobilità del quadro politico. La conferma alle urne, lo scorso aprile, del Partito progressista serbo di Aleksandar Vučić favorirebbe una posizione equidistante tra valori europei e atlantici e tradizionali legami con la Russia. Similmente, la sopravvivenza parlamentare del Partito democratico riequilibrerebbe gli orientamenti in direzione di Europa e Nato.

Sull’altro versante, Partito radicale serbo, Partito democratico della Serbia e Partito popolare serbo - quest’ultimo parte della coalizione governativa - potrebbero far oscillare l’ago della bilancia verso Mosca. All’indomani dei risultati, le congratulazioni a Vučić del premier russo prospettavano un’alleanza “interessante e utile” in chiave strategica ed energetica. Le dinamiche, attualmente fluide, dipenderanno dalla capacità di mediazione di Vučić e dal ruolo della Russia sullo scacchiere internazionale.

Pristina, freno ai negoziati europei 
A Pristina, il vuoto di potere tra le elezioni del giugno 2014 e la formazione di una debole coalizione governativa tra Partito democratico del Kosovo del presidente Hashim Thaçi e Lega democratica del Kosovo del premier Isa Mustafa nel novembre di quell’anno ha ritardato la cooperazione regionale. Il confronto ha assunto connotati etnici nell’ottobre scorso, quando l’opposizione di ‘Autodeterminazione’ e alleanza per il futuro del Kosovo ha ostruito i lavori parlamentari sui negoziati con la Serbia.

Intanto, la Corte costituzionale, interpellata dall’allora presidente Atifete Jahjaga sulla costituzionalità del Primo Accordo del 2013, ha dapprima temporaneamente congelato l’intesa, per poi dichiararla parzialmente incostituzionale nella sezione relativa all’Associazione delle municipalità serbe.

La natura dell’Associazione rimane di fatto controversa: largamente autonoma su modello altoatesino per l’esecutivo serbo; organizzazione non governativa senza poteri esecutivi secondo Pristina. L’Accordo ricorre alla formula volutamente ambigua di “full ownership” dell’Associazione per dissimulare tali discrepanze.

L’integrazione delle ’strutture parallele’ serbe del nord nella cornice istituzionale kosovara è parimenti questione interpretativa. La protezione civile su base etnica è ad esempio considerata dai serbi struttura d’intervento d’emergenza, mentre le autorità del Kosovo v’individuano un nucleo d’intelligence paramilitare finanziato da Belgrado, che evoca fantasmi di strutture analoghe anche nella Repubblica serba di Bosnia.

Zagabria, veto sulle trattative 
Le relazioni altalenanti con la Croazia hanno mostrato il fianco debole di Belgrado su una questione chiave per l’accesso all’Unione europea: i crimini di guerra. Zagabria ha bloccato i negoziati con la Serbia su giustizia e diritti umani a seguito dell’assoluzione in primo grado di Vojislav Šešelj, presidente del Partito radicale serbo, da parte del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia nel marzo 2016. Šešelj, imputato di crimini di guerra e contro l’umanità per nove capi d’accusa, era stato già rilasciato temporaneamente prima della sentenza, che attendeva a Belgrado con febbre elettorale e protagonismo mediatico.

Immediate le reazioni del governo croato: l’allora premier Tihomir Orešković ha parlato di regresso della giustizia internazionale, mentre il suo vice Bozo Petrov ha ricordato i freni all’accesso croato per questioni meno rilevanti, riferendosi al sentiero accidentato e puntellato di standard che nel 2013 aveva trasformato il paese nel ventottesimo membro dell’Ue.

Il ministro degli Esteri croato Miro Kovač ha condizionato le trattative con la Serbia alla rappresentatività parlamentare della minoranza croata, al rinvio di Šešelj all’Aja e a un dietrofront di Belgrado sull’arrogata giurisdizione universale per i crimini di guerra degli anni Novanta in ex-Jugoslavia.

La Serbia ha di contro interpretato la mossa come strumentale a distogliere l’attenzione europea da presunte involuzioni democratiche in Croazia, revival fascisti e discriminazioni della minoranza serba. In questo contesto, recenti orientamenti linguistici - come la rimozione delle targhe stradali bilingui a Vukovar in Croazia, nonché la proposta di Kovač di sostituire il termine “regione”, evocativo dell’ex-Jugoslavia, con il neutrale “vicinato” - si caricano di forti valenze simboliche ed emotive.

Sara Bonotti, Programme Manager Human Dimension, Organization for Security and Co-operation in Europe (Osce), Programme Office in Astana.

martedì 28 giugno 2016

La nostra informazione

Media
Tv, guerra al terrore e storytelling europeo
Fabio Turato
27/06/2016
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Palinsesti televisivi toccati dal terrorismo e dalla guerra per sconfiggerlo. A mostrarlo è lo studio dei cinque telegiornali continentali di prima serata, realizzato attraverso l’elaborazione dei dati forniti dall’Osservatorio di Pavia.

Questi indicano come la cronaca della guerra al terrore scali la classifica delle dieci notizie più trattate nel corso del 2015, mentre l’analisi e l’approfondimento fornito dalla politica estera restano invece in secondo piano. Se i Tg di Germania e Regno Unito confermano lo storytelling del 2014, nel 2015 si notano invece sensibili differenze nei notiziari televisivi in Spagna, Francia e Italia.

Ard e la società tedesca
L’analisi del telegiornale tedesco conferma la linea narrativa che trova guerra al terrorismo e argomenti esteri ai vertici della graduatoria. Se nel 2014 i due temi occupavano il primo e il terzo posto, nel 2015 è cresciutal’attenzione per i temi a valenza sociale connessi a dinamiche globali, come l’accoglienza e l’inclusione dei migranti.

Tanto che la politica estera è scesa al secondo posto passando dal 25% delle notizie trattate nel 2014 al 18% del 2015 (-7%), mentre la guerra al terrore si è confermata al terzo, passando dal 10% al 13% (+3%). Il salto di qualità nel Tg del primo canale tedesco è rappresentato invece dalle questioni sociali e dai riflessi nella società tedesca che salgono dal 7% al 22%, con un aumento di ben 15 punti percentuali.

Bbc One e la guerra al terrore
Anche Bbc One conferma la narrazione seguita nel 2014. Il divario tra guerra e politica estera va però ampliandosi. La guerra al terrore è salita dal secondo al primo posto delle notizie trattate nel 2015, scavalcando l’economia. Mentre la politica estera è scesa dall’ottavo al decimo posto (dal 6% al 5%). Anche se è probabile che questo sia stato un riflesso degli attentati parigini, bisogna ricordare la consolidata narrazione del terrorismo sul suolo britannico: dai “Troubles” irlandesi, alla bomba di Lockerbie, all’attentato combinato bus/metro del 2005. La polarità fra guerra e politica racconta quindi un paese in prima linea contro il terrore.

Rtve1 e la voglia di capire
Differentemente dai telegiornali di Germania e Regno Unito, il notiziario della prima rete spagnola sembra esprimere un’altra chiave narrativa. Nel 2015, il racconto della guerra al terrorismo è salito dal settimo del 2014 (5%) al terzo del 2015 (10%).

La politica estera scende invece di una posizione fermandosi al quarto, passando dal 12% al 9%. Con ogni probabilità, la vicinanza tra guerra e politica estera nel 2015 suggerisce il tentativo di contestualizzare gli eventi internazionali, sottraendoli al racconto della sola cronaca definendo anche interessi e strategie degli attori coinvolti.

France2 e lo schema britannico
Gli attacchi terroristici che hanno marcato a sangue tutto il 2015 francese, hanno trasformato il racconto del Tg francese, accostandolo a Bbc One. La polarità fra guerra al terrorismo e politica estera si evince dalla salita della prima dal quinto posto delle notizie trattate nel 2014, al primo del 2015.

Come nel caso britannico la politica estera è scesa invece di diverse posizioni passando dal sesto al nono posto. Tanto che, se la politica estera è stata meno presente nel palinsesto (dall’8% del 2014 al 5% del 2015) , l’attenzione per la guerra al terrore è salita invece dall’8% del 2014 addirittura al 22% dell’anno successivo.

Rai e ansia preventiva
Anche il telegiornale della principale rete pubblica italiana ha evidenziato un sensibile cambiamento tra il 2014 e il 2015. La distrazione con cui i notiziari televisivi nazionali guardano a ciò che accade all’esterno dell’Italia è in parte mitigata dal principale notiziario televisivo nei confronti della guerra al terrore. Argomento che sale nel 2014 era al decimo posto del 2014 (4%) e nell’anno successivo arriva ad occupare addirittura il secondo (13%).

L’attenzione nei confronti della politica estera che scende dal settimo posto del 2014 (5%) all’ottavo del 2015 (6%), sembra allora confermare la polarità narrativa riscontrata per France2 e Bbc One. Tuttavia, rispetto allo schema franco-britannico emerge una variante.

Le notizie dedicate alla criminalità si confermano al terzo posto nei due anni considerati. Nonostante i dati di Istat e Ministero dell’Interno indichino da tempo un calo dei reati, l’accostamento della guerra al terrore alla criminalità contribuisce a una narrazione ansiogena, anche se in Italia da molti anni non si verificano attentati paragonabili a quelli di Londra e Parigi. Il che delinea uno schema informativo basato sull’“ansia preventiva”, piuttosto che sull’insicurezza motivata dai fatti.

Fabio Turato insegna Relazioni internazionali presso la Scuola di Scienze politiche del DESP – Dipartimento Economia, Società e Politica dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”.
 
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giovedì 23 giugno 2016

Il pericolo mussulmano nei Balcani

Balcani
Bosnia Erzegovina, il rischio jihadista
Andrea Oskari Rossini
13/06/2016
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Il 18 novembre 2015, pochi giorni dopo gli attentati di Parigi, Enes Omeragić, un giovane di Sarajevo, è entrato in una sala per scommesse nel quartiere periferico di Rajlovac e ha aperto il fuoco su due militari bosniaci, uccidendoli. Rintracciato poche ore dopo nella sua abitazione, Omeragić si è a sua volta ucciso, facendosi saltare in aria con una bomba a mano.

L'episodio non è stato praticamente registrato dai media europei, ancora sotto choc per i fatti di Parigi. Rappresenta tuttavia l'ennesimo attentato riconducibile al terrorismo islamista avvenuto nel paese balcanico a partire dal 2010.

Nel giugno di quell'anno venne fatta esplodere una bomba fuori dalla stazione di polizia di Bugojno, in Bosnia centrale. Un poliziotto, Tarik Ljubuškić, morì, e sei suoi colleghi rimasero feriti.

L'anno dopo, a Sarajevo, Mevlid Jašarević aprì il fuoco con un kalashnikov contro l'Ambasciata degli Stati Uniti, ferendo un poliziotto. Infine l'anno scorso, il 27 aprile, Nerdin Ibrić ha assalito con un fucile automatico i militari della stazione di polizia di Zvornik, nella parte del paese a maggioranza serba, gridando “Allah Akbar” e uccidendo l'agente Dragan Đurić prima di venire ucciso a sua volta.

Balcani, serbatorio di foreign fighters
La tipologia degli attentati avvenuti in Bosnia è diversa dalle stragi perpetrate dall'autoproclamatosi “stato islamico” nelle grandi capitali europee. Ad essere colpiti sono obiettivi stranieri, oppure rappresentanti delle locali forze di sicurezza, militari o poliziotti.

I civili non sono stati finora coinvolti, il che lascia presupporre una strategia diversa dei gruppi radicali nei Balcani. Sporadicamente, singoli individui escono allo scoperto. Il ruolo principale assegnato alla regione, però, sembrerebbe essere quello di base logistica, ad esempio per il trasferimento di uomini o armi, e di serbatoio di potenziali “foreign fighters”.

Secondo il professor Vlado Azinović, docente all'Università di Sarajevo e recentemente co-autore, con Muhamed Jusić, della ricerca “Il richiamo della guerra in Siria: il contingente bosniaco dei combattenti stranieri”, sarebbero circa 250 i bosniaci che hanno lasciato il paese per andare a combattere nel Medio Oriente, tra il 2012 e la fine del 2015.

Non si tratta di una cifra rilevante in termini assoluti, se comparata ad esempio a quella dei “foreign fighters” provenienti dalla Francia, dal Belgio, dal Regno Unito o dalla Germania. In termini relativi però, cioè riportati alla grandezza della popolazione (circa 3.800.000), non si tratta di un dato insignificante.

Bosnia, dove è facile procurarsi armi
La Bosnia Erzegovina, inoltre, ha alcune specificità, sotto il profilo del rischio terrorismo che la distinguono dalla maggior parte degli altri paesi europei. La prima è la frammentazione delle diverse forze e agenzie di sicurezza, nel contesto della complicata struttura istituzionale definita dagli accordi di Dayton.

Uroš Pena, vice capo del Direttorato per il Coordinamento delle forze di polizia del paese, ha recentemente dichiarato ai media locali che “la condivisione delle informazioni è un grosso problema. Ogni agenzia si tiene strette le migliori informazioni di cui dispone [...] Non abbiamo neppure una chiara definizione delle giurisdizioni”.

Il secondo elemento di rischio, per la Bosnia Erzegovina, è la relativa facilità con cui, a vent'anni dalla fine della guerra, è ancora facile procurarsi armi. Quando sono stati firmati gli accordi di pace, molti hanno preferito conservare le armi, ad ogni buon conto. Queste armi possono ora finire nelle mani sbagliate nei modi più diversi, vendute sul mercato nero anche solo per aggiustare temporaneamente il bilancio familiare.

Il fatto invece che poco meno della metà della popolazione della Bosnia Erzegovina sia di fede, cultura o tradizione musulmana, l'aspetto in genere più sottolineato dai media europei che si sono occupati del fenomeno terrorista nel paese, non rappresenta di per sé un elemento di rischio.

La comunità islamica locale (Islamska Zajdenica, IZ) ha sempre denunciato con forza il terrorismo e la violenza, invitando i propri fedeli a tenersi distanti dai gruppi radicali che cercano di sovvertire le regole su cui da secoli si fonda l'Islam in questa regione.

Alle origini dei mujaheddini in Bosnia
Questi gruppi, secondo il giornalista Esad Hećimović, autore di “Garibi - Mujaheddini in Bosnia Erzegovina tra il 1992 e il 1999”, hanno cominciato a manifestare la propria presenza nel paese a partire dal 1992, anno di inizio della guerra in Bosnia. Alcune centinaia di combattenti (un numero verisimile è quello di 800 combattenti, secondo Hećimović), provenienti da paesi arabi o dall'Afghanistan, si unirono alla brigata “El mujahid” dell'Armija BiH, Esercito della Bosnia Erzegovina, o a formazioni minori, combattendo dalla parte dei bosniaco musulmani.

Dopo la guerra, la loro influenza continuò in modi diversi, attraverso il lavoro di predicatori, l'assistenza finanziaria o la creazione di un sistema alternativo di welfare.

Oggi, venti anni dopo la fine della guerra, è difficile valutare la diffusione e influenza dei gruppi radicali. Data la conformazione del paese, si tratta di una presenza localizzata soprattutto in villaggi isolati, in zone montuose o rurali, dove questi gruppi conducono una sorta di vita sociale e religiosa parallela. Non tutti sono naturalmente legati alle reti del terrorismo internazionale, né tutti credono nell'uso della violenza per la lotta politica o religiosa.

La comunità islamica ha però cercato recentemente di ricondurre le 64 comunità ribelli censite all'interno della propria giurisdizione. Il difficile percorso non ha però sortito grandi risultati. Al termine dei colloqui, solo 14, delle 38 che hanno partecipato al processo, hanno accettato di (ri)entrare a far parte della comunità ufficiale.

Andrea Oskari Rossini nel corso degli anni '90 ha lavorato in diversi progetti di assistenza ai profughi dell'ex Jugoslavia in Italia e poi in programmi di cooperazione comunitaria e decentrata nei Balcani. Giornalista professionista e documentarista, lavora con Osservatorio Balcani e Caucaso dal 2002.

Quest'articolo è frutto di una collaborazione editoriale tra l'Istituto Affari Internazionali e Osservatorio Balcani e Caucaso.

lunedì 30 maggio 2016

Roma, 8 giugno 2016 ore 17. Comunicato

ISTITUTO DEL NASTRO AZZURRO FRA COMBATTENTI DECORATI AL VALOR MILITARE

CENTRO STUDI SUL VALORE MILITARE
CESVAM

 Sito: www.istitutonastroaazzurro.it/cesvam

In Collaborazione con la Federazione Roma del Nastro Azzurro”, nel quadro dei
Mercoledì del Nastro Azzurro
Comunicato

INCONTRO CON L’AUTORE

  LUIGI MARSIBILIO

“Il Quadro di Battaglia dell’Esercito Italiano nel 1940”
(Progetto di ricerca 2015 presentato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri)


Nel 2015 l’Istituto del Nastro Azzurro ha presentato, tramite il Centro Studi sul Valore Militare – CESVAN, cinque progetti in base al bando di invito della Presidenza del Consiglio dei Ministri per celebrare e ricordare il 70° anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale ed in particolare la Guerra di Liberazione 1943-1945. Tra questi progetti vi era anche quello dedicato al “Quadro di Battaglia dell’Esercito Italiano nel 1940” avente lo scopo di illustrare, attraverso una ricerca dettaglia ed iconografica la reale consistenza dello strumento militare italiano al momento dell’entrata in guerra.

Il Progetto, ancorchè non finanziato, fu portato avanti secondo l’architettura proposta. Oggi, nel ricordare la data del 10 giugno 1940, giorno della dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna ed alla Francia, il capo progetto, Gen. Luigi Marsibilio, illustrerà i risultati della ricerca. Questa si è sviluppata tenendo conto dei dettami del volume “La ricostruzione di un avvenimento storico militare”, volume che è la base di partenza di tutte le ricerche relative ai progetti gestiti dal CESVAM.

L’Esercito Italiano, o come nel 1940 veniva definito, il Regio Esercito, era articolato su Scuole, Armi, Corpi e Servizi, ed includeva anche le Regie Truppe Coloniali ed un nuovo Corpo, La Guardia alla Frontiera. La pedina base era il reggimento, che raccoglieva e rappresentava la tradizione militare italiana. Ordinato sulla classica ripartizione delle forze, il reggimento comprendeva battaglioni, compagnie plotoni e squadre, mentre, a livello superiore, il reggimento vi erano la Divisione, il Corpo D’Arma l’Armata. Non vi era il livello di Brigata per via degli ordinamenti adottati a metà degli anni trenta. 

L’Autore illustrerà le tappe della ricerca ed i risultati e trarrà le conclusioni relative.

A seguire, per dare compiutezza alla ricerca sarà presentato ed illustrato il volume che è servito di matrice articolativa della ricerca stessa:

 “La ricostruzione e lo studio di un avvenimento storico militare”
Società Nuova Cultura, Università la Sapienza, Edizione “I Libri del Nastro Azzurro”
Roma 2016, pag, 287, E. 18,50 ISBN 8861342671


I progetti presentati dall’Istituto del Nastro Azzurro nel 2015, come già accennato, comprendevano oltre a quello oggi illustrato anche i seguenti:”Storia in laboratorio”, che aveva lo scopo di portare testimonianze nelle scuole, già precedentemente avviato, e quello avente lo scopo d predisporre, per il progetto “Storia in laboratorio” un “Dizionario Minimo della Guerra di Liberazione 1943-1945” più altri due, riguardanti la implementazione della ricerca informatica ed un secondo riguardante il valore militare. Tutti i progetti ebbero accoglienza degna di nota e tra quelli presentati, nell’ordine delle centinaia su scala nazionale, nella graduatoria che la Presidenza del Consiglio stilò in fase valutativa e giudicativa, si classificarono tra il trentaduesimo posto ed il cinquantesimo. Una buona classificazione; il rammarico è dovuto al fatto che che i progetti meritevoli di finanziamento erano solo quelli classificatesi  fino al 30 posto. Nonostante questa difficoltà si decise di proseguire nell’ambito CESVAM le ricerche previste nei progetti. Oggi è stato presentato quello relativo al quadro di battaglia dell’Esercito nel 1940, a breve sarà presentato quello relativo al Dizionario Minimo della Guerra di Liberazione.

Tutti i progetti, come detto, hanno riferimento al volume che oggi si presenta. Questo volume si prefigge di fornire, a studenti, frequentatori e ricercatori, predendo le mosse dai dettami e finalità del progetto “Storia in laboratorio” promosso a suo tempo, nel 2006, dal presidente Gen. Sen. Luigi Poli nell’ambito della Associazione combattentistica di cui era Presidente, uno strumento utile per ricerche di carattere storico. Con la morte del Gen. Luigi Poli, nel 2013, il progetto sembrava arenarsi. Ripreso in ambito CESVAM, il progetto continua e si è ben sviluppato, sempre avendo come base questo volume, che oggi è presentato nella edizione dei “Libri del Nastro Azzurro” continuando la sua funzione di divulgazione e studio delle tematiche storiche.

Prendendo a riferimento il fenomeno “guerra” il volume propone schemi attagliati, anche in combinazione tra loro, alla guerra classica, alla guerra rivoluzionaria e/o sovversiva, ed alle recenti peace support operations, ove in questo caso, i soggetti protagonisti da due passano a tre (parti in conflitto/forze di interposizione). Sono note e suggerimenti sia per coloro che voglio studiare la Storia, ma anche per coloro che voglio capire la “Storia” attraverso chiavi di lettura basate sul metodo storico. Un volume più da consultare e tenere presente che da leggere

Interverranno per approfondire gli spunti qui indicati alcuni componenti del Collegio dei Redattori dei “Quaderni” del Nastro Azzurro, che hanno adottato questo volume come strumento di lavoro e di studio.

La presentazione della ricerca e del volume si terra:
MERCOLEDI 8 GIUGNO 2016 ORE 17.00 nella Sede Nazionale del Nastro Azzurro, Sala Maggiore, Viale Regina Margherita/Piazza Galeno 1 Roma


La S.V. è invitata a partecipare e, se lo crede opportuno, intervenire..