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giovedì 26 gennaio 2017

Immigrazione e Strategie

Immigrazione
I limiti della strategia Minniti 
Bianca Benvenuti
18/01/2017
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Intensificare i controlli e aumentare la stretta sui migranti irregolari presenti nel territorio italiano. È questo l’obiettivo centrale della nuova strategia del ministro degli Interni Marco Minniti, che ha tra i suoi ingredienti la riapertura di un Centro di identificazione ed espulsione, Cie, per ogni regione e la conclusione di vari accordi di riammissione con i Paesi di origine e di transito.

L’obiettivo è di radoppiare le espulsioni portandole dalle attuali 5mila a 10mila unità. Un programma che ricalca le intenzioni del ministro dell’Interno tedesco Thomas de Maiziere che, in un’intervista al quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha dichiarato di voler aprire centri di deportazione delocalizzati e facilitare la firma di accordi di riammissione anche attraverso un “ammorbidimento” del principio del “paese terzo sicuro” che vieta rimpatri in paesi dove la sicurezza dei migranti è a rischio.

Anno nuovo, strategia nuova? La ricetta di Minniti per contrastare la migrazione irregolare sa più dell’ennesimo tentativo di far funzionare un sistema che ha già in passato dimostrato la sua inefficacia.

La detenzione amministrativa che non funziona
Il ministro Minniti promette una nuova politica sull’immigrazione che abbia come cardine l’aumento delle espulsioni e la diminuzione dei migranti irregolari presenti sul territorio italiano. Insomma, un rilancio della politica dei rimpatri che di nuovo ha poco o nulla. Ingrediente imprescindibile di questa “nuova” strategia, che verrà delineata con più precisione nelle prossime settimane, è la riapertura di un Cie per ogni regione.

I Cie, istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco-Napolitano, sono strutture detentive in cui vengono reclusi i cittadini stranieri colpevoli di reati amministrativi, cioè di aver soggiornato irregolarmente nel territorio italiano. Il periodo di detenzione può durare al massimo 18 mesi, periodo nel quale le autorità italiane dovrebbero provvedere alla identificazione e al rimpatrio del migrante nel suo Paese o nel Paese terzo dal quale ha transitato per arrivare in Italia.

Ma il “sistema Cie” non ha mai realmente funzionato. I dati dell’ultimo anno lo dimostrano: a fronte di 30 mila provvedimenti di espulsione firmati, solo 5 mila persone sono state effettivamente rimpatriate. Le difficoltà riguardano l’identificazione dei migranti, spesso sprovvisti di documenti, i costi del rimpatrio, ma soprattutto le resistenze di vari Paesi di provenienza a concedere il nulla osta.

Ne risulta che, dopo mesi di detenzione senza aver commesso un reato, ma solo un illecito amministrativo, il migrante si trovava di nuovo irregolare sul territorio italiano senza possibilità di legalizzare la propria posizione. Né le nuove misure previste da Minniti sembrano tali da ovviare a questi problemi.

Inoltre, l’approccio Cie risulterebbe inadeguato a fronteggiare i numeri di migranti irregolari presenti sul territorio italiano, considerando che si stima la presenza di 70mila solo tra coloro che hanno visto rigettata la propria domanda d’asilo. Molte associazioni hanno anche denunciato condizioni di vita disumane all’interno dei Cie, spesso ribatezzati “moderni lager”.

Accordo Italia-Libia
Il secondo e forse più importante elemento della “strategia-Minniti” è proprio il tentativo di stringere nuovi accordi di riammissione con i Paesi di origine e di transito. Secondo l’Agenzia Onu per i Rifugiati, più dell’80% dei barconi arrivati in Italia nello scorso anno proveniva dalle coste libiche e trasportava per lo più migranti provenienti da altri paesi, transitati attraverso la Libia.

La Libia è un Paese chiave per la gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo centrale: per questa ragione il ministro vi si è recato ad inizio anno, per stringere un accordo con il governo di Fayez el-Serraj al fine di fronteggiare il flusso irregolare di migranti e individuare le reti di trafficanti.

L’accordo con la Libia è chiave perché permetterebbe il rimpatrio in quel Paese non solo di migranti di nazionalistà libica, ma soprattutto di cittadini di Paesi terzi, transitati in Libia con i quali l’Italia non ha ancora accordi di riammissione. La vera domanda è se questo accordo funzionerà.

La situazione libica è il primo nodo da sciogliere. Precedenti governi italiani avevano già stretto accordi simili con Tripoli: nell’agosto 2008, l’allora Primo Ministro italiano Silvio Berlusconi aveva sottoscritto con il colonnello Gheddafi un accordo per la collaborazione tra i due Paesi nella lotta alla “immigrazione clandestina”. Con l’inizio della guerra civile e la destituzione di Muammar Gheddafi, presto saltò anche l’accordo tra i due paesi, dando inizio alla cosidetta “emergenza nord-Africa” in Italia.

Oggi, l’interlocutore scelto è l’esecutivo di Fayez al-Serraj, ovvero il governo riconosciuto dalle Nazioni Unite, che ha però il controllo solo di parte del Paese. Vaste aree del sud e della costa sono in mano a jihadisti e altre milizie, mentre il generale Khalifa Haftar mantiene il controllo dell’area di Tobruk e l’ex premier Khalifa Ghewell di Tripoli.

Resta poi aperta la questione delle condizioni di vita dei migranti in Libia; secondo recenti rapporti di Medici Senza Frontiere, i migranti vengono spesso detenuti in condizioni antigeniche e disumane. L’Italia sembra quindi disposta a derogare anche dal principio del Paese terzo sicuro, che ha suscitato tanta opposizione all’accordo Ue-Turchia.

Il fallimento del nuovo accordo con la Libia sarebbe un brutto colpo nella politica di Minniti di rinvigorire la stipula di trattati di riammissione con paesi di origine e di transito. Senza questo tassello, inoltre, anche la creazione dei Cie non avrebbe più senso, perché la reclusione amministrativa è inutile se non si può assicurare il rimpatrio dei migranti reclusi.

Manca ancora, non solo in Italia, ma anche in Europa, la consapevolezza del fatto che l’unico modo per contenere i flussi irregolari di migranti è l’apertura di canali migratori legali e di passaggi sicuri per chi cerca protezione.

Bianca Benvenuti è stata visiting researcher, Istanbul Policy Centre (IPC). Durante il suo periodo di ricerca presso lo IAI, si è occupata di relazioni Ue-Turchia e di crisi migratorie.
 
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lunedì 16 gennaio 2017

Casa Bianca: l'arrivo del nuovo Presidente

L’America di Trump
Una squadra di generali, razzisti, miliardari
Giampiero Gramaglia
06/12/2016
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Dal giorno che Donald Trump ha conquistato la Casa Bianca, pur avendo ottenuto oltre due milioni di voti popolari in meno di Hillary Clinton, l’1,5% dei suffragi espressi, il tam-tam dei media batte lo stesso annuncio: “Il presidente sarà diverso dal candidato”.

Ora, a parte che non si capisce come un uomo di 70 anni possa cambiare la sua indole da un giorno all’altro, specie dopo essere stato premiato per i suoi atteggiamenti aggressivi, sessisti, grossolani, è un fatto che tutte le scelte finora fatte inducono a pensare esattamente l’opposto.

Prendiamo la composizione della squadra di governo, le cui caselle Trump riempie più celermente di tutti i suoi predecessori, almeno a partire da Ronald Reagan.

Il magnate e showman snocciola nomine, che vanno (quasi) tutte nello stesso senso: pare di stare in uno di quei film sul razzismo dell’aristocrazia del denaro del Profondo Sud, l’Alabama di ‘A spasso con Daisy’, o il Mississippi di ‘The Help’. Ma Steve Bannon, il super-consigliere, megafono mediatico dei suprematisti bianchi, sarebbe a suo agio nel Texas de ‘La Caccia’.

Le scelte cadono su ex generali e miliardari in servizio permanente effettivo. Pochi invece i politici.

La ricerca del segretario di Stato: ridda di nomi
Trump è ancora alla ricerca di un segretario di Stato potabile, che gli dia credibilità internazionale e che accetti d’entrare nella sua Amministrazione. Nelle quotazioni della stampa, i favoriti sono tre: Mitt Romney, candidato repubblicano alla Casa Bianca nel 2012, mai in sintonia con la campagna del magnate; Rudolph Giuliani, sindaco di New York l’11 Settembre 2001, il leader repubblicano più vicino a Trump; e David Petraeus, generale in congedo ed ex direttore della Cia.

Nessuno dei tre ha un profilo ideale: Romney è l’anti-Trump per antonomasia fra i repubblicani; Giuliani è stato indebolito da rivelazioni dei media su rapporti d’affari con Paesi terzi, che configurano conflitti d’interesse; Petraeus uscì di scena nel 2012 per uno scandalo che ne offuscò l’immagine (e l’affidabilità).

Così, la rosa dei nomi s’allarga. Il New York Times rimette in pista l’ex ambasciatore degli Usa all’Onu, John R. Bolton, un diplomatico competente, ma rigido e scostante nell’approccio: e cita pure Jon M. Huntsman, ex governatore dello Utah, ex ambasciatore in Cina e candidato nel 2012 alla nomination repubblicana;Joe Manchin III, un senatore democratico della West Virginia; e, infine, Rex W. Timmerson il presidente e ceo di Exxon Mobil.

Il presidente eletto ha anche sondato il senatore del Tennessee Bob Corker e il generale dei marines John Kelly - il figlio maggiore cadde in Afghanistan nel 2010 -, nomi apparentemente deboli per quel ruolo.

L’eterogeneità delle ipotesi indica che la ricerca del segretario di Stato è complessa: non è facile trovare un candidato preparato e affidabile che accetti di lavorare al fianco di un presidente capace di creare, in ogni momento, più o meno consapevolmente, un incidente diplomatico.

Trump rimette in discussione la distensione con Cuba, al momento stesso della morte di Fidel Castro; intende ripristinare l’uso della tortura nella lotta contro il terrorismo, nonostante le reticenze delle agenzie di sicurezza che ci sono già passate; infiamma le relazioni con la Cina, rispondendo alla telefonata della presidente di Taiwan Tsai Ing-wen (“Che male c’è?, mi ha chiamato lei”).

La sicurezza in mano ai militari: il nodo dell’Iran
Il segretario alla Difesa è James N. Mattis, 66 anni, generale in congedo che comandò una divisione dei Marines a Baghdad durante l’invasione dell’Iraq nel 2003: avido lettore di storia militare, ha nomignoli come ‘il monaco guerriero’, per il suo carattere ascetico - non è mai stato sposato -, oppure ‘cane pazzo’. Ai suoi soldati, impone di studiare usi e costumi delle terre dove sono mandati in missione.

Mattis guarda con preoccupazione all’Iran, ma non è favorevole a stracciare l’accordo nucleare definito con Teheran. In merito, John Brennan, direttore della Cia uscente, ha lanciato un monito alla futura Amministrazione: denunciare l’intesa sarebbe “disastroso” e potrebbe aprire una corsa agli armamenti in Medio Oriente.

Ma il successore di Brennan sarà Mike Pompeo, 59 anni, deputato del Kansas, origini italiane, un Tea Party vicino al vice-presidente Mike Pence: per lui, la priorità è l’abolizione dell’accordo con l’Iran, perché fatto “con lo Stato principale sostenitore del terrorismo al Mondo”.

Il consigliere per la Sicurezza nazionale sarà il generale Michael T. Flynn, 57 anni, un democratico uscito dall’Amministrazione Obama ed entrato nelle fila repubblicane in campagna elettorale.

Come ambasciatrice all’Onu, altra figura importante della politica estera e di sicurezza, Trump ha scelto Nikki Haley, 44 anni, governatrice della South Carolina, origini indiane, che non lo aveva sostenuto nella campagna. Mentre il capo dello staff alla Casa Bianca sarà un repubblicano ‘doc’, fra i pochi ad essergli stato vicino: Reince Priebus, 44 anni.

Tesoro, Giustizia e altre nomine
Alcune delle nomine finora fatte vanno esattamente in senso opposto alle promesse più improbabili del Trump candidato, a dimostrazione che la coerenza non è una caratteristica del presidente eletto: s’era presentato come l’incubo di Wall Street e della finanza protetta da Hillary Clinton e sceglie due finanzieri miliardari, Steven Mnuchin e Wilbur L. Ross, al Tesoro e al Commercio.

Mnuchin, 54 anni, ha gestito gli aspetti finanziari della campagna presidenziale, ha legami con Hollywood e con Wall Street, ma non ha esperienza di gestione della cosa pubblica.

Ross, 79 anni, fa l’investitore ed entra in squadra, come molti altri, perché è un grande finanziatore del partito repubblicano - suo vice è Todd Ricketts, 46 anni, proprietario dei Chicago Cubs che hanno appena vinto il campionato di baseball e figlio del fondatore di Ameritrade: nessuno di questi appare in sintonia con i minatori degli Appalachi e il metallurgici della Pennsylvania che hanno consegnato a Trump la Casa Bianca con i loro voti.

Il senatore dell’Alabama Jeff Sessions, 69 anni, sarà segretario alla Giustizia: è favorevole all’espulsione degli immigrati irregolari ed è contrario all’aborto ed ai matrimoni fra omosessuali. Nel suo CV, venature razziste, costategli il posto di giudice federale, e una battuta sul Ku Klux Klan: “Mi piacevano, ma poi ho saputo che fumano marijuana”.

Trump ha pure nominato uno dei suoi rivali per la nomination repubblicana, Ben Carson, 65 anni, neurochirurgo nero, all’Edilizia pubblica - va già bene che un creazionista come lui non sia finito altrove; Tom Price, 62 anni, deputato della Georgia, fra i critici più radicali dell’Obamacare, andrà alla Sanità; Elaine Chao, 63 anni, origini asiatiche, già ministro con George W. Bush, ai Trasporti; e Betsy DeVos, 58 anni, altra miliardaria, donatrice repubblicana, all’Istruzione - vuole dare i soldi dei contribuenti alle famiglie perché possano mandare i loro figli alle scuole private.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.