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La presidenza di Emmanuel Macron porterà probabilmente ad un’accelerazione della cooperazione europea nella difesa, dove si registra un ruolo maggiore della Commissione di Bruxelles, anche grazie a un rafforzamento dell’asse franco-tedesco.
Sempre più convergenza tra Francia e Germania Macron è probabilmente il presidente francese più favorevole all’idea di un’Europa della difesa nella storia dell’Ue. Combinando questo elemento con il venire meno causa Brexit del freno britannico e con un ruolo sempre maggiore della Germania nella sicurezza del Vecchio Continente - chiunque vinca le elezioni politiche tedesche il prossimo settembre - si ha un quadro politico (e geopolitico) inedito per l’Unione. Un quadro positivo che potrebbe dare slancio e concretezza a progetti di cooperazione e integrazione da tempo discussi nelle istituzioni europee e nelle capitali. Francia e Germania hanno certamente visioni in parte diverse sulla difesa europea. Tuttavia negli ultimi anni è aumentata la convergenza tra i due Paesi; e probabilmente aumenterà ancora di più con un presidente francese che già in campagna elettorale aveva affermato la necessità di cooperare con Berlino. Se la Commissione finanzia la ricerca nella difesa Inoltre, i Paesi Ue si muovono in un quadro che vede sempre più attive le istituzioni dell’Unione, anche grazie all’attuazione della EU Global Strategy. La Commissione europea sta procedendo alla messa in pratica del piano di azione (European Defence Action Plan – Edap) che segna un passo importante nella politica industriale e di innovazione tecnologica dell’Ue. Infatti, per la prima volta nella storia dell’Unione, viene finanziata direttamente la ricerca nel campo della difesa, con lo stanziamento di 90 milioni di euro nel 2017-2019 per la Preparatory Action on Defence related Research (Padr) e la previsione di 500 milioni di euro l’anno per il prossimo esercizio finanziario 2021-2027. La Commissione si era già costruita un ruolo importante del mercato della difesa europeo sul piano regolatorio con le direttive del 2009 sui trasferimenti intra-comunitari ed il procurement militare. Ruolo guardato con una certa insofferenza da alcuni stakeholder, in quanto visto come un pungolo ad adottare logiche di concorrenza ed efficienza in un settore precedentemente escluso dalle regole del mercato unico. Ma la Commissione non pretendeva di decidere quale sistema d’arma finanziare, produrre o acquistare: definiva piuttosto regole generali, rispondenti ad un interesse comune europeo, e quindi più accettabili anche se, a volte, in contrasto con alcuni Stati membri. Inoltre, per ora, la Commissione ha dimostrato un’ampia tolleranza sul terreno del l’‘enforcement’, anche se ha annunciato un prossimo cambio di passo. Tra governi nazionali e interessi europei Ora il discorso si fa più delicato e complicato per il ruolo della Commissione, e soprattutto per il rapporto con i governi nazionali da un lato e con gli interessi comuni europei dall’altro. Nella Padr, e più ancora nel prossimo bilancio Ue, vi saranno finanziamenti significativi da allocare a fronte di domande verosimilmente maggiori, per quantità e volume, da parte degli attori nazionali, e occorrerà scegliere cosa e chi finanziare - e a chi negare invece i fondi stanziati dal bilancio dell’Unione. Ciò accade già in molti altri campi che godono di fondi Ue, incluso quello della sicurezza dove da più di dieci anni la Commissione finanzia progetti di ricerca e innovazione tecnologica sulla protezione delle infrastrutture critiche piuttosto che sulla risposta ad attacchi chimici o biologici, il contrasto al crimine organizzato o al terrorismo e più di recente la sicurezza cibernetica e la protezione dei confini dell’Unione. C’è quindi una vasta esperienza cui attingere, in termini di normativa, organizzazione o buone prassi. Tuttavia, il campo della difesa presenta una propria specificità e sensitività politica che dovrà essere presa in considerazione, in quanto si tratta di finanziare lo sviluppo di tecnologie che serviranno alle forze armate dei Paesi europei nelle loro operazioni militari. L’asse franco-tedesco, Bruxelles e Roma Qui il piano istituzionale e tecnico incrocia di nuovo quello politico e geopolitico. Il lavoro della Commissione sull’attuazione dell’Edap, per quanto segua sue logiche di lungo periodo, tecnocratiche e sovranazionali, sarebbe inevitabilmente influenzato da una maggiore convergenza franco-tedesca nel campo della difesa. Se i due Paesi Ue che, dopo l’uscita della Gran Bretagna, rappresenteranno una quota ampiamente maggioritaria sia delle capacità militari che di quelle industriali e tecnologiche andranno verso determinate direzioni e scelte, è molto probabile che queste ultime diventino il punto di riferimento anche per il ruolo delle istituzioni Ue in questo settore. È in questo nuovo quadro che l’Italia deve aggiornare e approfondire l’aspetto europeo della sua politica di difesa, inclusa la dimensione industriale e tecnologica - tema peraltro al centro del convegno IAI in programma a Torino il prossimo 19 maggio. Una probabile convergenza in chiave europeista tra Berlino, Parigi e Bruxelles presenta nuove opportunità per Roma di inserirsi con proposte funzionali ai propri interessi nazionali oltre che a quelli europei. Ma presenta anche il rischio per l’Italia di restare solo spettatrice delle rapide scelte altrui, se non sarà in grado di influenzare tempestivamente scelte comuni. Guardando laicamente al fatto che anche il leader straniero più europeista non avrà mai come sua priorità quella di aiutare l’Italia, e che le istituzioni Ue faranno quello che potranno per l’Unione nel suo insieme, resta sempre valido il vecchio detto “aiutati che Dio t’aiuta”. Alessandro Marrone, Responsabile di Ricerca Programma Sicurezza e Difesa; Twitter @Alessandro__Ma. |
martedì 23 maggio 2017
Difesa Europea ed Italia
martedì 9 maggio 2017
1866 Quatro Battaglie per il Veneto. Il Piano di Garibaldi
Di seguito lo schema grafico del piano di Giuseppe Garibaldi del 1866
Aveva come base l'idea di inviare 3000 volontari nell'area di Trieste. Dopo sbarcati operare nelle montagne restrostanti a ridosso delle vie di comunicazione cercando di prendere contatto con i Patrioti ungheresi contrari all'Austria. Tutto si basava sulla rete delle Logge Massoniche opportunamente allertate.
Un piano diversivo prevedeva lo sbarco di oltre 10000 uomini in Dalmazia che avrebbero dovuto procedere verso nord e cercare di collegarsi con le forze sbarcate a Trieste
Il piano, sostenuto dalla Prussia che lo giudicava ottimo, non fu accettato dallo Stato Maggiore Italiano, per tema che Giuseppe Garibaldi, già popolarissimo per via della Spedizione di Mille acquisisse ulteriore popolarità nei confronti delle forze monarchico-liberali su cui si poggiva il Governo Lamarmora.
Per impiegare in qualche modo Giuseppe Garibaldi ed i suoi volontari
gli fu assegnato il fronte ad occidente del lago di Garda. Un fronte assolutamente inutile e strategicamente insignificante, a conferma della emarginazione che nel 1866 Garibaldi e tutto il movimento progressista mazziniano subiva.
Il risultato di queste scelte fu che i volontari garibaldi operarono senza poter
influire sulle operazioni principali
con il risultato di non incidere positivamente sull'esito della guerra
1866 Quattro Battaglie per il Veneto
Si riporta la Prefazione di Giancarlo Ramaccia al Volume
di Massimo Coltrinari
"Quattro battaglie per il Veneto"
di prossima edizione
Prefazione
Il 20 giugno 1866 fu consegnata all’arciduca Alberto
d’Asburgo, comandante supremo delle forze austriache dislocate in Italia, la dichiarazione
di guerra del Regno d’Italia, che fissava al giorno 23 del medesimo mese
l’inizio delle ostilità. Come al solito entrammo in guerra con tre giorni di
ritardo dalla dichiarazione e sei giorni dall’inizio delle ostilità rispetto a
quanto precedentemente pattuito con il nostro alleato prussiano. Tale ritardo non
poteva che irritare notevolmente e aumentare la diffidenza dei vertici
politico-militari di Berlino, che già di loro dubitavano delle buone intenzioni
dei vertici del giovane Regno d’Italia.
In ogni caso la dichiarazione di guerra, presentata
all’impero austro-ungarico, fu accolta nel paese con grandi manifestazioni di
consenso, accese grandi aspettative nella popolazione e produsse una straordinaria
eccitazione patriottica, come ben documenta, nel suo diario, Sidney Sonnino,
allora giovane ed entusiasta patriota toscano: “Gran giorno per l’Italia! Per la prima volta in tutta la sua storia
essa si solleva tutta a rivendicare sola il suo diritto! Mai, mai si è visto un
fatto simile. Felici noi che vi assistiamo!”[1]. Per il Sonnino, come per molti se non per
tutti, la nuova guerra sarebbe stata breve e vittoriosa. In nessun caso si
valutarono le conseguenze di una possibile sconfitta. Dopo le non brillanti
vicende militari degli anni precedenti, come la guerra del 1848/49, il buon
senso avrebbe dovuto suggerire una valutazione
“più cauta” da parte dei vertici politico-militari italiani. Invece, l’essere
sconfitti risultava impensabile e inaccettabile da tutti gli appartenenti al
nostro ceto dirigente, anche perché le conseguenze politiche erano troppo
spaventose da sostenere per il giovane e debole Stato unitario. Poi gli
Austriaci non combattevano su due fronti? Il nuovo esercito italiano contava
ora ben venti divisioni e non più le cinque piccole divisioni del Regno di
Sardegna della guerra precedente. La nostra flotta era il doppio di quella
austriaca e con un numero maggiore di
corazzate, dodici contro le sette austriache, quindi sulla carta e solo sulla
carta il Regno d’Italia aveva tutti i numeri e il diritto di aspettarsi una
vittoria. Anche per questo motivo ciò che avvenne nelle settimane successive fu
traumatico e profondamente doloroso per tutto il Paese.
Per comprendere al meglio la situazione si deve ampliare il
quadro alle vicende politiche degli anni precedenti e agli enormi problemi che
il giovane Stato dovette affrontare. Ben cinque furono le questioni principali
e tutte intrecciate tra loro, ossia: il brigantaggio in larga parte del Paese;
la crisi economica; la morte del Conte di Cavour; la questione romana e la
conseguente crisi dei rapporti con la Francia, in particolar modo con
l’imperatore Napoleone III; la costruzione del nuovo Esercito unitario.
Tralasciamo le questioni minori ma che minori, per il giovane nascente Stato
unitario, non furono.
Il 15 febbraio 1861 il Re delle Due Sicilie Francesco II di
Borbone, proclama la resa della fortezza di Gaeta dove si era rifugiato dopo le
sconfitte subite ad opera dell’armata garibaldina e il successivo intervento
sabaudo, imbarcandosi, dopo una lunga trattativa diplomatica, su una nave
francese che lo porterà a Roma dove rimarrà in esilio, ospite di Papa Pio IX.
Solo dopo il gen. Cialdini potrà occupare la cittadina laziale che ha assediato
e bombardato per ben 102 giorni. Successivamente anche le guarnigioni
borboniche della cittadella di Messina e quella di Civitella del Tronto (A.P.)
si arrenderanno definitivamente, ma nuclei rimasti fedeli a Francesco II continueranno
a combattere unendosi a bande di contadini poveri e briganti, dando vita a una
lunga guerriglia a cui si darà il nome di “brigantaggio”.
Questa insorgenza sociale era frutto di povertà endemica, di
patti agrari esosissimi, di nuovi inasprimenti fiscali, di una nuova ed errata
leva obbligatoria che provocò una disperata guerriglia dei contadini contro i
proprietari terrieri e il nuovo governo “piemontese” che fu abilmente sfruttata
politicamente da chi desiderava restaurare il Regno delle Due Sicilie. La
rivolta armata scoppiò nell’aprile del 1861 in Basilicata e si estese a quasi
tutto il meridione continentale.
Il nascente Regno d’Italia provò inizialmente a mediare
politicamente con i legittimisti borbonici, nel tentativo di contenere il
fenomeno, poi diede seguito ad una feroce e indiscriminata repressione. Migliaia
di insorti, alzando le bandiere bianche borboniche, occuparono province e
paesi, trucidando cittadini comuni, guardie nazionali e scontrandosi con i
soldati italiani. La risposta fu durissima da parte dello Stato unitario:
fucilazioni indiscriminate e senza alcun processo, interi paesi bombardati e
incendiati, deportazioni di massa; tutto ciò accrebbe l’ostilità della
popolazione meridionale nei confronti del nuovo Regno, di “quello dei
piemontesi”. Se i soldati impiegati nel meridione furono non più di 50.000 nel
1861, solo tre anni dopo se ne impiegarono 120.000, ossia circa il 50% delle
forze armate dello Stato. Esse svolsero prevalentemente compiti di ordine pubblico
e di polizia, tralasciando l’addestramento e la preparazione militare, per
dedicarsi, a tempo pieno, a combattere e reprimere questa vera e propria guerra
civile. I dati ufficiali ci dicono che tra il 1861 e il 1865 (un anno prima
dell’inizio della terza guerra di indipendenza) furono uccisi in combattimento
o fucilati 5.212 “cosiddetti briganti” e altri 5.000 furono arrestati e carcerati, ma i dati
ufficiosi parlano e raccontano un’altra verità, ossia di ben 15.000 o 20.000
uomini eliminati. Ciò produsse una lacerazione nel tessuto politico e sociale
di cui a tutt’oggi ne riscontriamo le conseguenze. A questo gravissimo problema
si aggiunse, per il nuovo Stato – che si era costituito a Torino il 18 marzo
1861 con la proclamazione da parte del primo parlamento italiano del Regno
d’Italia – una serie di gravissimi problemi finanziari.
Essi erano il frutto dei costi per l’unificazione nazionale
che comprendevano le spese sostenute per le guerre di unificazione con
l’aggiunta del consolidamento dei debiti ereditati dai periodi precedenti e
dovuti ai sette Stati pre unitari e alle ben nove amministrazioni finanziarie
che avevano sistemi monetari diversi, diversi modi di contabilizzare oltre a
diversi criteri di imposizione fiscale e di riscossione delle imposte. Sommando
tutti questi costi risultò, per il nuovo Stato, un debito pubblico esorbitante,
ossia 111.500.000 lire. A questa enormità si dovette far fronte con soluzioni
che risultarono non risolutive ed efficaci, anzi aggravarono ulteriormente la
già difficile situazione economica.
Allo scoppio della guerra dell’ottantasei questo problema
parve addirittura insormontabile, con le entrate effettive dello Stato che coprivano
appena i due terzi delle uscite e con una sicura prospettiva di incremento,
dovuta alle nuove spese che si dovevano sostenere per la nuova guerra.
All’enorme disavanzo si provvedeva con l’emissione di nuovi titoli di debito a
copertura dei prestiti esteri, proprio nel momento in cui una crisi economica
gravissima si abbatteva sui mercati borsistici europei (Borsa di Londra e
Parigi) dovuta in gran parte agli enormi prestiti americani per la guerra di
secessione e al pagamento delle grandi quantità di cotone importate dall’India,
tra il 1861 e il 1865, per il fermo di produzione del mercato americano.
Inoltre il clima di conflitto che si respirava in tutte le cancellerie d’Europa
creava la giusta miscela per la caduta delle quotazioni dei titoli nelle
principali Borse europee.
Il 6 giugno 1861 il nuovo Regno d’Italia perse il suo
principale artefice, dopo una brevissima malattia, muore a Torino, improvvisamente,
il presidente del Consiglio dei Ministri Camillo Benso conte di Cavour. Egli
era lo stratega, il politico più grande che il nostro Stato unitario abbia mai
avuto, perché pur lasciando alla sua morte fedeli sostenitori del progetto di
unificazione del Paese, non lasciò un vero e proprio erede, nessuno dei suoi
seguaci era in grado di elaborare una strategia per il completamento
dell’unione territoriale e costruire un nuovo Stato alla base di una comunità
ampliata e solidale. Si dà inizio ai governi “brevi” (ben sei ministeri si
succedettero dal 1861 al 1866), a governi che “navigano a vista” con politiche
miopi e di breve durata, incapaci di elaborare e perseguire una strategia di
lungo periodo.
Cavour, invece, nei mesi precedenti alla malattia, aveva
cercato di definire nei confronti della questione romana una netta posizione
governativa. In due discorsi alla Camera, sostenne che solo Roma poteva
ricoprire il ruolo di capitale d’Italia e che era necessario procedere alla sua
liberazione per unire e cementare le diverse popolazioni italiche, ma che ciò
doveva avvenire con “l’accordo” della Francia e senza mai intaccare la libertà
spirituale e l’indipendenza del sommo pontefice. In cambio della cessione del
potere temporale, al pontefice verrebbe corrisposta una cospicua rendita annua.
Era questo il modo di recuperare i rapporti diplomatici con la Francia e in
particolar modo quelli con l’imperatore Napoleone III, dopo le tensioni dovute
all’assedio di Gaeta.
In linea con questa impostazione, il suo successore al
governo Bettino Ricasoli redige un progetto di conciliazione che invia
rispettivamente alla Cancelleria francese e a quella dello Stato pontificio; ma
tale progetto ottiene un netto rifiuto francese ad aprire una qualsiasi
trattativa su quella base.
Nel 1862 a seguito di una delle tante riconciliazioni tra
Garibaldi e Mazzini e con l’appoggio dell’associazione emancipatrice italiana
si progetta una spedizione di volontari a Roma e subito alcuni ufficiali
garibaldini cominciano a raccogliere i volontari. Nel mese di giugno Giuseppe
Garibaldi si reca come privato cittadino in Sicilia ed è accolto da grandi
manifestazioni popolari e affermando la necessità di una spedizione armata per
liberare Roma pone la condizione di trovare un accordo con il re Vittorio
Emanuele II. A Marsala promuove il giuramento “o Roma o morte” e subito l’associazione emancipatrice
italiana fa sua la parola d’ordine e aderisce al giuramento. Alcune settimane
dopo, trasferitosi a Palermo, Garibaldi organizza la legione romana e annuncia
di muovere contro lo Stato pontificio al grido di “Italia e Vittorio Emanuele,
o Roma o morte”. Una grave crisi si profila all’orizzonte con la Francia,
ostile e pronta all’intervento in difesa dello Stato pontificio. Al governo
italiano non resta che decretare (20 agosto) lo stato d’assedio nelle province
napoletane e inviare truppe regolari dell’esercito, al comando del colonnello
Pallavicini di Priola, per bloccare la spedizione. Durante un breve conflitto
sull’Aspromonte, nient’altro che una scaramuccia, Garibaldi, che era al comando
di 1.300 volontari, viene ferito al piede e si arrende, venendo posto agli
arresti. Al diffondersi della notizia, che provoca una grande emozione non solo
in Italia e violente manifestazioni antigovernative, il Rattazzi cerca senza
riuscirci di forzare i tempi di una soluzione diplomatica e infine il 20
novembre 1862 si rassegna e presenta le sue dimissioni dal ministero. I
rapporti con la Francia diventano di nuovo gelidi. Segue un lungo lavorio
diplomatico per ricostruire i rapporti che permetteranno di stipulare un
trattato di libero scambio (17 gennaio 1863) tra i due paesi e nell’anno
successivo di gettare le basi di un accordo sulla questione romana. Gioacchino
Pepoli, inviato dal nuovo governo presieduto da Marco Minghetti, avanza l’idea
di trasferire la capitale d’Italia da Torino ad un’altra città, come segnale
dell’abbandono del progetto di fare Roma capitale d’Italia e in cambio chiede
alla Francia di procedere al ritiro graduale delle sue truppe di stanza nello
Stato pontificio. L’accordo verrà raggiunto ed a Parigi, nell’agosto del medesimo
anno, si procederà alla firma “della convenzione di settembre” (15 settembre
1864), che prevedeva il ritiro delle truppe francesi da Roma nell’arco dei
successivi due anni, per dare il tempo al governo papale di costituire un suo
esercito. In cambio il Regno d’Italia si impegna a rispettare l’integrità dello
Stato pontificio. E’ questo un incredibile gioco delle parti, dove tutto è
ambiguo, infatti i francesi interpretano l’accordo come una rinuncia definitiva
da parte italiana del progetto di Roma capitale, mentre per noi Italiani è
null’altro che il primo passo verso la soluzione delle controversie con la
Francia e un avvicinamento a Roma. Solo Pio IX esprime delusione e manifesta
nuove paure.
Sul versante internazionale ferve la controversia tra la
Prussia e l’Austria sulla sorte dei ducati dell’Holstein, dello Schleswig e del
Lauenburg di proprietà personale del re di Danimarca e che le due potenze hanno
occupato. Entra nel vivo il conflitto, per molti anni latente tra la Prussia e
l’Austria, per il primato e l’egemonia sulla Confederazione degli Stati
tedeschi.
Otto von Bismarck, presidente del Consiglio prussiano, che
già nel 1862 aveva sondato il ministro italiano a Berlino, Da Launay sulla
possibilità di una alleanza italo-prussiana, incarica il suo ministro a Firenze
Conte Usedom di sondare il capo del governo Alfonso Ferrero La Marmora in
relazione a quale atteggiamento avrebbe assunto il suo governo nel caso di una
probabile guerra tra la Prussia e l’Austria. La Marmora risponde che non può
prendere nessun impegno senza prima conoscere quale atteggiamento sarebbe stato
a sua volta preso dalla Francia in merito a tale questione. Per questo motivo
incarica il ministro italiano a Parigi, Costantino Nigra, di sondare sulla
questione il ministro degli Esteri francese Drouyn de Lhuys, il quale suggerì
“prudenza e di attendere gli eventi”. Bismarck, insoddisfatto della risposta
italiana e soprattutto dell’atteggiamento ambiguo dell’Imperatore francese
Napoleone III decise, provvisoriamente, di stipulare la Convenzione di Gestein
con l’Austria, conservando quindi per la Prussia l’amministrazione del ducato
dello Schleswig e lasciando all’Austria il ducato dell’Holstein.
Successivamente all’incontro di Biarritz, tra Napoleone III e Bismarck, dei
primi di ottobre del 1865, Bismarck rassicurato riprese la politica che mirava
ad arrivare alla guerra e ad unificare la nazione tedesca con lì esclusione
dell’Austria. Probabilmente in questo incontro Napoleone III sperò di ottenere
un ingrandimento territoriale della Francia sul Reno e sul Belgio, promettendo
di mantenere la neutralità nel conflitto tra Prussia e Austria, mentre Bismarck
chiese a sua volta l’intervento dell’Italia nel prossimo conflitto, che mirava
a conquistare il Veneto (già promesso da Napoleone III) dal 1859 e poter
attaccare su due fronti l’Austria, come era stato progettato nel Consiglio
della corona prussiana del 29 maggio 1865. A questo accordo verbale fece
seguito da parte di La Marmora un tentativo
di trattativa diretta con l’Austria per ottenere la cessione del Veneto,
contando molto sulla minaccia di una
guerra sui due fronti per ammorbidire l’intransigenza austriaca.
Nell’ottobre del 1865 incaricò un suo rappresentante personale, il conte
reggiano, Alessandro Malaguzzi – Valeri, che aveva autorevoli amici e parenti a
Vienna, di intraprendere una trattativa segreta con il conte Belcredi,
presidente del Consiglio austriaco, per la cessione del Veneto a fronte di una
indennità versata dall’Italia di un miliardo di lire. Pur riscontrando da parte
del governo austriaco un interesse favorevole alla proposta, la dura
opposizione dell’imperatore Francesco Giuseppe e della sua corte fece fallire
la trattativa. Non restava altro che seguire i consigli francesi che invitavano
ad orientarsi verso la politica antiaustriaca di Bismarck.
Il 31 dicembre 1865, Alfonso Ferrero La Marmora costituisce
il suo secondo ministero, dopo una lunga e difficile crisi di governo nata
dalla sfiducia votata dal Parlamento in relazione al decreto legge relativo al
servizio di tesoreria statale da affidarsi alla Banca Nazionale. Provvedimento
economico che avrebbe aggravato ulteriormente la crisi di debito del Regno
d’Italia. Oltre alla presidenza del Consiglio mantenne per sé il ministero
degli Esteri e chiamò al ministero della Guerra il generale Ignazio di
Pettinengo e ai Lavori pubblici Stefano Jacini che fu il suo più ascoltato
consigliere nella fase preparatoria della guerra.
Nel frattempo i rapporti austro-prussiani si fecero sempre
più tesi e aumentarono le probabilità della guerra. A seguito della decisione
presa dal Consiglio dei Ministri prussiano del 28 febbraio 1866, Bismarck
chiesa a La Marmora di inviare a Berlino un alto ufficiale per trattare
un’alleanza militare. La Marmora scelse di inviare il generale Govone con
l’incarico di verificare la preparazione militare prussiana, che
nell’occupazione dei ducati non aveva particolarmente brillato per preparazione
militare e di restare sul vago sulle questioni diplomatiche. Anche perché il
suo invio era stato sollecitato al governo italiano da parte di Napoleone III
che mirava ad una alleanza tra Italia e Prussia. Napoleone III in questa
complicata partita, dalla quale sperava di acquisire per la Francia
ingrandimenti territoriali, con il consenso della Confederazione germanica
usava l’Italia come una pedina da muovere a suo piacimento sullo scacchiere politico
continentale. Egli voleva che l’Italia ottenesse il Veneto ma senza una guerra
o con una guerra non seriamente combattuta in modo tale che il merito fosse suo
e della Francia; in questo modo mirava ad esercitare sul giovane Regno d’Italia
un semi protettorato. Per lui l’Italia unita doveva diventare una potenza di
rango inferiore, strettamente legata agli interessi politico economici
francesi. L’8 aprile 1866 a Berlino, l’Italia firma un trattato segreto di
alleanza con la Prussia, un trattato a “tempo determinato” valido per soli 3
mesi a partire dalla data della firma apposta per noi dal generale Govone e dal
ministro a Berlino conte Barral. Era questa una alleanza “offensiva-difensiva”
in cui l’Italia si impegnava a dichiarare guerra all’Austria appena la Prussia
avesse iniziato le ostilità; ognuno dei due Stati si impegnò a non concludere
armistizio o pace senza il consenso dell’altra, fino a quando l’Austria non avesse
accettato di cedere il Veneto e la provincia di Mantova all’Italia e alla
Prussia territori equivalenti per popolazione.
Il trattato era squilibrato e a favore della Prussia, non
veniva menzionato il Trentino, per un netto rifiuto di Bismark che lo considerava
parte integrante dell’Impero Austro-ungarico, anche se verbalmente e in
privato, garantiva che avrebbe appoggiato tale richiesta una volta giunti al
tavolo della pace e solo se durante la guerra l’Italia fosse riuscita ad
impadronirsi del territorio. Il trattato era alquanto umiliante per l’Italia
per la sua unilateralità, infatti la Prussia non assumeva nessun impegno nei
confronti dell’Italia. Inoltre un madornale errore di valutazione di La Marmora
complicò la situazione, egli rifiutò la proposta avanzata dal generale Govone
di allegare al trattato una convenzione militare, che avrebbe permesso di
conoscere in precedenza i piani prussiani e quindi di coordinare i propri
impegni sulla effettiva condotta della guerra. Ciò generò ulteriore diffidenza
da parte prussiana sulla reale volontà italiana di condurre la guerra con
impegno ed energia. Era impensabile per i nostri governanti una politica
diversa perché troppo esposti politicamente e finanziariamente con l’ambigua
politica di Bonaparte.
Il 3 maggio 1866 il governo prussiano iniziò la
mobilitazione e a seguito di ciò il 5 maggio il governo austriaco fece sapere a
Parigi di essere disposto a cedere il Veneto a Napoleone III, affinchè tramite
lui fosse ceduto all’Italia a patto che l’Italia rompesse l’alleanza con la
Prussia e si dichiarasse neutrale. La Marmora, colto di sorpresa dall’offerta
austriaca, rifiutò cercando al tempo stesso di guadagnare tempo e proponendo un
congresso internazionale con le principali potenze del Continente per definire
la controversia tra Italia-Prussia-Austria. Questa proposta sfumò
definitivamente alcune settimane dopo quando una nota austriaca (1 giugno)
dichiarò di essere pronta a partecipare al congresso a patto che fossero
esclusi dalle risoluzioni finali modifiche e ingrandimenti territoriali. Il 12
giugno avveniva la rottura definitiva delle relazioni diplomatiche tra Berlino
e Vienna e nello stesso giorno, sempre a Vienna, veniva firmato un accordo tra
l’Austria e la Francia, in base alla quale la Francia si impegnava a rimanere
neutrale nel conflitto che opponeva l’Austria alla Prussia; Napoleone III si
impegnava a sua volta a fare il possibile perché l’Italia restasse neutrale o
conducesse la “guerra senza impegno” e l’Austria a sua volta si impegnava a
cedere il Veneto a Napoleone III al quale garantiva ulteriori compensi
territoriali nel caso di vittoria da parte sua e con modificazioni territoriali
in Germania. Infine Napoleone III si impegnava a sua volta a cedere il Veneto
all’Italia in cambio di una indennità all’Austria e del riconoscimento da parte
italiana del potere temporale dei papi. Il giorno stesso della firma, Napoleone
III convocò il ministro italiano a Parigi, Costantino Nigra, e nel colloquio
che seguì informò ufficialmente di quanto sottoscritto a Vienna e chiese a
Nigra che “l’Italia non facesse guerra con troppo vigore”.
Otto giorni prima della dichiarazione di guerra all’Austria,
per noi la guerra era già vinta . A questo punto il 17 giugno (giorno della
dichiarazione di guerra della Prussia all’Austria) Alfonso Ferrero La Marmora
si dimette da presidente del consiglio restando in ogni caso ministro senza
portafoglio e assume il comando dello Stato maggiore raggiungendo il Re al
fronte. Al suo posto di Presidente del Consiglio subentra Bettino Ricasoli che
ad interim assume anche il ministero degli esteri e quello dell’interno.
Inizia la terza guerra d’indipendenza e dà vita alle sue
battaglie che l’autore del testo, l’amico Massimo Coltrinari, ricostruisce con
perizia e nel dettaglio, con la perizia e la precisione propria dello storico
militare e del militare di carriera, più precisamente dell’ufficiale in
servizio di stato maggiore fedele ai principi e alla filosofia di chi ideò e
progettò tale servizio; ossia uno dei massimi protagonisti di questa guerra il
generale Helmuth Karl Bernhard von Molke capo di stato maggiore dell’esercito
prussiano nella guerra dell’86.
Ogni guerra ha caratteristiche sue proprie e differisce
dalle precedenti, questa ha caratteri suoi peculiari; è la prima del giovane Regno
d’Italia; la forza italiana è quadruplicata in confronto a quella del Regno di
Sardegna, 20 divisioni contro 5; la Cavalleria, anche se pesante, muove 100
squadroni e solo l’artiglieria è poco numerosa, anche se di maggior calibro il
che la rende meno mobile. La deficienza maggiore, per il nostro esercito
riguardava il “quadro ufficiali” fortemente eterogeneo (ciò era dovuto
all’assorbimento nell’esercito sardo dei quadri di diversa provenienza:
borbonica, toscana, dello Stato Pontificio e dell’armata garibaldina) e di
diversa preparazione e capacità militare. In modo particolare mancavano
comandanti capaci a livello di battaglione e di reggimento. I comandanti di
brigata erano personalmente coraggiosi, ma la loro cultura professionale era a
dir poco scarsa. Per non parlare della totale assenza di uno Stato Maggiore e
di vertici politico militari in concorrenza e in contrasto tra di loro. Ai
nostri 258.000 combattenti effettivi (250.000 del Regio esercito più 38.000
volontari garibaldini) su 565.000 uomini mobilitati con 462 cannoni si
opponevano 61.000 combattenti austriaci su 190.000 mobilitati e 152 cannoni,
con un rapporto a nostro favore di tre a uno, eppure non riuscimmo a vincere
sul campo. Non avevamo un piano, dividemmo le nostre forze tra il Mincio (12
divisioni) e il Po (8 divisioni), dividemmo il comando tra La Marmora e il
Cialdini ed infine il primo giorno di scontro ci demmo per vinti con ben 15
divisioni integre che non avevano preso parte neanche ad una scaramuccia e con
320.000 uomini di riserva. Alla “figuraccia” del nostro esercito i vertici
politico militari cercarono di rimediare sul fronte del mare, dove la nostra
flotta, potente “sulla carta e non sul mare”, regalò al Paese un’altra
umiliante sconfitta.
Arrivati a questo
punto non ci restò, il 3 settembre 1866, che firmare la pace che conservava
l’umiliante clausola della cessione del Veneto all’Italia attraverso la
consegna da parte della Francia di Napoleone III. L’imperatore d’Austria
Francesco Giuseppe riconobbe il Regno d’Italia, riconsegnò la “corona ferrea”
che gli Austriaci al termine della guerra del 1859 avevano portato a Vienna e
noi ci accollammo altri 91 milioni di debito pubblico del Veneto.
Questa nostra prima guerra in Italia fu un’ impresa
assolutamente deludente e generò durissime polemiche in tutto il Paese negli
anni successivi. I nostri vertici politico – militari a cominciare da Alfonso
Ferrero La Marmora e dal Cialdini furono impari al loro compito, non seppero
impostare e condurre con efficienza la guerra anche perché il governo italiano
preparò diplomaticamente la guerra con la speranza di non farla e con la
certezza di aver ottenuto il proprio premio ancora prima di iniziarla.
La brutta figura e la rabbia popolare crescente nel paese
imposero di trovare un colpevole e quindi, il 1 dicembre 1866, fu arrestato
l’ammiraglio Persano per essere giudicato dal Senato, costituito in Alta Corte
di giustizia, sulle sue responsabilità nella battaglia di Lissa, ma molti altri
avrebbero dovuto comparire con lui come chiaramente afferma Carlo Cattaneo in
una sua lettera inviata il 9 ottobre 1866 al senatore Giuseppe Muzio: “Ormai,
nella memoria della nazione e delle nazioni – e nella coscienza del soldato –
Custoza e Lissa sono parte d’un reato solo. Nessuno ha ormai forza di
sciogliere quel nodo. Il Senato è giudice unico e supremo dei colpevoli: può,
se vuole, assolver tutti, ma deve giudicare tutti. Anzi, se v’è reato, il suo
punto culminante è già Custoza. Lissa è il tardo e inutile strascico d’una
guerra morta. Se potè avere un proposito doloso, è solo in quanto fosse intesa
a ostentare, oltre ad un’impotenza militare del Regno, anche una impotenza
marittima. Solo la presenza d’un accordo segreto può spiegare un simulacro di
guerra di cui non v’ha forse esempio al mondo. Esser liberi d’ogni movimento, anche
nelle giurisdizioni federali germaniche del Tirolo e dell’Istria; avere a
fronte un nemico già umiliato e vacillante, ricinto, fin entro le sue montagne,
le sue fortezze e le sue navi, da tre milioni di popolo fremente; avere in pugno
più di 300.000 soldati; portarne al fuoco, per volontà premeditata, nemmeno la
quinta parte; e darsi vinti, come per “disastro irreparabile” è una sì strana
prova d’arte militare che non è lecito imputarla a nudo errore. Il Senato non
può esigere il rendiconto di Lissa senza esigere il rendiconto di Custoza (…).
A Lissa non si vede come a Custoza il proposito sofistico di vincere senza
vincere, non si vede l’umile accordo con lo straniero imperioso, il vile
accordo col burbero nemico, non si vede il traffico dell’onore col guadagno, la
guerra finta eppur sanguinosa che pone per sempre nel cuore del soldato non la
fiducia della vittoria, ma il ghiaccio del sospetto. E’ per queste arti indegne
che l’Italia aveva perduto a memoria nostra l’onore delle armi” [2]Centocinquant’anni
dopo queste parole di Cattaneo, che colgono nel segno tutto l’ operato della
guerra dell’’86 e che invitano al rinnovamento morale e culturale del Paese per
divenire uno Stato moderno, ci appaiono terribilmente attuali nella nostra
terra italica, nella terra dei “gattopardi”, dove tutto sembra che cambi, ma
dove non cambia mai nulla.
Giancarlo Ramaccia
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