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giovedì 28 luglio 2016

I Droni: le opportunità di impiego

Sicurezza e difesa
Droni: protezione e sicurezza oltre la difesa 
Alessandro Ungaro, Paola Sartori
19/07/2016
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Concepiti e impiegati inizialmente in ambito militare, gli Aeromobili a pilotaggio remoto (Apr) - entrati nel nostro gergo comune con il termine “droni” - si rivelano sempre più uno strumento a carattere prettamente duale, in grado di assolvere o contribuire a tutta una serie di missioni civili e/o di sicurezza.

Pensiamo ad esempio alla sorveglianza delle frontiere terrestri e marittime, al monitoraggio delle infrastrutture critiche, oppure a supporto di operazioni di ricerca e soccorso e in casi di disastri naturali e/o antropici, e così via.

Strumenti versatili per la sicurezza
Da un lato, la possibilità di scegliere tra diversi tipi di sistemi - da quelli semplici di pochi grammi a quelli più complessi e che possono arrivare a pesare anche migliaia di kg - consente applicazioni multiformi e variegate, in grado di soddisfare le esigenze di diversi utilizzatori finali, sia civili che militari.

Dall’altra, la modularità del payloade dei dispositivi elettronici (sensori, radar, ecc.) garantisce l’acquisizione di una grande varietà di dati a seconda dei requisiti di missione e delle specifiche esigenze.

Ciò li rende particolarmente flessibili e “spendibili”, ma soprattutto in grado di massimizzare l’informazione ottenuta: i dati raccolti nell’ambito di una determinata missione potrebbero risultare utili anche per altri tipi di esigenze affini e compatibili.

Ad esempio, i dati collezionati nel corso di un’operazione di disaster managementpotrebbero rivelarsi validi anche nell’ambito della ricerca scientifica. Oppure, durante un’attività di monitoraggio ambientale si potrebbero raccogliere informazioni sfruttabili altresì per la fase di prevenzione e/o ripristino in caso di disastri naturali o antropici.

Vulnerabilità cyber e potenziali rischi
L’assenza dell’uomo a bordo del velivolo rende l’aspetto della sicurezza - nella doppia accezione di security e safety - un elemento pressoché cruciale.

Gli Apr interagiscono con l’ambiente esterno tramite l’elettronica e lo spettro elettromagnetico, raccogliendo, processando e scambiando una grande quantità di dati e informazioni che viaggiano nel cyberspazio e tra le infrastrutture fisiche e di rete a loro dedicate.

Questa caratteristica li rende potenzialmente vulnerabili ad attacchi esterni perché ogni interazione e scambio di dati tra la piattaforma e ciò che la circonda potrebbe costituire una possibile porta di ingresso per un attacco in grado di minacciare la funzionalità del segmento di bordo e di quello di terra.

Ecco perché è determinante che tali sistemi siano “resilienti”, ovvero in grado di operare in sicurezza anche qualora siano vittima di un attacco e/o ne sia compromesso il funzionamento (dal concetto di cyber-defence a quello di cyber-resilience).

Ma non ci sono esclusivamente le interferenze di tipo elettronico o cibernetico. La sicurezza si declina anche in termini prettamente fisici. Gli Apr di piccole dimensioni fanno ormai parte della realtà quotidiana e la loro diffusione è in crescita esponenziale.

Sempre più spesso li vediamo volare vicino a noi, fare riprese e registrare video a centinaia di metri di altezza, mentre all’orizzonte si profilano nuove modalità didelivery, con Amazon e altre società di e-commerce in testa.

Per quanto si tratti di sistemi piccoli o piccolissimi, essi possono comunque rappresentare un rischio considerevole per le persone e per gli altri utenti del cielo, ostacolando e compromettendo l’effettiva integrazione di tali velivoli all’interno dello spazio aereo civile.

Si pensi, ad esempio, al numero sempre più rilevante di collisioni sfiorate tra velivoli commerciali e Apr, nonché ai diversi incidenti provocati da piccoli sistemi utilizzati da operatori privati e/o improvvisati in prossimità degli aeroporti, o in grado di volare a quote abbastanza alte per interferire con i corridoi di transito dei velivoli tradizionali. Per non parlare, infine, del potenziale impiego a fini malevoli o addirittura terroristici da parte di organizzazioni o singoli individui.

Fattori abilitanti e prospettive future: un convegno IAI
Uno dei principali fattori abilitanti per il futuro degli Apr è quello dell’integrazione negli spazi aerei non segregati e l’inserimento nell’ambiente Atm (Air Traffic Management).

Si tratta di un aspetto destinato a cambiare radicalmente l’aviazione civile e militare, e le sue modalità di gestione, controllo e supervisione. Questa dinamica vede legate a doppio filo l’innovazione tecnologica da un lato, e la necessità di stabilire standard, procedure e regole comuni e sinergiche tra le due sfere di applicazione, dall’altro.

In quest’ottica,il convegno IAI del prossimo 26 luglio cercherà di contribuire alla riflessione sul tema, presentando uno studio sui velivoli a pilotaggio remoto e la sicurezza nazionale ed europea.

Nella partita che si sta giocando, l’Italia ha dimostrato e dimostra di poter far leva sull’esperienza acquisita in campo militare e civile, su capacità industriali di rilievo e, infine, su un approccio di sistema che sta dando i primi positivi frutti.

Sebbene tanto sia stato realizzato in questi anni, molto resta ancora da fare. Il mercato dei sistemi Apr rappresenta un’opportunità per promuovere crescita economica ed occupazionale così come innovazione tecnologica e industriale.

La sfida è appena iniziata e richiede che tutti gli stakeholder in campo adottino o perseguano un approccio armonico, coordinato e sinergico. L’obiettivo è quello di garantire che il segmento dei velivoli a pilotaggio remoto cresca all’interno di un mercato unico europeo nel rispetto di adeguati livelli di sicurezza e protezione per i cittadini.

Alessandro R. Ungaro è ricercatore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI, twitter@AleRUnga
Paola Sartori è assistente alla ricerca del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI, twitter@SartoriPal
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sabato 9 luglio 2016

Serbia e Kosovo e

Balcani
Vite parallele di Serbia e Kosovo nell'Ue
Sara Bonotti
06/07/2016
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La via europea di Serbia e Kosovo procede su binari paralleli per la scelta strategica di Bruxelles di diluire le frontiere in un percorso negoziale sincronico. Obiettivo collaterale è la normalizzazione delle relazioni tra Serbia ed ex-provincia autonoma, autoproclamatasi indipendente nel 2008. I rapporti della Commissione europea del novembre 2015 tracciano un percorso speculare d’integrazione e concessioni reciproche.

Alla Serbia, candidata dal 2012, si riconosce una politica regionale di riconciliazione e buon vicinato per stabilizzare il Kosovo e gestire la crisi migratoria.

Anche i progressi del Kosovo sono valutati in relazione al dialogo con la Serbia sul Primo Accordo del 2013 e sugli accordi di attuazione, e nella misura in cui Pristina tiene il passo con Belgrado (tra gli altri, in materia energetica, di libero scambio e regime Schengen). La Commissione ha spesso rilevato come la normalizzazione dei rapporti sia cruciale per imprimere slancio al futuro europeo di entrambi i paesi.

Belgrado, equilibrio instabile tra Bruxelles e Mosca
Incognite sul sentiero europeo s’insidiano nella mobilità del quadro politico. La conferma alle urne, lo scorso aprile, del Partito progressista serbo di Aleksandar Vučić favorirebbe una posizione equidistante tra valori europei e atlantici e tradizionali legami con la Russia. Similmente, la sopravvivenza parlamentare del Partito democratico riequilibrerebbe gli orientamenti in direzione di Europa e Nato.

Sull’altro versante, Partito radicale serbo, Partito democratico della Serbia e Partito popolare serbo - quest’ultimo parte della coalizione governativa - potrebbero far oscillare l’ago della bilancia verso Mosca. All’indomani dei risultati, le congratulazioni a Vučić del premier russo prospettavano un’alleanza “interessante e utile” in chiave strategica ed energetica. Le dinamiche, attualmente fluide, dipenderanno dalla capacità di mediazione di Vučić e dal ruolo della Russia sullo scacchiere internazionale.

Pristina, freno ai negoziati europei 
A Pristina, il vuoto di potere tra le elezioni del giugno 2014 e la formazione di una debole coalizione governativa tra Partito democratico del Kosovo del presidente Hashim Thaçi e Lega democratica del Kosovo del premier Isa Mustafa nel novembre di quell’anno ha ritardato la cooperazione regionale. Il confronto ha assunto connotati etnici nell’ottobre scorso, quando l’opposizione di ‘Autodeterminazione’ e alleanza per il futuro del Kosovo ha ostruito i lavori parlamentari sui negoziati con la Serbia.

Intanto, la Corte costituzionale, interpellata dall’allora presidente Atifete Jahjaga sulla costituzionalità del Primo Accordo del 2013, ha dapprima temporaneamente congelato l’intesa, per poi dichiararla parzialmente incostituzionale nella sezione relativa all’Associazione delle municipalità serbe.

La natura dell’Associazione rimane di fatto controversa: largamente autonoma su modello altoatesino per l’esecutivo serbo; organizzazione non governativa senza poteri esecutivi secondo Pristina. L’Accordo ricorre alla formula volutamente ambigua di “full ownership” dell’Associazione per dissimulare tali discrepanze.

L’integrazione delle ’strutture parallele’ serbe del nord nella cornice istituzionale kosovara è parimenti questione interpretativa. La protezione civile su base etnica è ad esempio considerata dai serbi struttura d’intervento d’emergenza, mentre le autorità del Kosovo v’individuano un nucleo d’intelligence paramilitare finanziato da Belgrado, che evoca fantasmi di strutture analoghe anche nella Repubblica serba di Bosnia.

Zagabria, veto sulle trattative 
Le relazioni altalenanti con la Croazia hanno mostrato il fianco debole di Belgrado su una questione chiave per l’accesso all’Unione europea: i crimini di guerra. Zagabria ha bloccato i negoziati con la Serbia su giustizia e diritti umani a seguito dell’assoluzione in primo grado di Vojislav Šešelj, presidente del Partito radicale serbo, da parte del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia nel marzo 2016. Šešelj, imputato di crimini di guerra e contro l’umanità per nove capi d’accusa, era stato già rilasciato temporaneamente prima della sentenza, che attendeva a Belgrado con febbre elettorale e protagonismo mediatico.

Immediate le reazioni del governo croato: l’allora premier Tihomir Orešković ha parlato di regresso della giustizia internazionale, mentre il suo vice Bozo Petrov ha ricordato i freni all’accesso croato per questioni meno rilevanti, riferendosi al sentiero accidentato e puntellato di standard che nel 2013 aveva trasformato il paese nel ventottesimo membro dell’Ue.

Il ministro degli Esteri croato Miro Kovač ha condizionato le trattative con la Serbia alla rappresentatività parlamentare della minoranza croata, al rinvio di Šešelj all’Aja e a un dietrofront di Belgrado sull’arrogata giurisdizione universale per i crimini di guerra degli anni Novanta in ex-Jugoslavia.

La Serbia ha di contro interpretato la mossa come strumentale a distogliere l’attenzione europea da presunte involuzioni democratiche in Croazia, revival fascisti e discriminazioni della minoranza serba. In questo contesto, recenti orientamenti linguistici - come la rimozione delle targhe stradali bilingui a Vukovar in Croazia, nonché la proposta di Kovač di sostituire il termine “regione”, evocativo dell’ex-Jugoslavia, con il neutrale “vicinato” - si caricano di forti valenze simboliche ed emotive.

Sara Bonotti, Programme Manager Human Dimension, Organization for Security and Co-operation in Europe (Osce), Programme Office in Astana.