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giovedì 21 gennaio 2016

Il caso della Enrica Lexie interminabile

Disputa Italia-India
Il caso marò e i tempi dell’arbitrato
Natalino Ronzitti
18/01/2016
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Un’apertura? Così potrebbe essere interpretata la decisione della Corte Suprema indiana di permettere l’estensione della permanenza in Italia (scaduta formalmente il 15 gennaio), del fuciliere di marina Massimiliano Latorre fino al 30 aprile.

L’interminabile vicenda dell’Enrica Lexie
Facciamo il punto sulla vicenda dell’Enrica Lexie, che si trascina dal 15 febbraio 2012, giorno in cui la nave fu attirata nel porto indiano di Kochi, con la scusa che il comandante doveva testimoniare su episodi di pirateria accaduti al largo delle coste del Kerala.

Vista l’impossibilità di risolvere la questione in via diplomatica, nonostante le speranze suscitate dall’ascesa al governo del nuovo premier Nerendra Modi, l’Italia ha notificato all’India il 26 giugno 2015 la decisione di devolvere la controversia a un Tribunale arbitrale, secondo l’Annesso VII alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare.

Nello stesso tempo ha chiesto al Tribunale Internazionale per il diritto del mare di Amburgo, Itlos, misure provvisorie volte al rientro dei due Fucilieri di Marina (Salvatore Girone e Massimiliano Latorre) in Italia.

In verità Latorre si trovava già in Italia essendogli stato concesso per motivi di salute di restare nel nostro paese fino al 15 gennaio 2016. L’India si è opposta alla concessione di misure provvisorie, ma l’Itlos ha salomonicamente concluso (ordinanza del 24 agosto 2015) che i tribunali indiani e italiani non avrebbero potuto prendere nessuna misura che potesse aggravare la controversia, intimando ai due paesi di sospendere tutti i procedimenti in corso e di non iniziarne di nuovi.

Tradotto in chiaro, questo significa che Girone avrebbe potuto mantenere il suo status di libertà condizionata (movimento solo in New Dehli e obbligo settimanale di firma), mentre Latorre poteva restare in Italia, non essendo consentito all’India di prendere una misura per il suo rientro alla scadenza del termine.

Ovviamente i tribunali indiani non avrebbero potuto prendere nessuna misura peggiorativa. La Corte Suprema indiana si è espressa invece favorevolmente per la proroga fino al 30 aprile per il permesso a Latorre, fissando una nuova udienza per il 13 aprile per fare il punto della situazione.

Il nostro governo, con un comunicato della Farnesina, si è affrettato a statuire che Latorre potrà restare in Italia per tutta la durata del procedimento arbitrale, essendo preclusa alla Corte Suprema indiana ogni decisione al riguardo. Comunque la decisione della Corte Suprema impedisce all’India di considerare l’Italia inadempiente per non aver fatto rientrare Latorre a New Dehli il 15 gennaio.

Il Tribunale Arbitrale e la competenza del processo ai marò
Il Tribunale arbitrale, composto da cinque giudici, è stato costituito abbastanza celermente. Due giudici sono stati nominati rispettivamente da parte italiana e indiana, gli altri tre sono stati designati dal Presidente dell’Itlos che funziona anche da presidente del collegio. Ovviamente tutti gli arbitri sono indipendenti e rispondono soltanto alla legge, inclusi quelli nominati da Italia e India.

All’occorrenza, formule compromissorie possono essere avanzate dalle parti, cioè Italia e India, tramite i loro avvocati. Il Tribunale arbitrale non è da confondersi con la Corte permanente di arbitrato, Cpa, dell’Aja che presta i suoi servigi al Tribunale arbitrale e funziona come ufficio di cancelleria.

È stata fissata la data del 18 gennaio per la riunione degli arbitri che dovranno scegliere la sede del Tribunale (l’Italia gradirebbe l’Aja, mentre l’India una località diversa), le regole di procedura e la tempistica, con cui si dovranno modulare le fasi per la presentazione dei ricorsi e delle repliche.

Altro nodo da sciogliere riguarda la pubblicità delle udienze. È consigliabile orientarsi per la pubblicità del solo verdetto finale e optare per la confidenzialità del procedimento al fine di evitare interferenze mediatiche? Secondo taluni la confidenzialità potrebbe evitare inutili clamori e assecondare intese a livello diplomatico durante la procedura arbitrale.

L’oggetto della controversia - è bene ricordarlo - non riguarda la colpevolezza o l’innocenza dei due Fucilieri di Marina, ma la competenza a giudicarli, cioè se essa spetti ai tribunali italiani o a quelli indiani.

Tra l’altro durante l’udienza per le misure provvisorie sono emersi fatti nuovi a favore dell’Italia, essendo stata avanzata dal nostro agente la circostanza che l’Enrica Lexie non sia entrata volontariamente nel porto di Kochi, ma vi sia stata costretta.

L’Italia ha chiesto al Tribunale arbitrale una nuova misura provvisoria, consistente nel rientro di Girone in Italia, in attesa che si concluda il procedimento, implicitamente impegnandosi a riconsegnare i due fucilieri, qualora la sentenza arbitrale fosse sfavorevole.

Ma l’India potrebbe opporsi e ricordare, come ha già fatto dinanzi all’Itlos, che l’Italia non rispetta le sentenze internazionali, non avendo eseguito quella della Corte internazionale di giustizia nel caso Germania contro Italia (2012).

Si corre il rischio che il Tribunale rimetta in discussione le misure provvisorie già adottate. Ma la condotta indiana sarà un test per verificare la volontà di pervenire ad una rapida e ragionevole chiusura della controversia. In altri termini l’India, se intende veramente percorrere questa strada, dovrebbe, tramite i suoi avvocati, non opporsi alla richiesta italiana.

Un po’ di grinta
Un po’ di grinta non guasta e dovrebbe essere elemento di propulsione per un eventuale negoziato. L’Italia si è opposta all’ingresso dell’India in alcuni fori per il controllo delle armi di distruzioni di massa e dei relativi vettori, caldeggiato da Stati Uniti e Francia.

Il settembre scorso l’India non è potuta divenire membro del Missile Technology Control Regime a causa dell’opposizione italiana. A livello europeo l’accordo commerciale Ue-India è in una fase di stallo per la nostra opposizione, così come la visita del Premier Modi a Bruxelles nel 2016. Addirittura si è pensato di ricorrere ai buoni uffici del Presidente Obama.

Soluzione diplomatica ancora possibile
L’esistenza di una road map per pervenire ad una soluzione diplomatica della vicenda è stata smentita dalle due parti, ma si tratta di smentite in qualche modo di routine nel mondo della diplomazia.

Una trattativa, qualora avesse esito positivo, potrebbe determinare l’estinzione della controversia e quindi la chiusura del procedimento arbitrale. I precedenti non mancano. Altrimenti occorre attendere altri due-tre anni e l’alea della sentenza, in tutto 6-7 anni da quando l’incidente si è verificato!

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (Luiss Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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lunedì 11 gennaio 2016

Cultura della Sicurezza in Europa

Stato di emergenza
Sicurezza e diritti fondamentali: un connubio impossibile?
Filippo di Robilant
10/03/2016
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Victor Hugo, deputato nella Deuxième République, scriveva nel suo diario: “Di fronte alle barricate, ho difeso l’ordine. Di fronte alla dittatura, ho difeso la libertà … Ho definito e limitato lo stato d’assedio… uno stato d’assedio, questo, inutilmente prolungato, che pesava sulla città di Parigi, sulle municipalità, sul credito, sugli affari, sulla fiducia della gente. Sono tra coloro che ne hanno chiesto ed ottenuto la fine”. (Choses Vues, Gallimard).

Già nel 1849, dunque, il grande scrittore francese si poneva la questione della ricerca di un punto di equilibrio tra sicurezza e libertà, un tema ancora irrisolto al giorno d’oggi.

Cultura della sicurezza
In questi tempi, si sente tanto parlare di “cultura della sicurezza”: fa parte dello spirito dell’epoca. Ma è imperativo, allora, che ne faccia parte il tema della protezione dei diritti fondamentali individuali, con particolare riguardo al rispetto delle convenzioni internazionali; proprio come, viceversa, è in egual misura importante per il mondo del c.d. droit-de-l’hommisme fare proprie le esigenze di sicurezza. Come nel principio dei vasi comunicanti, il risultato cui puntare è quello di ottenere uguali livelli.

Purtroppo non è mai stato così. Usa dire che si può avere “uno stato sicuro senza libertà, ma non uno stato libero senza sicurezza”. Il che darebbe ragione al filosofo inglese Jeremy Bentham, inventore del Panopticon (1791), che diceva: “quando sicurezza e uguaglianza sono in conflitto, non bisogna esitare un momento: l’uguaglianza va sacrificata”.

Oggi, alla luce anche del progresso tecnologico che consente una sorveglianza massiva e capillare su di noi, un equilibrio tra le due necessità si è avvicinato o si è ulteriormente allontanato?

Misure d’eccezione, tre paletti 
Il caso Apple/Fbi scoppiato all’indomani della strage di San Bernardino dimostra che siamo ancora lontani dal trovare un equilibrio condiviso nel settore della sorveglianza, per esempio nel definire gli obblighi delle società informatiche evitando automatismi nell’accesso ai loro codici. Pertanto, rimane aperta la questione di come preservare i benefici della rivoluzione digitale senza una pericolosa e incontrollata riduzione della nostra privacy.

Anche per questo dobbiamo porci il problema prima che governi impongano lo stato di emergenza, come è successo in Francia dopo gli attentati del 13 novembre, stabilendo qualche paletto affinché le misure d’eccezione siano proporzionali alla minaccia: per ottenere questo si propongono tre caveat.

Il primo. Misure d’eccezione che procurano una sospensione dei diritti fondamentali (coprifuochi, chiusura delle frontiere, chiusura di pubblici uffici, limitazione nella circolazione, arresti e perquisizioni senza mandato, etc.) non possono essere imposte ad oltranza, ma devono avere, previa autorizzazione del Parlamento,un preciso limite di tempo. Semmai, con possibilità, quando motivate, di essere prorogate, magari con misure attenuate a mano a mano che l’emergenza si affievolisce. Per capirci: i 30 anni ininterrotti di stato di emergenza, dal 1981 in poi, proclamati dal’ex presidente egiziano Hosni Mubarak non è, di tutta evidenza, un modello a cui guardare.

Il secondo. Misure d’eccezione devono avere un chiaro e credibile obiettivo, intelligibile all’opinione pubblica. Diffidare, insomma, di generalizzazione del tipo “siamo in guerra col terrorismo” o, peggio, “siamo in guerra con l’Islam”. Ricordiamoci che siamo usciti dagli Anni di Piombo applicando le leggi ordinarie e non ricorrendo a quelle speciali, proprio come la Francia non proclamò mai lo stato di assedio in Algeria per non legittimare i combattenti del Fnl.

Il terzo. Misure d’eccezione non devono mai prendere di mira gruppi specifici, siano essi etnici, religiosi, di genere o altro. Non solo perché si scontrerebbero con dettami costituzionali, ma perché creerebbero solo ostilità e ulteriore marginalizzazione.

Francia, se l’eccezione rischia di diventare la regola
La storica contrapposizione tra Ragion di Stato e Stato di diritto qui non c’entra. Anche nello Stato di diritto un’azione normalmente considerata illegale può diventare legale in base alla circostanze - “necessitas non habetlegem” dicevano gli antichi romani - tuttavia sorprende che, dopo gli attentati del 13 novembre a Parigi, il governo francese, ritenendo che la legge sullo stato di emergenza del 1955 fosse superata e quindi giuridicamente fragile, abbia inteso inserire tale previsione in Costituzione.

Ha detto il Premier Manuel Valls: “Lo stato di emergenza è un principio di diritto che vogliamo costituzionalizzare per fare in modo che le misure di eccezione siano meglio inquadrate nel nostro ordinamento”.

Ma così facendo, la Francia - quella del Secolo dei Lumi - rende permanente la possibilità di ricorso ad una norma che affronta per definizione circostanze eccezionali: l’eccezione, insomma, diventa la regola. Con in più il rischio di passare dalla legittima difesa dei poliziotti a quello che viene chiamato “stato di necessità”, ossia che l’uso delle armi sia possibile quando ci si trova di fronte a persone che si suppone possano continuare a commettere atti criminali: un terreno, questo, davvero scivoloso.

Come aveva già correttamente rilevato Victor Hugo - ben centosessantasette anni fa - poteri esecutivi molto estesi, combinati con pochissimi controlli sulla loro applicazione, non possono che causare serie violazioni dei diritti fondamentali. Meglio che i suoi connazionali di oggi ci riflettano bene prima che una Marine Le Pen o suoi epigoni vadano al governo della République con poteri emergenziali sconfinati serviti su di un piatto d’argento.

Filippo di Robilant è membro del Comitato Direttivo dello IAI.
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