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L'UNUCI per l'Umbria

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domenica 22 dicembre 2013

Auguri

Da Massimo Coltrinari

I più sinceri auguri di un Sereno Natale
 e 
di un Felice Anno Nuovo


giovedì 28 novembre 2013

Master in Strategia Globale e Sicurezza

Da Massimo Coltrinari:
inoltro la lettera che gli amici dello IsAG hanno preparato in merito al Master in titolo, di cui sono insegnante.Chi è interessato non esitia  contattarmi (coltrinari2011@libero.it) per dettagli ed informazioni


con la presente abbiamo il piacere d'informarvi che, a partire dall'edizione 2014, l'IsAG sarà co-organizzatore del Master in Geopolitica e Sicurezza Globale dell'Università Sapienza di Roma, in partnership con CeSI e altri istituti. Le lezioni anche il prossimo anno si svolgeranno da gennaio a dicembre presso il Palazzo Marina, sede della Marina Militare.

Il Master, di II livello, grazie al suo approccio multidisciplinare alle questioni internazionali si rivolge a una pluralità di categorie: a laureati magistrali (o V.O.) di Scienze umane e dell'ambiente, di Lettere o di Giurisprudenza, a professionisti di tutti i settori in cui la realtà estera è rilevante, a dipendenti della P.A., delle FF.AA. e delle rappresentanze diplomatiche e consolari. Direttore del Master è il professor Gianfranco Lizza, che presiede un consiglio d'accademici che include anche il presidente dell'IsAG Tiberio Graziani.

I moduli didattici del Master coniugano gli inquadramenti generali con quelli specifici dell’analisi strategica e delle politiche di sicurezza. I partecipanti potranno acquisire i necessari approfondimenti culturali per accedere ai concorsi pubblici e alle aziende di settore al fine di migliorare il loro profilo professionale.

Il programma didattico del Master si articola in 18 moduli, per un totale di 60 cfu, per oltre 200 ore di lezioni frontali tenute da importanti accademici, professionisti del settore, diplomatici e militari. I moduli spaziano dallo storico-geopolitico al diritto internazionale, dalla finanza alle risorse energetiche, dalla difesa alla criminalità organizzata, affrontando poi l'analisi di singoli scenari geografici.

Ai frequentanti del Master sarà offerta la possibilità di inserirsi e confrontarsi col mondo del lavoro tramite stage presso centri di ricerca internazionalistici, studi legali specializzati nell'internazionalizzazione d'impresa, rappresentanze diplomatiche e aziende.

Nel sito ufficiale del Master (clicca qui per raggiungerlo) è possibile consultare gli elenchi integrali dei docenti e delle lezioni, delle opportunità di stage già attivate, e trovare le istruzioni dettagliate su come effettuare l'iscrizione. Il costo di iscrizione è pari a € 2500 e il Master dura 12 mesi. 
La scadenza per le iscrizioni è prevista al 17 dicembre prossimo.
 

Cordiali saluti,
Daniele Scalea

sabato 23 novembre 2013

Italia: movimenti nel campo della industria della difesa

Industria della difesa
Finmeccanica, il dado è tratto 
Michele Nones
08/11/2013
 più piccolopiù grande
Con la decisione di cedere Ansaldo Energia entro la fine di quest’anno, Finmeccanica ha definitivamente rotto gli indugi, cominciando a mettere in pratica la strategia di concentrazione dell’aerospazio, sicurezza e difesa e di abbandono dei settori esclusivamente civili e completamente scollegati con il suo core business.

Su questa decisione si è discusso per un decennio senza risultati e nemmeno la sua ufficializzazione, nel 2011, aveva consentito di fare dei passi avanti in questa direzione. Va quindi dato atto al nuovo vertice aziendale di aver conseguito un primo risultato di grande importanza.

Focus necessario
Alla base di questa strategia vi sono poche semplici considerazioni sulla realtà di Finmeccanica. Questa è stata fino ad ora impegnata in troppi settori. In molti di questi non ha le dimensioni per competere sul mercato globale. In aggiunta, non ha le risorse umane e finanziarie per sostenere adeguatamente tutti questi settori. Infine, ha un livello eccessivo di indebitamento. Il ritardo della riorganizzazione non aiuta, così come non lo sta facendo la riduzione delle spese militari in alcuni suoi importanti mercati di riferimento, fra cui quello nazionale.

Di qui la necessità di una sua concentrazione e specializzazione nelle aree di eccellenza tecnologica dove da sola o in collaborazione con altri partner internazionali potrà continuare a rimanere un player a livello globale.

In questo quadro, è del tutto evidente che le attività puramente civili ed estranee, come energia e trasporti, non potevano continuare a essere presidiate. Nel secondo caso giocano poi negativamente le costanti e rilevanti perdite, nonostante i ripetuti tentativi di porvi rimedio attraverso numerose ristrutturazioni.

Condizionamenti
In questi termini la soluzione era facilmente individuabile, ma l’esperienza di Finmeccanica ha dimostrato quanto sia ancora forte il condizionamento politico e sociale, giocato, per altro, tutto in difesa di uno status quo e di un rinvio senza fine di ogni decisione. Un atteggiamento trasversalmente diffuso fra i nostri decisori politici che, nelle imprese partecipate dallo stato (in Finmeccanica il 30%), assume un potere di veto difficilissimo da rimuovere.

Nello scorso decennio né i governi di centro-destra, né quello di centro-sinistra si sono dimostrati dei saggi azionisti, cercando di tutelare l’interesse nazionale sul piano strategico ed evitando di intromettersi nelle scelte industriali del gruppo.

Hanno, invece, favorito la ricerca della tranquillità sociale, anche se pagata a caro prezzo: nessun licenziamento dei dirigenti incapaci o infedeli (spesso “protetti” a livello politico), né chiusura di impianti inefficienti (e, nei pochi casi avvenuti, tempi poco compatibili con un mercato internazionale sempre più ferocemente competitivo).

Nel contempo, sono pesate la volontà dei vertici aziendali di mantenere una grande dimensione finanziaria (anche se raggiunta a discapito del rafforzamento del core business) e di non contrariare l’azionista pubblico, anche tenendo conto dei risultati economici non certamente brillanti. Il livello di indipendenza è così sceso progressivamente impedendo di fatto, fino ad ora, ogni capacità di manovra.

Lenta agonia 
Da qui dovrebbe partire anche una seria riflessione sull’opportunità che in Italia si arrivi al più presto a una completa privatizzazione delle imprese, lasciando allo stato solo i poteri speciali previsti, limitatamente ai settori strategici, dalla nuova normativa del 2012.

L’attenzione per i problemi sociali derivanti dalle ristrutturazioni industriali dovrebbe, infatti, portare a gestire questi processi di trasformazione attraverso l’accompagnamento al pensionamento, la riqualificazione del personale, ma, soprattutto, creando condizioni favorevoli all’avvio di nuove attività nelle aree interessate.

Limitarsi a resistere significa solo una lenta agonia in cui si salvaguardano in qualche modo quanti stanno all’interno a discapito di quanti restano all’esterno (compresi i sub-fornitori) e soprattutto dei giovani in cerca di lavoro.

Questo condizionamento è risultato evidente anche nel caso di Ansaldo Energia dove Finmeccanica ha dovuto pagare pegno accettando di rimanervi, seppure con una quota irrilevante (il 15%) ancora per tre anni.

Per altro la soluzione dell’intervento del Fondo strategico italiano della cassa depositi e prestiti è dichiaratamente interlocutoria perché la società genovese aveva ed ha bisogno non di un partner finanziario, ma di un partner industriale “di mestiere” che garantisca la capacità di investimento tecnologico e l’espansione sul mercato internazionale.

Terapia tardiva
Fin dall’inizio, d’altra parte, la questione è stata impostata male, attribuendo la proposta di cessione alla necessità di fare cassa di Finmeccanica e non, invece, alla sua impossibilità di far fronte ai nuovi investimenti e al supporto che la società genovese richiede per rimanere efficiente e competitiva.

Purtroppo questo si verificherà con molto ritardo, ma nel nostro paese il fattore “tempo” non sembra essere preso in seria considerazione. Così si rischia, però, che un’iniziale terapia, per quanto intensa e dolorosa, non consenta al paziente di riprendersi e, alla fine, si debbano adottare misure molto più traumatiche.

Dopo questa decisione, la presenza di Ansaldo Breda in Finmeccanica ha ancora meno senso perché è rimasta l’unica attività “estranea” e, quindi, la priorità è ora quella di trovare rapidamente un gruppo in grado di integrarla. La sua situazione è talmente compromessa sul piano tecnologico, industriale, commerciale e finanziario che sarà comunque necessario accompagnare ogni ipotesi di soluzione con una rilevante dote.

Solo avendo la certezza che anche questo problema sarà tempestivamente risolto, Finmeccanica potrà affrontare nuove sfide all’interno del suo core business in una logica sia di internazionalizzazione di alcune attività dove da sola non può essere un player, sia di espansione e rafforzamento in Italia e all’estero.

L’aver finalmente stabilizzato il vertice aziendale consente di compiere le scelte necessarie. Il problema non è e non può però rimanere confinato al piano industriale. È necessario che l’Italia definisca una sua strategia nazionale nel settore delle alte tecnologie, assicurando il necessario supporto per la fase di ricerca, sviluppo e industrializzazione a livello sia nazionale sia europeo, a partire dal rifinanziamento della legge 808 che, analogamente agli altri grandi paesi europei, ha consentito di far crescere la nostra industria.

È con questa base tecnologica e industriale nazionale, guidata da Finmeccanica, che anche il nostro paese può partecipare alla costruzione di una capacità europea nell’aerospazio, sicurezza e difesa.

Michele Nones è direttore dell'Area sicurezza e difesa dello IAI.
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venerdì 22 novembre 2013

Cefalonia VIII. L'azione delle forze armate germaniche


 (oontinuazione della ricostruzione dei fatti di Cefalonia secondo una ricostruzione del 1945)

L’AGGRESSIONE TEDESCA NEL SETTORE LIXURI

 «Il mattino del 12 settembre, domenica,- dice P. Formato- ebbi modo di visitare, per la celebrazione della Messa, le batterie del mio reggimento. Non le riconobbi più. Gli artiglieri, sempre bravi, sereni, disciplinati mi apparvero in preda alla più preoccupante agitazione. Chi sa in che modo fra essi, e ormai fra tutte le truppe, si era sparsa la voce che il generale volesse «vigliaccamente» disarmare la divisione di fronte ad uno sparuto numero di tedeschi, Il generale era ormai tacciato di «tedoscofilo», di «vigliacco», di «traditore» e peggio. Con gli occhi di fuori, lividi di indignazione, ufficiali e artiglieri mi urlavano di riferire che essi non avrebbero mai obbedito a chi avesse ordinato il disonore, che essi non avrebbero consegnato le armi a nessuno. L’eccitazione era impressionante ed andava sviluppandosi con la rapidità di un incendio».
Quanto accadeva fra gli artiglieri del 33° reggimento, accadeva pure, in misura forse minore ma sempre rilevante, in tutti i reparti dell’isola; ed in special modo fra quelli stanziati in Argostoli e vicinanze.
L’ordine o comunque un preavviso ufficiale sulla cessione delle armi non era stato peò ancora diramato.
Si trattava quindi, come dice P. Formato, di voci,
Ed anche il capitano Bronzini annota: «il diffondersi della voce che il generale stesse per concludere la cessione delle armi agitava la truppa».
Ma il fermento fra le truppe, anche senza ordini veri e propri, pur proveniva da qualche cosa di fondato.
Come sappiamo, nel rapporto del mattino precedente presso il comandante della divisione, non si era addivenuti ad «una chiara conclusione» : la maggior parte dei comandanti si era però pronunciata a favore della cessione delle armi.
E’ dunque più che verosimile che questi comandanti, ritornati presso i loro reparti, abbiano ritenuto di non dover nascondere ai propri collaboratori più vicini, e forse alle truppe stesse, lo stato delle trattative in corso e le stesse loro opinioni. Ne è da escludere che essi abbiano anche dato il via a qualche provvedimento preventivo per il caso, ritenuto ormai probabile ed imminente, che alla cessione delle armi si dovesse addivenire.
Comunque, la situazione del presidio di Cefalonia, il mattino del 12, aveva assunto aspetti che si prestano ormai ad una definizione.
Il comandante della divisione, col consenso della maggior parte dei comandanti in sottordine, persisteva nell’idea che la miglior soluzione consistesse nella cessione «onorevole» delle armi.
Egli aveva ancora fiducia in una conclusione, in tal senso, delle trattative.
Anzi, pur di giungere a tanto, sembra che non abbia dato rilievo ad incidenti relativamente minimi ma tuttavia sintomatici: il disarmo, da parte tedesca, di due nostri soldati e del drappello inviato ad Ankonas per recuperare i due moschetti; le cannonate contro il «tre alberi» nella rada di Argostoli (c’è però chi asserisce che il veliero tentasse veramente la fuga); la presa di posizione del semovente tedesco contro il dragamine armato di mitragliere.
E nemmeno, sembra, dette peso a quanto avevano riferito i militari di Santa Maura : che cioè il presidio di quell’isola, una volta arresosi, era stato, contrariamente ai patti, internato a Missolungi.
Aveva infine ceduto ai tedeschi ( e dato l’ordine, che fu eseguito nel pomeriggio del 12) l’importante posizione di Kardakata.
Nei reparti, il fenomeno era grande più specialmente fra le t, far i sottufficiali, fra gli ufficiali giovani, subalterni e capitani.
Il 33° artiglieria, come s’è già detto, era in testa a tutti: ma qui però anche il comandante, col. Romagnoli, anche se non esplicitamente, aveva aderito al movimento.
Negli altri reparti, invece, anche di artiglieria, gli ufficiali superiori avevano assunto un atteggiamento temporeggiatore manifestando apertamente l’intenzione di non voler contrastare alle decisioni che stava per prendere il comandante della divisione.
Alla testa del movimento, il 33° artiglieria.
In questo reggimento si distinguevano particolarmente il capitano Apollonio, il capitano Pampaloni, il capitano Longoni ed il tenente Ambrosini.
L’Apollonio, triestino di nascita – suo padre fervente irredentista, aveva subito trentanove processi politici da parte dell’Austria – è così giudicato dal sottotenente Boni: «di vivace intelligenza capace di dominare le più impensate situazioni, egli trovò campo fecondo per poter mettere in evidenza le sue qualità negli avvenimenti del settembre 1943».
E dal cappellano don Luigi Ghilardini: «le sue qualità sono molte, operanti sotto una viva intelligenza. I suoi soldati si specchiavano nel viso ed a lui guardavano e gioivano; lo chiamavano «la prova dell’onestà». E da P. Formato: «militare in tutta l’estensione della parola ha sempre nutrito rigidissimo senso del dovere e dell’onor militare. Qualche volta, per questo motivo, potè essere giudicato dai suoi artiglieri come troppo severo. Tuttavia fu sempre circondato dalla loro illimitata stima e dal più affettuoso attaccamento». E dal sottotenente Elio Esposito: «La sua figura spiccava fra tutti per la volontà inflessibile, per una serietà e dignità che veramente si imponevano».
La mattina del giorno 12, dunque, i capitani Apollonio, Pampaloni, Longoni, i tenenti Ambrosini, Boni e Cei erano far coloro che maggiormente propugnavano la lotta contro  tedeschi.
Dice il sottotenente Boni:«il capitano Apollonio assumeva la direzione di tutto il movimento anche per il fatto che, trovandosi la sua batteria all’ingresso della città, gli riuscivano facili i collegamenti con i comandi, con i reparti di fanteria e di artiglieria dislocati in Argostoli, con la Marina e con i patrioti greci. Disponeva inoltre di una  buona rete di informazioni che gli permetteva di controllare il benché minimo movimento di truppe tedesche».
Un altro aspetto della situazione, anch’esso chiaro, era determinato dall’ormai aperta fraternizzazione, a fine antitedesco, della popolazione greca dell’isola con i nostri soldati.
«La popolazione greca – dice P. Formato- era in gran fermento. Molti ex-ufficiali greci si presentavano ai vari comandi chiedendo armi e pregando di essere tenuti a disposizione nella lotta contro i tedeschi. Dal comando artiglieria furono allontanato con durezza; altrove – e soprattutto nei reparti minori – uomini e donne ottennero armi e munizioni in abbondanza».
Dichiara il capitano Apollonio: «verso le 10 ebbi degli interessanti colloqui con gli ufficiali greci Migliaressi e Kavadias. Poco dopo facevo intervenire al colloquio con le stesse persone il col. Romagnoli, il quale accettava in linea di massima l’offerta di collaborazione dei patrioti stessi. Il loro compito doveva consistere nel cooperare alle informazioni, nell’eseguire colpi di mano contro nuclei tedeschi isolati, tener sotto controllo con una compagnia il caposaldo tedesco isolato di Capo Munta, mentre altre due compagnie, dislocate lungo la strada Argostoli-Kardakata, dovevano intercettare, con guerriglia partigiana, autocolonne tedesche che eventualmente tentassero di raggiungere Argostoli. Subito dopo l’accordo, consegnai al ten. col. Kavadias ed al ten. Migliaressi gran numero di armi e munizioni per armare i patrioti greci che numerosi affluivano nelle file dell’ELAS. Presso di me veniva lasciato il sottotenente Gheorgopulo quale ufficiale di collegamento tra il mio ed il comanda partigiano greco di Cefalonia».
I patrioti greci, tentarono di porsi in relazione con lo stesso comandante della divisione.
«Si presentò al comando – informa il capitano Bronzini – un ex capitano dell’esercito greco. Egli dichiarò al generale che per la lotta contro i tedeschi erano già pronti nell’isola cinquecento uomini. Dal continente ne sarebbero potuti venie, entro due o tre giorni, circa duemila. Chiedeva di poter mettere le proprie forze al servizio della divisione e faceva presente la necessità di esser fornito di armi e munizioni. Il generale rispose che prendeva in considerazione la cosa e che si riservava pertanto di fargli conoscere la sua decisione appena possibile».
Qual’era lo stato d’animo dei tedeschi, ufficiali e truppa, in sì tempestose circostanze?
Non si può dare una risposta documentata. Ma è da ritenere per certo che essi, pochi di fronte a molti, tenessero gi occhi ben aperti su quanto stava succedendo nell’isola dalla sera dell’8 settembre. Non sarà pertanto loro sfuggito che l’intento conciliatore del comando della «Acqui» era infirmato dal comune e travolgente odio contro di loro delle truppe italiane. Come non sarà sfuggita l’intesa, ormai aperta ed operante, delle truppe italiane con la popolazione ed i partigiani greci. E’ quindi quasi certo che essi, intimoriti dal rumore della valanga che stava per precipitarsi su di loro, siano corsi ai ripari ed abbiano fra l ’altro riferito dello stato delle cose – senza neppure aver bisogno di esagerarlo – al comando superiore tedesco.
Questi glia spetti della situazione di Cefalonia nei riguardi del comando della «Acqui», delle truppe italiane, del rapporto fra italiani e greci, dello stato d’animo del presidio tedesco.
Non rimane che un quinto ed ultimo aspetto: il contegno del gen. Gandin di fronte alle intemperanze indisciplinari delle proprie truppe.
Il generale era al corrente di quanto avveniva nei diversi presidi dell’isola; sapeva inoltre di avere consenzienti al suo operato gli ufficiali superiori e grandissima parte di quelli inferiori, i quali tutti, pur contrari ad una cessione qualunque delle armi ai tedeschi, avevano apertamente dichiarato che avrebbero eseguito i suoi ordini.
«In più di un comando – ha dichiarato verbalmente P. Formato – gli elementi più accesi, ufficiali e soldati, venivano respinti con queste parole: non c’è bisogno di uscire dai termini disciplinari; qui ci sono soldati che conoscono i loro doveri ed uomini che non intendono abbandonare la via dell’onore».
Perché, dunque, così stando le cose, non risulta che il gen. Gandin abbia preso alcun provvedimento di rigore, sia pur formale, di fronte agli evidenti straripamenti disciplinari delle sue truppe?
L’assoluta assenza di segnalazioni a tal riguardo pone in luce un altro aspetto dell’animo generale.
Egli era nell’intimo solidale – pur nella contentezza delle gravi responsabilità umane e militari che pesavano su di lui – col sentimento dei suoi soldati.
Non poteva perciò avere alcun interesse di smorzare il furore delle sue truppe; sia per ricavarne maggiore consistenza alle trattative in corso per servirsene, in caso di fallimento delle trattative, quale miglior lievito per la lotta.
Nelle prime ore del pomeriggio del 12, per iniziativa d3el capitano Apollonio, venivano posti in libertà i prigionieri politici greci che si trovavano nelle carceri di Argostoli sotto custodia italiana.
Verso le 17, si diffuse la voce – risultata poi vera –che i tedeschi, nel settore di Lixuri, avevano sopraffatto le stazioni di carabinieri e di guardie di finanza dislocate nella cittadina di Lixuri e le due nostre batterie in posizione a San Giorgio e a Kavriata.
«Gli incidenti non si contavano ormai più; - dice P. Formato – ovunque si sentivano spari, detonazioni, di bombe  amano, farsi provocanti  e minacciose. Nessun ufficiale poteva più permettersi di pronunciare parole esortanti alla serenità ed alla disciplina senza essere all’istante tacciato di ».
aditore e di vigliacco. Il generale lavorava febbrilmente per giungere ad un accordo onorevole: l’andirivieni dei parlamentari al comando della divisione faceva però intravedere la difficoltà delle trattative».
« Il gen. Gandin – testimonia il capitano Bronzini – era indignato. Subito dopo, essendosi a lui presentato il ten. col. Barge, il generale gli chiese duramente spiegazione dei fatti di Lixuri. Il colonnello tedesco, con la consueta cortesia, si scusò dicendo che lui non aveva dato ordini, ma che erano stati i suoi soldati che avevano agito di iniziativa. Prometteva però che sarebbero stati senz’altro posti in libertà gli uomini. Per quanto riguardava le artiglierie, invece, si riservava di restituirle appena possibile».
Il ten col. Barge, però, appena terminata la discussione su questo argomento, fece la seguente dichiarazione: il comando superiore tedesco gli aveva tolto i poteri di trattare con il comando della «Acqui» e pertanto erano da considerarsi nulle le trattative fino ad allora svolte. Il comando superiore tedesco non intendeva più discutere: voleva soltanto sapere dal gen. Gandin se la «Acqui» era contro i tedeschi oppure si decideva a cedere le armi.
«Fu un colpo di scena – testimonia il capitano Bronzini – che rovesciò interamente la situazione».
Mentre al comando si svolgevano questi fatti un nuova voce corse come un baleno fra le truppe: il gen. Gandin aveva deciso ed «ordinato» la cessione delle armi ai tedeschi.
Dice il capitano Apollonio: «Appena diffusasi la notizia, mi recai presso il col. Romagnoli il quale me la confermò aggiungendo che egli era stato il solo ad opporsi e che si sarebbe fatto rilasciare dal generale una dichiarazione scritta che attestasse la sua opposizione. Io allora gli chiesi di essere messo a rapporto col generale Gandin. Mi recai infatti presso il capo di stato maggiore della divisione ed espressi il mio desiderio. Fui invitato a ripresentarmi col colonnello Romagnoli. Nell’attraversare in macchina la città, io e il mio colonnello, fummo fatti segno ad una entusiastica manifestazione di simpatia da parte della popolazione greca. Ormai si era diffusa la voce che l’artiglieria non intendeva consegnare la armi ma voleva combattere. In attesa di essere ricevuti dal generale, telefonai al capitano Pampaloni ed al tenente Ambrosini perché mi raggiungessero immediatamente al comando assieme a tutti gli altri ufficiali di fanteria che volessero appoggiarmi nel tentativo che stavo per compiere. Dopo pochi minuti parecchi ufficiali giungevano al comando della divisione. Nei corridoi del comando alcuni ufficiali subalterni e gli scrittuali si stringevano attorno a noi scongiurandoci di tentare l’impossibile pur di non cedere le armi».
«Io ed il capitano Apollonio – testimonia il capitano Pampaloni – entrammo in una stanza dove si trovavano il generale Gherzi, comandante la fanteria divisionale, il col. Romagnoli ed i colonnelli dei reggimenti di fanteria Cesari e Ricci. Apollonio ed io esprimemmo la nostra indignazione contro un «ordine» che ci imponeva la cessione delle armi. Tale ordine, aggiunsi io, non poteva essere dato perché sarebbe stato giudicato un «tradimento». A questa parola, il generale Gherzi mi richiamò duramente all’ordine e mi proibì di continuare su quel tono. Il col. Romagnoli, seduto in un angolo, sopra un tavolo, con al testa fra le mani, faceva segni di assenso a quanto io ed Apollonio dicevamo».
«Fummo introdotti alla presenza del generale – continua il capitano Apollonio – io, il col. Romagnoli, il capitano Pampaloni ed un ufficiale del 317° fanteria di cui non ricordo il nome».
Il colloquio, pur contenuto nei limiti della rigidità militare, fu drammatico.
Il generale fece presente che, esclusi senz’altro il primo ed il terzo dei punti imposti dai tedeschi, l’adozione del secondo non avrebbe avuto per gli italiani un risultato positivo perchè i tedeschi sarebbero stati subito soccorsi dalle forze nel continente greco e la loro aviazione avrebbe imperversato senza contrasto su tutta l’isola. Aveva perciò, sino ad allora, tentato l’impossibile per venire ad un accordo «onorevole».
Gli ufficiali presenti – e più specialmente i capitani Apollonio e Pampaloni – ribatterono le argomentazioni del generale riaffermando che, secondo loro, non vi erano che due vie: a andare con i tedeschi o andare contro. La cessione delle armi era fuori del loro sentimento dell’onore militare e poiché questo sentimento era condiviso da «tutte» le truppe del presidio, essi desideravano che il generale venisse incontro alla loro unanime volontà di combattere contro i tedeschi.
«Durante il colloquio, - dice il capitano Apollonio – il generale Gandin stava ritto dietro al tavolo con le mani ad esso poggiate. Il suo volto bianco ed imperlato di freddo sudore rivelava una indicibile interna sofferenza. Il suo atteggiamento e le sue parole rivelavano un uomo sovraccarico del peso delle sue responsabilità.
«Il generale Gandin, sebbene comandasse da poco tempo la divisione, era molto conosciuto. Non passava giorno senza che visitasse i reparti, senza che scendesse paternamente fra i suoi soldati portando loro doni di ogni genere. Amava troppo i suoi dipendenti e questo amore, soprattutto, l’indusse a temporeggiare».
A conclusione della discussione, il generale si riservava libertà d’azione e pregava gli astanti di non prendere, frattanto, alcuna iniziativa.
«Nel rientrare alle nostre batterie – dice il capitano Apollonio – fummo accolti da altre grida di giubilo da parte dei nostri artiglieri, i quali, ritenendo che fossimo stati arrestati, avevano già puntato i pezzi carichi sul comando della divisione ed avevano già preparato un plotone fortemente armato per andare ad arrestare il generale».
Era dunque vera o falsa la voce secondo cui il generale aveva già dato l’ordine per la cessione delle armi? E, se non proprio l’ordine, un preavviso o qualche cosa di simile?
Non è possibile una risposta esauriente a tali interrogativi.
Resta il fatto che un tale ordine – per quanto abbiamo visto e vedremo in seguito – non trova giustapposizione logica nel minuto sviluppo dei fatti qui descritto. Ed è anche certo che dei testimoni finora interrogati nessuno asserisce di aver visto l’ordine con i propri occhi.
Il generale, intanto, sulla base del nuovo dato di fatto rappresentato dall’aggressione tedesca nel settore di Lixuri, convocò per le ore 20 un consiglio di guerra nella sede del comando artiglieria divisionale.
Nel recarsi, qualche minuto prima, alla riunione, una bomba a mano fu lanciata contro la sua automobile; ma esplose senza conseguenze. Gruppi di soldati circondarono la macchina gridandogli «traditore»; uno più audace strappò dal cofano il guidoncino di comando urlando che il generale era indegno di portarlo.
Al consiglio di guerra intervennero: il capo di stato maggiore della divisione ten. col. Fioretti, il col. Romagnoli, comandante l’artiglieria divisionale, il ten. col. Cessari, comandante del 17° fanteria, il col. Ricci, comandante del 317° fanteria, il maggiore Filippini, comandante del genio divisionale, il capitano di fregata Mastrangelo, comandante «Marina Argostoli», il capitano CC. RR. Gasco, comandante la 2ª compagnia carabinieri.
Non abbiamo notizia di quanto nella riunione fu discusso.
Alla fine di essa però – secondo la testimonianza del capitano Bronzini – furono prese le seguenti decisioni: - il gen. Gandin, offeso per il modo di procedere da parte del comando superiore tedesco, si rifiutava d’ora in avanti di trattare un ufficiali tedeschi che non fossero suoi pari gardo e che non si rivolgessero a lui con garantite funzioni plenipotenziarie; - gli ufficiali tedeschi che fossero venuti d’ora in avanti a trattare dovevano essere accompagnati da un ufficiale del comando dell’11ª armata conosciuto dal gen. Gandin; - si intimava ai tedeschi di non effettuare invii di rinforzi dal continente né movimenti nell’interno di Cefalonia prima delle conclusioni delle trattative; - si garantiva infine, da parte italiana, di non compiere atti ostili qualora i tedeschi avessero rispettato gli impegni di cui sopra.
La lettera con queste decisioni venne direttamente indirizzata al comando superiore tedesco e consegnata al ten. col. Barge perché la trasmettesse con la sua stazione radio.
«A mezzanotte – informa il capitano Bronzini – ecco finalmente che il presidio di Corfù si fa vivo. Il colonnello Lusignani, comandante del 18° fanteria e comandante militare dell’isola, ci informa di avere reagito alle richieste tedesche di cedere le armi. A Corfù il battaglione tedesco è stato battuto e fatto prigioniero. Durante la lotta sono stati abbattuti anche tre aerei. L’isola è ora sotto la completa sovranità delle forze italiane.
«La notizia è accolta con un’esplosione di giubilo al comando della divisione. Il generale però, dato il forte stato di eccitazione delle truppe, ordina di procrastinare la comunicazione della gesta di Corfù ai reparti di Cefalonia».
Dice il capitano Apollonio:«tutta la notte fra il 12 ed il 13 di settembre la impiegai a coordianre quanto già era stato fatto con la propaganda dei giorni precedenti.
«Intanto giungevano nella mia tenda altri ufficiali per segnalarmi nuove adesioni.
«Fino a mezzanotte lavorai quasi esclusivamente con patrioti greci ed insieme al capitano Lazaratos ed al sottotenente Gheorgopulo andai a passare segretamente in rivista un’intera compagnia di patrioti greci perfettamente armata ed alla quale portai gran quantità di viveri e di munizioni.
«Mi misi poi in contatto con vari comandanti di fanteria.
«Questi ufficiali, con altri di artiglieria, furono convocati nella mia tenda.
«La riunione si protrasse fino alle 5 del mattino e si concluse con le seguenti decisioni: salvo gravi imprevisti, si sarebbe mantenuta la calma per dare al generale tutte le possibilità di continuare le trattative; ordini della divisione di deporre le armi o di eseguire movimenti verso zone di concentramento indicate dai tedeschi non sarebbero stati eseguiti senza preventivo accordo; impegno da parte di tutti che se l’artiglieria avesse aperto il fuoco i reparti di fanteria di Argostoli avrebbero fatto prigioniere le truppe tedesche di stanza nella città. Dopo di che il secondo battaglione del 17° fanteria ed il terzo del 317°, autocarrati e scortati dalla terza e quinta batteria, del 33°, anch’esse autocarrate, si sarebbero avviati alla volta di Lixuri per costringere alla resa i due battaglioni tedeschi colà dislocati. Realizzato, infine, tale piano, le truppe avrebbero dovuto rioccupare le posizioni costiere precedentemente tenute contro il tentativo tedesco di impossessarsi dell’isola».
Analoga opera svolgeva il capitano Pampaloni, il quale però segnala un significativo episodio. «Verso le ore 2 di notte – egli scrive – venne nel mio caposaldo il tenente del 317° fanteria, a riferirmi che aveva ricevuto l’ordine della divisione di spostare il suo battaglione dall’attuale posizione, il cimitero di Argostoli. Poiché tale spostamento veniva a scoprire le spalle della mia batteria, mi recai, col ten. col. Siervo, dal col. Romagnoli. Fui introdotto nella camera del colonnello, che misi al corrente dell’ordine pregandolo con le lagrime agli occhi di farlo revocare. Il colonnello, mentre si alzava e si vestiva, mi disse che mentre era sicuro degli artiglieri non lo era dei fanti. Fu pertanto introdotto il ten. col. Siervo, a cui il col. Romagnoli chiese: - se la rompiamo con i tedeschi ed i tuoi fanti saranno sottoposti, indifesi, ad un intenso bombardamento aereo, sei sicuro che non sbanderanno? – No assolutamente; non sono sicuro, rispose il ten. col. Siervo.
«Dopo di che, il col. Romagnoli, rivoltosi a me, disse: come vuoi, benedetto figlio, che io mi assuma questa terribile responsabilità?».


martedì 12 novembre 2013

Ucraina: Incontro organizzato allo IAI

The Istituto Affari Internazionali
is pleased to invite you
to a conference on
EU-UKRAINE
Deep and Comprehensive Free-trade Area:
New Opportunities for Europe
ROME, 19 NOVEMBER 2013
15:30 – 18:00
“Palazzo” Room – 1st floor
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giovedì 31 ottobre 2013

Cefalonia VII. "Ribellarsi al generale"

(prosegue la pubblicazione della ricostruzione degli eventi di Cefalonia iniziata il 25 maggio u.s.)

I TRE PUNTI

All’alba dell’11, un incidente: ad un “tre alberi” italiano, che si stava spostando nella rada di Argostoli, la batteria dei semoventi tedesca, sospettando che il veliero tentasse la fuga, sparò contro alcuni colpi di monito.
Poche ore dopo, un fatto grave: la diffusione di foglietti volanti che invitavano i soldati a “ribellarsi al Generale”. I manifestini terminavano con la scritta “Unione Ufficiali Italiani Antifascisti”. Chi ne era l’autore? “Da indagini eseguite più tardi – dice il capitano Apollonio – risultarono stampati nella tipografia greca dell’EAM di Cefalonia. Erano scritti in un italiano del tutto sgrammaticato”.
I sospetti cadono pertanto sulla propaganda greca, la quale, naturalmente,più che ad una soluzione onorevole, era interessata a porre in conflitto armato italiani e tedeschi.
Certo è che la distribuzione dei manifestini segnò l’inizio del dualismo, che si acuirà sempre più nei giorni seguenti, fra le truppe e il generale comandante e cominciarono, da quel momento, a circolare senza ritegno le parole “traditore” e “tradimento”.
Nel pomeriggio, altro incidente più significativo.
Un gruppo di tedeschi con un semovente da 75 si trasferì al porto e qui giunto puntò  il pezzo contro un dragamine con l’evidente intenzione di neutralizzare, all’occorrenza, l’azione di due mitragliere da 20 istallate a bordo del natante.
“Il nostro sottotenente comandante la sezione – riferisce il capitano Apollonio – levati gli otturatori alle mitragliere venne subito presso di me, ed io, col tacito consenso del col .Romagnoli, apprestai due autocarri di volontari armati e mi recai al porto per  recuperare i due pezzi. Le due mitragliere vennero trasportate nel caposaldo del capitano Pampaloni. Nel mentre gli autocarri attraversavano la città di Argostoli, la popolazione greca, che aveva seguito l’avvenimento, fece un’entusiastica manifestazione che commosse e nello stesso tempo eccitò gli animi dei soldati”.
Nello stesso pomeriggio, un sottotenente del 17° fanteria si recava in autocarretta ad Ankonas con l’incarico dal proprio comando di farsi restituire dai tedeschi due moschetti che questi avevano tolto il giorno prima  a due nostri soldati. I tedeschi catturavano l’autocarretta e disarmavano l’ufficiale e la truppa.
La sera, giungevano da Santa Maura, dopo molte peripezie. Alcuni nostri soldati “portando la triste notizia che il presidio di quell’isola aveva ceduto le armi ai tedeschi ed era stato avviato verso i campi di concentramento nelle zone malariche di Missolungi”.
Aumentavano intanto le iniziative personali, specie fra gli ufficiali del reggimento di artiglieria.
Nel caposaldo del capitano Pampaloni “a due ufficiali greci che offrivano la collaborazione di un battaglione greco furono fornite armi e munizioni e furono impartite direttive sulla condotta da seguire nei giorni successivi”.
Alla batteria del capitano Apollonio affluivano in gran numero soldati che volevano combattere. “Marinai, guardie di finanza, carabinieri, fanti venivano suddivisi in squadre e ad ognuno era assegnato un compito. Si svolsero scene di commovente patriottismo”.
“Passai la notte intera – dice il capitano Apollonio – in giro fra i vari reparti. Tutti erano pronti. Patrioti greci e soldati accorrevano a me offrendosi per sopprimere il generale. Mi opposi per varie ragioni. Ma sin da quel momento decisi che bisognava agire senz’altro di iniziativa. Mi tratteneva soltanto il fatto che i due comandanti dei battaglioni di fanteria, il secondo del 17° ed il terzo del 317°, non erano ancora propensi all’azione”.
Nei battaglioni di fanteria infatti – sebbene “il fermento fra i soldati crescesse in maniera impressionante” – nessun ufficiale, a tutto il giorno 11, aveva ancora preso iniziative contrastanti con gli ordini dei propri comandi.
Frattanto, nelle prime ore del mattino, quasi contemporaneamente all’incidente del veliero nella rada, giungeva al comando della divisione – trasmessa dal ten. col. Barge – la risposta del comando superiore tedesco alle proposte formulate dal gen. Gandin la sera prima.
Le richieste del generale erano, in linea generale, tutte accolte; salvo ulteriori trattative sui particolari esecutivi.
Il comando superiore tedesco, poiché doveva subito assumere, in sostituzione degli italiani, la difesa di Cefalonia, prospettava la necessità che tutta la “Acqui” lasciasse la costa e si trasferisse all’interno dell’isola: per zona di raccolta si suggeriva la conca di Valsamata. Il comando della divisione, col quartier generale, si sarebbe potuto trasferire a Samos.
La comunicazione, però, così finiva: il comando tedesco desidera chiaramente conoscere l’atteggiamento che la divisione “Acqui” intende di assumere in questa situazione. Il generale deve quindi esplicitamente optare per uno di questi tre punti: a favore dei tedeschi – contro i tedeschi – cessione delle armi. Termine per la risposta: ore 19 dello stesso giorno.
“Questa lettera, - commenta il capitano Bronzini – per quanto non redatta in termini ostili, costringe il generale a dare quella definitiva risposta che era riuscito finora ad evitare.”
“Un’ora grave pesa su tutti noi”.
Subito dopo tale comunicazione, il gen. Gandin chiamò a rapporto tutti i comandanti di corpo e di servizi della divisione.”
Il generale – testimonia il capitano Bronzini – pose la questione nei seguenti termini: il primo punto è in contrasto con il giuramento al Re e costituisce una violazione dell’armistizio. Il terzo è disonorevole. Del secondo, volendolo adottare, quali saranno le conseguenze?”
La riunione durò a lungo, quasi tutta la mattina: ma purtroppo nessuna traccia è rimasta di quanto fu discusso.
“Non si arrivò ad una chiara conclusione – dice il predetto capitano – ma, come nel rapporto precedente, insistettero per la cessione delle armi la grande maggioranza dei convenuti, manifestandosi contro solo il comandante di Marina , Mastrangelo, ed il colonnello di artiglieria, Romagnoli”.
Dopo il rapporto dei comandanti, il gen. Gandin decise di sentire il parere dei cappellani della divisione.
“La conoscenza che essi hanno della truppa – commenta lo stesso capitano Bronzini – per il quotidiano e più libero contatto con essa, nonché la serenità del loro giudizio, sono elementi che il generale, in sì grave situazione, non poteva trascurare”.
I cappellano giunsero al comando alle ore 18 circa.
Quanto si svolse durante questa riunione è invece largamente descritto da padre Romualdo Formato, il quale dice: “andiamo al rapporto pensando che il generale voglia esortarci ad identificare la nostra opera sacerdotale per tenere alto fiducioso e sereno l’animo della truppa in una contingenza così estremamente critica e ripetiamo fra noi: se il generale riuscisse a mantenere senza incidenti lo stato di reciproca cordialità con le truppe tedesche bisognerebbe fargli un monumento d’oro.”
“Tanto siamo lontani dall’immaginare quale ingrata sorpresa ci attende, quale grave parere siamo chiamati a proferire”.
Il generale è pallido, ritto dietro al suo tavolo.
“Incomincia così:
“Dopo i comandanti di corpo, ho voluto chiamare anche voi”.
“Voi siete sacerdoti, ministri di Dio”.
“Voi conoscete l’animo del soldato e potete essermi preziosi in questo momento”.
“Questo momento è quanto mai tragico per me e per la mia divisione”.
“Ho sulla coscienza la responsabilità della vita di oltre diecimila figli di mamma”.
“La vita di tutti questi ragazzi può essere messa a repentaglio dalla decisione che sto per prendere”.
“Un ultimatum del comando tedesco di Atene mi invita a decidermi su uno dei seguenti punti: continuare la lotta accanto ai tedeschi; combattere contro i tedeschi; cedere le armi”.
“Premetto che siamo legati davanti a Dio e davanti alla Patria da un giuramento di fedeltà alla Maestà del Re. Non sarò io a ricordare ai sacerdoti che il giuramento è un atto sacro col quale chiamiamo Iddio stesso a diretta testimonianza di quanto affermiamo e promettiamo. Il nuovo legittimo Governo del re ha firmato un armistizio. Non possiamo dunque più impegnare le armi contro il nemico di ieri.
«Dall’altra parte, perché, senza grande motivo e provocazione, rivolgere le armi contro un popolo che ci è stato alleato per tre anni combattendo la nostra stessa g e condividendo i nostri stessi sacrifici?
«Resta la soluzione di cedere pacificamente le armi.
«Mi hanno assicurato che si tratterebbe soltanto delle armi pesanti, le quali ci sono state date quasi tutte dai tedeschi stessi.
«Ma questo atto della cessione non viola forse lo spirito dell’armistizio e, per conseguenza, non verremmo egualmente meno al giuramento di fedeltà al Re?
«E ancora: dove se ne andrebbe, cos’ facendo, l’onore delle armi, che è la cosa più cara al soldato e ad un esercito sfortunato ma pur glorioso qual è l’italiano?
«Eppure, su uno di questi tre punti devo decidermi.
«Riflettete che, se dovesse verificarsi un conflitto armato contro i tedeschi, numerosi e forti come siamo in quest’isola, avremo, in una prima fase, il sopravvento. Ma non dimentichiamo che dietro di noi, sul vicino continente greco, ci sono oltre 300 mila tedeschi, certamente decisi qui con uomini e materiali. Essi possono lanciare sull’isola le loro squadriglie di «Stukas» e massacrarci indisturbatamente. La truppa, allora, combatterebbe di buon animo? Resisterebbe, indifesa, sotto i bombardamenti aerei?
«Tenete presenti queste osservazioni e siccome ho poco tempo a disposizione –sono le 18 ed il comando tedesco vuole la risposta per le 19- ciascuno di voi, senza perdersi in inutili discussioni, mi dichiari il suo parere significando quali dei tre punti sente di potermi in coscienza suggerire come minore male».
«Eravamo in sette: tutti, eccetto uno, ci pronunciammo per il terzo punto.
«Il generale ci congeda e conclude:«Pregate Iddio perché mi assista in una ora così importante per la divisione  e così tragica per la mia coscienza».
«Ci ritiriamo.
«Evitiamo di parlare con gli ufficiali che affollano i corridoi e desiderano notizie.
«Appena sulla strada, ci guardiamo in viso stupefatti, trasognati. Decidiamo di recarci nel vicino Istituto delle Suore Italiane. Sostiamo a pregare dinanzi al Crocefisso. Poi ci riuniamo nel salone, esaminiamo ogni lato della situazione, ne discutiamo a lungo: dobbiamo convincerci che, tutto considerato, è un imperioso dovere quel consiglio che abbiamo già suggerito.
«Immediatamente scriviamo e facciamo recapitare al generale la seguente lettera:
«Signor Generale, appena usciti dal vostro ufficio, ci siamo recati in Chiesa ad invocare l’aiuto di Dio e ci siamo nuovamente riuniti nel salone dell’Istituto delle Suore Italiane. Abbiamo, con maggiore calma, esaminato e ponderato quanto voi ci avete esposto ed il parere che ciascuno di noi ha creduto, in coscienza, di darvi in un momento così grave. Abbiamo dovuto, questa volta all’unanimità, nuovamente constatare che il nostro consiglio non poteva essere che quello che vi abbiamo schiettamente espresso. Per evitare un lotta cruenta e forse impari e fatale contro l’alleato di ieri, per tenere fede al giuramento di fedeltà alla Maestà del Re (giuramento che, come voi stesso ci avete ricordato, è un atto sacro, col quale si chiama Dio stesso a testimonianza della parola data) e, infine, e soprattutto, per evitare un inutile spargimento di sangue fraterno, signor Generale, altra via non c’è. Non resta che cedere pacificamente le armi.
«Dinanzi al tenore dell’ultimatum germanico, voi, signor generale, isolato da tutti, impossibilitato di mettervi in comunicazione coi superiori comandi di Grecia e d’Italia e di ricevere ordini precisi, voi vi trovate nella ineluttabile necessità di dover cedere ad una dura imposizione per evitare l’inutile supremo sacrificio dei vostri ufficiali e dei vostri soldati.
«Siamo profondamente compresi della gravissima responsabilità che in questo tragico momento pesa sul vostro animo.
«Ora, più che mai, i vostri cappellani si sentono strettamente uniti a voi. Contate sul nostro devoto affetto, sulla nostra opera, e soprattutto sulla nostra preghiera.
«Da Dio invochiamo infatti luce al vostro intelletto e conforto al vostro cuore. Egli vi protegga e vi benedica, signor generale! E benedica, con voi, la vostra famiglia lontana e la vostra amatissima divisione.
«I vostri cappellani: P. Romualdo Formato – Don Biagio Pellizzari – Don Angelo Ragnoli – Don Mario di Trapani – P. Duilio Capozzi – P. Luigi Gherardini – P. Angelo Cavagnini».
Alle ore 19 il ten. Col. Barge si presentò al comando per la risposta.
Il generale chiese una dilatazione fino al mattino del giorno seguente.
Il colonnello tedesco ritornò a Liguri, si pose in comunicazione col proprio comando, ritornò subito dopo dichiarando che la dilazione era stata accordata.
Ma nella sera e durante la notte continuarono i colloqui del generale col comandante tedesco.
Il generale ribadì le sue intenzioni: la cessione delle armi sarebbe avvenuta nella misura e con le modalità precedentemente accordate. I reparti sarebbero rimasti schierati sulle attuali posizioni fino al giorno della partenza per l’Italia. A Cefalonia sarebbero state lasciate le sole artiglierie; l’armamento della fanteria sarebbe stato invece consegnato ai germanici a rimpatrio avvenuto.
Testimonia il capitano Bronzini: «il generale Gandin richiamò l’attenzione del ten. col. Barge su altre importanti questioni. Dall’8 settembre, ad esempio, il presidio tedesco di Liguri riceveva giornalmente rinforzi portati da aerei da trasporto (in media, due o tre al giorno) o con zattere via amre. Ciò poteva essere interpretato come atto di ostilità verso di noi, che invece stiamo dimostrando cameratesche intenzioni verso i tedeschi. Era dunque necessario che, in attesa di un accordo definitivo, sia da una parte che dall’altra ci si astenesse dal fare movimenti di truppe. I tedeschi inoltre avevano, negli ultimi due giorni, trasferito ad Argostoli, dove già c’era la loro batteria semoventi, circa una compagnia di fanteria: movimento ingiustificato. Da chi ordinato? Infine, il gen. Gandin, per dare una sicura prova delle sue buone intenzioni, dichiarò che era disposto a ritirare da Kardakata il battaglione di fanteria che presidiava questa località.
«Kardakata era una posizione chiave, il cui possesso significava il dominio della penisola di Liguri. Ed il generale Gandin non voleva che l’occupazione italiana di questa località fosse interpretata come minaccia od atto ostile verso i tedeschi.
«Né era opportuno – ai fini della soluzione pacifica della questione- tenere a Kardakata, a stretto contatto col presidio tedesco di Ankonas, truppe italiane che si andavano di ora in ora sempre più elettrizzando.
«Col ten. col. Barge, che si diceva autorizzato dal suo comando a trattare la cosa, il gen. Gandin stabilì, pertanto, quanto segue: - il comando della divisione avrebbe subito ritirato da Kardakata il battaglione di fanteria; - il comando tedesco si impegnava di non inviare più rinforzi ed a non far più movimenti di truppe in Cefalonia fino a quando fossero durate le trattative e si fosse giunti ad un accordo definitivo. Qualora tali impegni non fossero stati dal comando tedesco rispettati, il comando della «Acqui» avrebbe dovuto senz’altro agire secondo le direttive governative dell’8 settembre».
Mentre si svolgevano queste trattative, core voce (molto probabilmente portata dai militari di Santa Maura) che il Governo italiano fosse a Bari e il Comando Supremo a Bari od a Brindisi.
Il gen. Gandin volle allora fare ancora un tentativo di collegamento attraverso il radio ponte di Corfù. Fu quindi redatto, e trasmesso cifrato dalla stazione della Marina, un radiogramma diretto al Comando Supremo. In esso, veniva esposta la situazione dell’isola e data notizia del radiogramma del comando dell’IIª armata che aveva ordinato la cessione delle armi ai tedeschi. Si chiedeva infine se detto ordine, forse apocrifo, e comunque in contrasto con le direttive del Governo, dovesse o meno essere eseguito.
Il tentativo, come vedremo, ebbe fortuna.
 (chi desidera uleriori approfondimenti scriva a: ricerca23@libero.it; chi non desidera ricevere ulteriori post da questo blog scriva a studentiecultori2009@libero.it)

mercoledì 16 ottobre 2013

Italia: il dibattito sulla difesa

Difesa
F35, il beneficio del dubbio 
Giovanni Faleg, Alessandro Giovannini
7/31/2013
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Se il Parlamento avesse approvato la mozione del Movimento 5 stelle, M5S, e Sinistra Ecologia e Libertà, Sel, contro la partecipazione dell’Italia dal programma Joint Strike Fighter, F35 - il velivolo multiruolo realizzato grazie alla cooperazione tra gli Stati Uniti e diversi paesi europei - il nostro paese avrebbe buttato al vento quindici anni di investimenti. L’Italia si sarebbe privata di importanti ritorni nel medio-lungo periodo, non solo dal punto di vista della difesa, ma anche da quello economico ed industriale.

Tuttavia, la spesa avviene a fronte di una delle peggiori congiunture economiche che il Paese ricordi dall’inizio del secolo scorso. Il “sì” agli F35 è, e continuerà ad essere, altamente impopolare. Sarebbe stato quindi opportuno, in sede parlamentare, prendere maggiormente in considerazione le ragioni politiche di un “no” al programma.

Numeri oltre l’ideologia
I “numeri” e le considerazioni tecniche, riassunti anche da precedenti articoli su “AffarInternazionali”, aiutano a comprendere la bocciatura della mozione presentata dal M5S e Sel. Il programma JSF è un investimento pluridecennale e non una “semplice” spesa di tipo corrente. Nel commentare e analizzare il progetto è quindi fondamentale considerare la struttura e il ritorno dell’investimento e non unicamente l’ammontare del costo totale, com’è accaduto durante il dibattito politico.

Se, infatti, il costo complessivo è pari a circa 14 miliardi di euro, per il 2012 i costi stimati erano pari “solamente” al 3% di tale somma (ovvero 548.7 milioni). Questo 3% è stato destinato alla conclusione della fase di progettazione del programma e alla realizzazione, presso la base dell’Aeronautica militare di Cameri, di una linea di assemblaggio finale, manutenzione e aggiornamento, l’unica al di fuori degli Stati Uniti.

La rinuncia al finanziamento del progetto JSF in questa fase avrebbe pertanto vanificato i passati sforzi e risorse (circa 1 miliardo) impiegati nella lunga fase di progettazione e sviluppo, rendendo potenzialmente inutile un sito di 124 mila metri quadrati appena costruito (e costato 800 milioni), che darà lavoro a 1.816 dipendenti. Avrebbe inoltre portato all’interruzione di ogni attività produttiva sui velivoli militari entro fine decennio, senza risolvere il problema della sostituzione dei vecchi AV8B con nuovi caccia.

La maggior parte dei costi (circa 10 miliardi) saranno sostenuti in futuro per l’acquisizione dei velivoli e per il supporto logistico. Si tratta di circa 900 milioni l’anno, un ammontare che rende più che lecita la persistenza di forti dubbi da parte dei contribuenti.

Il fronte del “no” all’arrembaggio
A fronte di questi dubbi legittimi, il dibattito politico ha clamorosamente fallito. Non è entrato nei dettagli della partecipazione italiana al programma, le cui ricadute industriali ed economiche sono molto complesse. La mozione sugli F35 mostra anzi la voragine che continua a separare i cittadini dai rappresentanti in Parlamento.

Il “fronte del no” ha cavalcato in tono populista i dubbi dei contribuenti, paragonando in modo inesatto il costo complessivo dell’investimento con le manovre fiscali improntate all’austerità di questi ultimi anni. Si è perso in proposte marziane di disarmo del Paese e folate di anti-americanismo hippie. Il risultato è stata quindi la strumentalizzazione di un dibattito che doveva analizzare cautamente l’interesse industriale e le implicazioni tecniche per le forze armate.

Chi si è espresso in favore della partecipazione italiana al programma ha invece addotto motivazioni convincenti, ma limitate a una visione troppo settoriale dell’interesse nazionale. La difesa è, senza dubbio, il cuore della sovranità statale e l’industria che la sorregge uno dei settori più forti della nostra economia.

Tuttavia ogni scelta può essere rivista alla luce delle priorità che si vogliono affermare. Un dibattito più completo avrebbe dovuto affrontare non solo le eventuali alternative (ove esse esistano) sia in termini di costo che di efficacia, ma anche le conseguenze - politiche e strategiche - di una eventuale rinuncia a qualsiasi ammodernamento (ove, come è probabile, le alternative si rivelassero inefficaci e altrettanto se non più costose) e il reale impatto - positivo e negativo - in termini economici ed industriali, delle scelte possibili.

In altri termini sarebbe stato forse utile un dibattito serio e approfondito, a partire dalla valutazione dello stesso modello di difesa italiano, senza il quale le attuali polemiche e prese di posizione appaiono piuttosto appese in aria.

Politica non all’altezza delle sfide 
Il problema della decisione politica sugli F35 non è quindi nella scelta in sé, quanto piuttosto nel modo in cui si è sviluppato il dibattito che ha condotto a tale decisione, sintomo preoccupante dell’immaturità politica del nostro paese.

Nessun paese europeo, a fronte della crisi finanziaria, potrebbe affrontare spese di questo tipo senza far fronte a un’inevitabile e legittima levata di scudi da parte dei cittadini. È responsabilità dei rappresentanti in Parlamento contenere lo scontento e prendere decisioni nell’interesse generale.

L’assenza di un ragionato e non-ideologico “no”, capace di tutelare l’industria aerospaziale e della difesa, sia sotto il profilo occupazionale che tecnologico, deve fare riflettere. La difesa italiana è a rischio di perdere le necessarie capacità operative nei prossimi anni. Se dal dibattito politico non emerge una visione di lungo periodo, le conseguenze negative socio-economiche potrebbero andare ben oltre quelle legate agli F35.

Giovanni Faleg è ricercatore dello IAI; Alessandro Giovannini è Associate Research Assistant al Centre for European Policy Studies.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2382#sthash.imt6HYa6.dpuf

giovedì 3 ottobre 2013

Conferenza: L'armistizio dell'8 settembre 1943 Salvare il Salvabile



Il Presidente della Sezione Unici di Spoleto,  Gen. Ing. Antonio Cuozzo presenta il Conferenziere
 Nella Sala delle Conferenze della Sezione Unici di Spoleto, Massimo Coltrinari, lo scorso 26 settembre 2013, ha tenuto una conferenza sul tema L'Armistizio dell'8 settembre 1943 Salvare il Salvabile alla presenza di numerosi soci della Sezione e di altri invitati, tra cui il partigiano Loreti ed il presidentete della Sezione dell'Ampi di Foligno Giovanni Simoncelli.
Per ulteriori note sul volume vedi:www.storiainlaboratorio.blogspot.com
I temi trattati sono stati tratti dal volume "Salvare il Salvabile" pubblicato a doppia firma da Massimo Coltrinari con interessanti note in merito a questa controversa pagina della nostra storia recente.
Aggiungi didascalia
 La conferenza si è conclusa dopo un interessante dibattito e numerose domande tra il Conferenziere ed esponenti del pubblico intervenuti.

Di seguito alcune immagini del bellissimo incontro, organizzato dal Presidente Gen. Ing. Antonio Cuozzo.