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martedì 14 luglio 2015

Un Combattente del 51° Reggimento Fanteria della Divisione Cacciatori delle Ali


Almerino Leonardi

Ricordi

A cura di Maurizio Balestra
 e di
Valentina Fantini, Jessica Gabanini (Liceo scientifico “A: Righi”)
Giulia Giordano (Liceo classico “V. Monti”)
Giuseppe Setzi (ITC “R. Serra”)

Introduzione


Chiamato alle armi il 29 gennaio del 1942 e il 18 agosto dello stesso anno, partito per i Balcani, Almerino Leonardi si trova, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, a dover tornare in patria senza mezzi di trasporto.
Il viaggio, di 47 giorni, segna profondamente sia a livello psichico che fisico il protagonista, che, attraverso questo diario, dà libero sfogo al suo stato d’animo.
Nonostante i rastrellamenti tedeschi, la cattura da parte di partigiani e le fughe repentine, Almerino arriva infine vicino a Mantova dove ritrova la nonna felicemente incredula per il suo ritorno.

Ricordi


Nel 1940 scoppiò la seconda guerra mondiale ed anch’io dovetti servire la Patria.essendo della classe del 1922.
Il 29 Gennaio 1942 fui chiamato alle armi, prima al distretto di Forlì poi a Perugia. Al  51° Reg. Fant. Divisione Cacciatori delle Alpi (Garibaldi)[1] e dopo sette mesi di duro addestramento il 18.08.1942 fui mandato in zona di guerra nei Balcani.
La mia divisione presidiava la Slovenia e parte della Croazia. Passammo nei pressi di Lubiana, Novo Mesto, Bazovizza[2], Ribniza, e spesso facevano rastrellamenti con furibonde battaglie.
La fortuna mia mi ha sempre assistito, e così sono arrivato fino all’8 settembre del 1943 e da qui inizia il mio rocambolesco viaggio………




Santa Lucia (Mantova), 18 Ottobre 1943


Nel mio breve racconto io narro il mio avventuroso viaggio che ho percorso, del piccolo paese di Ribniza situato a 60 Km. Sud da Lubiana presso il confine Croato fino a casa. Un indelebile viaggio che durò dall’8 Settembre al 25 Ottobre.
* * *  
Dopo una lunga ed indefinita marcia fatta tutta a piedi, piena di sacrifici e di pericoli, dopo aver attraversato gli immensi boschi della Slovenia e le altissime montagne dell’Istria e del Carso, poi giù nell’infinita pianura Padana dal Friuli al Veneto fino alle porte di Mantova dopo aver percorso oltre 500 Km. Sotto la continua insidia dei tedeschi.
Ma con indomito coraggio a costo della cosa più cara, cioè la vita, ho portato a termine questo drammatico e avventuroso viaggio ed ancora una volta ho potuto riabbracciare i miei cari che come una stella hanno fatto luce nei momenti più difficili.
Dopo tre mesi di rastrellamento sulle alte montagne e negli abissi degli immensi boschi della Slovenia e della Croazia, sotto il peso delle lunghe marce, al calore del sole


dell’estate, sotto le piogge e dopo molti pericolosi combattimenti, il giorno 6 Settembre rientrammo alla base, in un bel paesetto Ribniza dove c’era il nostro deposito.
Appena arrivati alla base già si parlava di una nuova uscita e all’alba dell’8 Settembre ripartimmo. Inabissati nel bosco per una decina di chilometri, ad un certo momento cominciò una furibonda sparatoria, per fortuna durò poche ore; infatti alle sei di sera rientrammo.
Nonostante la stanchezza la sera andai al cinema, era da tanto che non ci andavo. Il film era molto bello e mi stavo divertendo, ma ad un tratto la porta si aprì e si udirono urla e grida, non comprendemmo cosa stesse accadendo. Io presi la rivoltella che portavo con me perché temevo fosse un attacco dei partigiani. A forza di urlare accesero le luci ed io infilai la finestra sottostante dalla quale provenivano canti e urla, erano tutti soldati che annunciavano l’armistizio[3].
In un primo momento eravamo tutti felici, ma quando pensammo che eravamo in territorio nemico[4]e che i nostri erano a centinaia e centinaia di chilometri, ci assalì la preoccupazione e dentro di noi calò la tristezza.
Rientrammo in caserma ed andammo in branda con gli occhi lucidi e col cuore gonfio al pensiero di quella amara realtà.
Poco dopo arrivò l’ordine di allarme, affardellammo in fretta lo zaino e ci preparammo in assetto di guerra. Fortunatamente verso mezzanotte arrivò l’ordine di riposare.
All’alba del 9 preparammo tutto per partire, caricammo quanto possibile sullo zaino, nonostante ciò rimasero i magazzini pieni di viveri; era una cosa impressionante dover lasciare tutto quel ben di Dio in mano al nemico!
Verso le 11 partimmo, eravamo oltre duemila soldati. Dopo tre ore di cammino eravamo fuori dal paese, quando improvvisamente arrivò un contrordine: dovevamo rientrare.
Non riuscimmo a rientrare alla base in quanto fummo sorpresi da una sparatoria, erano partigiani. Noi rispondemmo con tutte le armi fino alle cinque del pomeriggio.
Poco dopo le paese arrivò una delegazione di partigiani per un colloquio coi nostri superiori. Dopo un’ora sembrava fosse stato raggiunto un accordo, ma la notizia si rivelò falsa, infatti poco dopo il tutto fù smentito ufficialmente.
Intanto arrivarono un centinaio di anticomunisti chiamati Cetnici[5], nostri alleati che occuparono il paese e la nostra caserma. Di conseguenza noi fummo costretti a spostarci al centro del paese, dove si sapeva che dovevamo aspettare il 1° Battaglione del nostro reggimento, il quale doveva arrivare da un momento all’altro.
Si sapeva che Lubiana era occupata dai tedeschi e che il comando e una nostra mezza divisione venne fatta prigioniera.

Arrivò sera. Mentre circolavano le voci che una colonna di tedeschi da Lubiana sarebbe partita nella nostra direzione. A seguito di questa situazione iniziò ancora qualche sparatoria, i partigiani a tutti i costi volevano venire dentro. In lontananza si sentiva combattere il primo battaglione che non voleva arrendersi ai partigiani. La resistenza infatti durò tutta la notte eroicamente, ma all’alba dovette cedere: i soldati arrivarono quasi tutti disarmati e pallidi per la lunga battaglia, anche con qualche morto e ferito.
Verso le dieci arrivarono due giovani partigiani, si diceva che erano due alti ufficiali. Ripartirono dopo pochi minuti e si seppe che era stato raggiunto un accordo con il nostro Colonnello con il quale erano stati a colloquio.
Ci preparammo a partire, ma il Comandante dei Cetnici si dichiarò contrario alla nostra idea e così dovemmo abbandonare il nostro deposito, dal momento che tra loro c’era una nostra compagnia alla quale fù impedito di partire.
Nel frattempo, a squadre di 6-7 uomini, arrivarono i partigiani[6], fra di loro c’erano anche alcune donne, ed occuparono il paese. Io li guardai bene perché in tredici mesi di combattimento non li avevano ancora visti.
Sfilarono tutti disciplinati senza dire una parola mentre la folla gettava loro tanti fiori, segno della loro amicizia. Finita la sfilata occuparono tutto il paese all’infuori della caserma occupata dai Cetnici. Ci venne ordinato di ritirarci nelle case, loro avrebbero pensato ai Cetnici.
Intanto in direzione di Lubiana si vedevano segnali gialli e rossi e si diceva che di lì a poco sarebbero arrivati i tedeschi all’interno del nostro appostamento. Così ci trovammo in strada, i partigiani dentro la città, i Cetnici in caserma ed i tedeschi in arrivo: credo che siano state le ore più brutte della mia vita.
All’improvviso passarono davanti a noi i Cetnici in silenzio diretti verso la montagna; i partigiani li guardarono senza la benché minima parola.
Intanto in un’osteria ci trovammo a tu per tu coi partigiani, qualcuno di loro parlava bene l’italiano e così cominciammo a ricordare le nostre avventure avute nelle battaglie, quando all’improvviso riconobbi fra di loro un giovane chiamato Giovanni che pochi mesi prima era con noi a fare da guida quando facevamo i rastrellamenti. Ci salutammo cordialmente in quanto in caserma eravamo buoni amici.
Loro erano molto calmi e cortesi, mentre dentro di noi la paura era grande. Ci dissero che il loro comando avrebbe fatto un accordo e che avrebbero lasciato prendere tutto quello che potevamo, mentre il rimanente l’avrebbero preso loro.
Ormai la partenza era imminente. La sera del 10 Settembre[7]stava calzando lentamente ed il sole si nascondeva fra le aguzze montagne: così ebbe inizio questo lungo ed avventuroso viaggio.
* * * 
Partimmo tutti in fila, l’uno dietro l’altro, eravamo quasi 5000 soldati perché se ne erano aggregati altri di tanti paesi. Dietro alla colonna c’erano oltre 100 camions, centinaia di cavalli, il 1° Battaglione Artiglierie Autoblinde al completo ed armi di tutte le specie.
Si fece buio e ci fermammo. Ad un tratto ci ordinarono di stare ai lati della strada. Passarono i partigiani con i camions, si fermarono, ci perquisirono e sequestrarono tutte le armi.
Finalmente alle 3 di notte se ne andarono. Era una notte gelida e così disarmati eravamo ancora più tristi e sconsolati.
Il cielo era illuminato da tanti segnali e se per disgrazia fossero arrivati i tedeschi noi saremmo stati presi fra due fuochi senza poi tener conto che eravamo disarmati, ma forse quella notte un Santo avrà pregato per noi. 
Ad un tratto passò un’autoblinda partigiana con un portavoce il quale ci disse che dovevamo restare calmi perché avrebbero pensato loro a condurci fino al confine ed anche oltre, se lo avessimo voluto.
Le parole erano tanto belle ma noi stentavamo a crederci in quanto poche ore prima non avevano mantenuto la parola e ci avevano disarmato.
Ma ecco che alle 4 del mattino ripartimmo con 100 partigiani in testa armati di fucili e mitraglie, c’era anche qualche soldato italiano ed alcune ambulanze per trasportare e feriti, il resto tutti a piedi e disarmati all’infuori del colonnello che portava la rivoltella.
Si fece l’alba e la marcia continuò tutto il giorno fino alle nove di sera. Arrivammo in un paese chiamato Nuova Vàs, mangiammo un po’ e poi dormimmo alla meglio sotto delle piante ed ogni tanto venivamo svegliati a suon di raffiche di fucilate.
* * *
Pensate, questo fù appena il primo giorno di viaggio!!!
* * *
All’alba del giorno seguente ripartimmo, tutto sembrava cambiato, c’era un po’ più di tranquillità, il sole era già alto e ci riscaldava togliendoci l’umidità che avevamo accumulato nella notte.
Ma eccoci un’altra volta fermi davanti ad un piccolo paese presidiato dai Cetnici dove non ci volevano lasciar passare; ci gridavano “traditori”. Io li guardavo in faccia e mi facevano pena. Le donne piangevano, forse sapevano che se noi fossimo andati via, loro avrebbero fatto una brutta fine.
Finalmente, dopo tante discussioni i Partigiani dissero che se avessero subito depositato le armi, li avrebbero lasciati in pace e così noi potemmo ripartire.
Fatti pochi chilometri ci fermammo ancora.
Nella nostra colonna c’erano un centinaio per lo più fidanzate di soldati ma assieme a loro c’era qualche spia. I partigiani fiutarono l’inganno e le passarono in rassegna; molte furono scoperte e furono mandate via. Altre si erano tagliate i capelli e vestite da militare con l’elmetto in testa la fecero franca.
Ripartimmo, il peso dello zaino si faceva insopportabile, in quanto all’interno avevamo messo quanta più roba possibile.
Improvvisamente risalendo una montagna vidi un mulo, gli caricai lo zaino sulla schiena e diventò il mio compagno di viaggio.
Ci fermammo a sera tarda. Riposammo sotto ad alcune piante, io non riusci a chiudere occhio in quanto ogni tanto si sentiva sparare.
Dopo mezzanotte corse voce che saremmo stati attaccati dai Cetnici, i quali, secondo le solite voci, non avrebbero voluto che noi avessimo attraversato il confine che ormai distava solo pochi chilometri.
Nonostante queste notizie, all’alba eravamo già in marcia e verso le dieci eravamo prossimi al confine.
Ci fermammo nuovamente. All’improvviso arrivò un aereo e noi temendo di essere attaccati ci nascondemmo sotto ad alcuni alberi, ma per fortuna fù un falso allarme e presto tornò la calma.
Passò qualche autocarro di partigiani, gli stessi che ci accompagnarono al confine e una volta compiuta la loro missione ritornarono indietro.
Correva voce che fino all’Isonzo comandavano i partigiani, ma girando una montagna non ci sarebbe stato nessun pericolo, infatti i partigiani slavi non assalivano, al contrario dei tedeschi, i soldati che rientravano in Italia, purché non creassero loro dei problemi.
Attraversato il confine, trovammo un posto di blocco partigiano dove davano da mangiare e dei vestiti, naturalmente ne davano a chi non ne aveva in quanto c’erano molti soldati bisognosi che arrivavano da molto lontano affamati e malmessi.
I primi che incontrammo furono le Guardie di Finanza, ma anche loro erano privi di notizie e così continuammo la marcia; faceva molto caldo e la sete ci tormentava. Ad un tratto vidi un piccolo laghetto, ed anche se era molto lontano non resistetti ed andai a vedere, il fondo era nero con appena un filo d’acqua, ma presi ugualmente la gavetta e misi nel fazzoletto quel pantano putrido e succhiai fino a che non mi dissetai.
Continuammo la marcia. Arrivammo ad un incrocio, distavamo 12 chilometri da S. Pietro del Carso, ma la colonna invece di marciare verso Trieste, prese la direzione di Fiume.
Con me non c’era nessun paesano, ma c’era un soldato di Modena che conoscevo da tempo.
Dopo una lunga discussione decidemmo di lasciare la colonna, ci infilammo fra le piante e marciammo verso Trieste.
Appena fatte due ore di cammino al mio compagno gli si gonfiò la faccia in modo impressionante. Lui avvilito mi disse che voleva rientrare nella colonna e ci sarebbe andato da solo, ma a me fece pena e temendo che da solo non ci arrivasse, lo accompagnai.
Raggiungemmo gli altri verso sera. All’alba mangiammo un po’ e ripartimmo.
         * * * * * *
Risalimmo la parete Nord del Monte Nevoso[8]fino oltre i mille metri di altezza, poi scendemmo la strada, la quale era abbastanza buona, vidi i pali che segnalavano i chilometri e controllando con l’orologio, calcolai che si marciava a 5 chilometri l’ora.
Percorremmo molti chilometri, ma non vedemmo altro che montagne, roccie e boschi, molti caddero dalla stanchezza , un ferito morì, facemmo una fossa per seppellirlo e poi continuammo la nostra marcia fino a quando arrivammo ad un fortino della Guardia di Frontiera.
Mi fermai e domandai se c’era qualche romagnolo, mi risposero che c’era uno di Cesena, e così mi fermai. C’era anche una persona di Meldola, mi diedero da mangiare una buona minestra calda e quasi un litro di vino.
Li ringraziai e partì come una freccia, mi sentivo in piene forze. Percorsi alcuni chilometri, raggiunsi i miei compagni che erano fermi a pochi chilometri da Erinsburgo.
Finalmente si vedeva il primo palmo di pianura e le prime case italiane.
Eravamo vicino ad una grande caserma, ci adattammo alla meglio e così ha fine la prima parte del lungo viaggio.
* * * * *
In questa zona ci fermammo due giorni. I comandanti fecero l’appello, tanti se ne erano andati. Il colonnello disse che dovevamo armarci prendendo le armi nei fortini della guardia di finanza, ma loro ci minacciavano, comunque riuscimmo a prendere un centinaio di mitragliatrici.
Verso sera la situazione diventò piuttosto tesa, correvano voci poco rassicuranti, alcuni scapparono.
Arrivò l’ordine di partire. Ritornammo al fortino dove mangiai il giorno prima, ma non trovammo più nessuno, e così verso le due potemmo riposare fino alla mattina seguente.
Nel pomeriggio, dopo aver preparato un bel po’ d’armi, ritornammo ad Erinsbugo. Anche qui tutti i soldati della Guardia di Finanza se ne erano andati ed anche tanti dei nostri.
Dopo poco, arrivò una staffetta, si diceva che portasse buone notizie, altri invece dicevano che ci avrebbero portati a Fiume dove c’erano i fascisti e ci avrebbero fatti prigionieri.
Io nel sentire ciò sarei voluto partire, ma nessuno volle seguirmi e così rimasi ma sempre di guardia.
Il giorno passò tranquillo. Alla sera dormimmo poche ore, perché sembrava che i tedeschi fossero poco distanti e si sentiva spesso sparare.
All’alba del giorno 15 facemmo i preparativi, io rifornì il mio zaino pieno di pasta, sale, olio e qualche pacco di sigarette.
I magazzini erano colmi di ogni ben di Dio, tanti bevvero talmente tanto che durante il cammino si sentirono male e rimasero isolati e distaccati. Così cominciò un’altra tappa.
Camminammo per mulattiere e strade tremende in direzione di Fiume. Arrivammo ad alta quota stremati, il peso dello zaino diventava insopportabile e per giunta ogni due ore dovevamo anche portare un pezzo della mitragliatrice. Marciammo fino a mezzanotte, e finalmente, dopo aver percorso un’infinità di chilometri ci fermammo.
Poco dopo ripartimmo. Scendemmo una mulattiera ad andatura abbastanza sostenuta, tanti si fermavano stremati, in certi momenti anch’io mi trovai in difficoltà a causa dell’enorme peso dello zaino, a tratti la vista mi si annebbiava, tuttavia cercavo di farmi coraggio e di resistere.
Verso le ore 3,00 risalimmo in alta quota fino a che arrivammo a Clana, un paesino che dista 25 km. da Fiume, e camminammo fra roccie e boschi fino alle otto del mattino. Ci fermammo in un boschetto vicino ad un villaggio, ci sdraiammo a terra sfiniti ed affamati.
Io andai in una casa dove mi ospitarono, ma dato che non avevano molto da offrirmi, divisi con loro anche i viveri che avevo nello zaino. Chiesi a loro quale fosse la strada più breve e sicura, e mi diedero una carta topografica molto interessante, in quanto vi erano segnate anche le strade secondarie ed i piccoli villaggi.
A mezzogiorno mi coricai un po’ e dormì fino a quando arrivò di nuovo il momento di ripartire verso quelle immense montagne dell’Istria.
Verso mezzanotte, ci sorpresero i partigiani e ci sequestrarono tutte le armi. La paura fù tanta, ma per fortuna se ne andarono subito.
A questo punto ci fù un gran caos, c’era che voleva proseguire e chi invece voleva dormire sotto alle piante.
Io continuai con un gruppetto di uomini, ma siccome camminavano lentamente li distaccai e proseguì da solo.
Mi trovai in cima ad una montagna, e mentre decidevo quale strada prendere, mi trovai davanti due giovani donne partigiane armate fino ai denti, vestite come ufficiali. Mi chiesero da dove venivo e dove ero diretto, dopo aver raccontato tutto mi chiesero se avevo delle sigarette, io gli diedi tutti e tre i pacchetti che avevo. Mi ringraziarono tanto e mi consigliarono di fermarmi con i partigiani, altrimenti sarei caduto in mano ai tedeschi, ma visto che io volevo proseguire, mi indicarono la strada giusta.
Scesi verso una valle fino ad arrivare in un paesetto dove una donna mi diede “l’alto là” ed in pochi minuti si radunarono una ventina di persone. Volevano armi, ma io non ne avevo, allora mi guardarono nello zaino e mi presero metà dei viveri che avevo e mi lasciarono proseguire: il coraggio era grande, ma la stanchezza era maggiore, e così all’alba mi sdraiai sotto ad una pianta e riposai per circa un’ora e poi ripresi la marcia.
Dopo qualche ora arrivarono dieci militari, due erano ufficiali, e proseguì con loro.
Verso le 14.00 attraversammo la buia ferrovia Trieste- Pola, dopodiché riposammo all’ombra di una pineta che distava circa 18 Km. da Trieste. Consultammo la cartina geografica e decidemmo di prendere una strada che passava molto a destra di Trieste, la strada era più lunga ma sicuramente più sicura.
I due Ufficiali, invece, decisero di passare dalla strada più corta che però passava molto vicino a Trieste, e secondo me era troppo pericoloso.
La maggioranza era d’accordo con me, ma quando i due Ufficiali partirono, li seguirono anche gli altri. Io ero titubante, ma poi decisi di seguirli.
Verso le 17,00 arrivammo ad un villaggio chiamato S.Servolo che distava circa 4 Km. in linea d’aria da Trieste. Dalla cima della collina si vedeva tutta Trieste col suo bel Golfo tutto azzurro e qualche nave nel porto: era una visione incantevole!!!
Mi fermai ad ammirare e tutto mi sembrava un sogno!!! Ero tutto sciupato, ma nel vedere ciò mi riempì di speranza e mi sentì forte, mi ripulì assieme agli altri, quando ad un tratto arrivò una donna che ci annunciò che stavano arrivando i tedeschi.
Io non le credetti, ma visto che tutti scappavano, lo feci anch’io. Ci rifugiammo in un cortile di un contadino ed andammo dentro una capanna dove c’era una cantina, tutti scesero. Io, che ero l’ultimo, dopo aver fatto alcuni scalini, ritornai su: si vede che il destino era proprio quello di salvarmi!
Aprì una porta ed uscirono delle galline tutte spaventate, mi voltai e vidi che nel cortile c’era una gabinetto ed allora mi rifugiai lì dentro.
Dopo pochi minuti arrivarono i tedeschi, li sentivo gridare e sparare raffiche di mitra a pochi passi da me.
Il cuore mi batteva talmente forte che sembrava impazzito. Pensai che ormai non avevo più speranza di salvarmi, ma nello stesso tempo non persi il coraggio.
Avevo in tasca un piccolo Santo, era S. Antonio da Padova che mi aveva dato mio padre prima di partire, lo misi sopra il battente della porta e pregai.
Mi sentivo tutto bagnato da sudore, chiudevo gli occhi e vedevo l’immagine del santo che anche nelle battaglie più pericolose mi aveva sempre protetto. Anche mio padre lo portò con se nella guerra del 1915-18 dove rimase ferito e prigioniero dei tedeschi, ma riuscì a fuggire ed a raggiungere i suoi compagni, e io dopo 25 anni mi trovai nelle stesse condizioni di mio padre.
Dopo un paio d’ore usci dal mio rifugio, andai a cercare i miei compagni ma non c’era più nessuno, i tedeschi li avevano fatti prigionieri. Così rimasi solo e triste per la sorte dei miei compagni.
* * * * *
La notte stessa decisi di attraversare le montagne che circondavano Trieste, ma dopo pochi passi, incontrai due vecchiette e mi supplicarono di non partire perché lungo la strada che avrei dovuto percorrere c’erano i tedeschi. Io decisi di continuare comunque, ma una di queste vecchiette mi si inginocchiò davanti piangendo e dicendo che mi stava parlando come una mamma, allora impietosito decisi di rimanere.
Mi rifugiarono in una casa, mi diedero da mangiare e mi prepararono un letto,e finalmente, dopo quasi 200 Km. fra le montagne, riposai in un letto.
La notte, nonostante la grande stanchezza, non riuscì a chiudere occhio. Verso le 5 del mattino andai fuori e guardai Trieste, si vedeva appena. Mi faceva male al cuore esserci così vicino e non poterci andare, diedi uno sguardo alla catena dei monti che dovevo attraversare, si intravedeva il biancastro delle roccie ed i boschi erano pochi. Sarei stato alla scoperto e troppo in vista ai tedeschi, infatti vidi le pallottole traccianti raffiche di mitra proprio dove dovevo passare io.
Tornai in casa, consultai la cartina geografica e capì che era troppo rischioso partire, ma ritornando indietro sulla sinistra, dopo una collina, ci sarebbe stata una pianura dove avrei potuto trovare una famiglia di contadini disposti a farmi lavorare almeno qualche giorno per poter mangiare e meditare sulla situazione perché al momento non era molto chiara.
Era ancora buio quando partì. Dopo tre ore di cammino arrivai nella piccola vallata in un paesetto chiamato Ospo, mi fermai in una casa e mi cambiai i vestiti, lasciai quelli militari per un paio di pantaloni tutti rappezzati ed una giacca tutta sporca di zolfo.
Mi indicarono una casa dove secondo loro avrebbero avuto bisogno e così andai, bussai alla porta e mi aprì uno vestito militare, gli chiesi lavoro e lui mi disse che avrebbe potuto tenermi anche per un mese.
Mi accompagnò nel campicello dove c’era una piccola vigna e tanti frutti, un bel prato dove dovevo pascolare due pecore ed un agnellino, dovevo vendemmiare e raccogliere il grano turco e tanti altri lavoretti.
Ritornammo a casa, gli consegnai tutto quello che avevo, e ci raccontammo le nostre avventure.
Lui era appena arrivato da Trento dove faceva servizio e prima di sera sarebbe partito per la montagna a far parte di una brigata di partigiani.
Il giorno seguente cominciai il mio lavoro, mi sembrava persino un sogno, lavoravo come un pazzo e con passione, ed anche se ero stanco, mi sentivo sereno e pieno di vita!!!
Il secondo giorno,era domenica e prima di andare al lavoro andammo alla S. Messa, la padrona mi diede il vestito di suo marito.
Dopo la messa andammo nella vigna, vennero anche alcune ragazze, una era la sorella della mia padrona, era una bella ragazza con gli occhi verdi, mi divertì molto a ridere e a scherzare, ma nel mio cuore non c’era posto per altro……… il mio pensiero era sempre rivolto alla mia casa ed alla mia famiglia che erano ancora molto lontano da me.
I giorni seguenti vendemmiai dal mio padrone, poi misi in ordine la cantina, raccolsi il granoturco e piano piano passavano i giorni, a forza di lavorare mi vennero i calli, mi ero rimesso bene, mangiavo bene e mi sentivo forte, ma tutte le notti, sognavo di essere a casa e al risveglio soffrivo molto, ma altre soluzioni non ce n’erano, del resto in quella casa mi trovavo bene ed al sicuro.
Circolava la voce che gli inglesi fossero sbarcati ad Ancona e Livorno e che Trieste sarebbe stata occupata dai partigiani.
Giorno e notte passavano i partigiani armati ed a pochi chilometri si sentivano sparare i cannoni e si seppe che Capodistria era in mano a i partigiani.
La domenica successiva, andai di nuovo a messa, nel pomeriggio volevano portarmi con loro in paese, ma io preferì restare a casa, ero più sicuro.
Nel frattempo arrivò il fratello del mio padrone, mi disse che da un momento all’altro poteva arrivare l’ordine di andare in montagna , ed anch’io,  piuttosto che farmi prendere dai tedeschi, sarei andato con loro.
Dopo qualche giorno arrivò anche il mio padrone,  si congratulò con me per tutto il lavoro che avevo fatto. Passammo qualche giorno assieme, e mentre lavoravamo ci raccontavamo le nostre avventure militari.
Lui era sfuggito da un bombardamento a Caserta ed un altro a Trento, dove rimase anche ferito, era stato due volte a Gaeta dove aveva scontato un anno di prigione.
Anche lumiera del parere che gli inglesi sarebbero sbarcati a Trieste.
Un giorno il mio padrone mi chiese se nessuno mi avesse domandato niente, io gli dissi di no, lui mi disse che al comando lo avevano rimproverato perché temevano che fossi una spia e che da un momento all’altro fossi fuggito, perché io vedevo tutti i cortei, le armi che passavano e tanti li conoscevo.
Io allora gli dissi che sarei partito anche subito, ma non ci fù nulla da fare, mi disse che avrebbe pensato a tutto lui e che io non mi dovevo muovere da quella  casa fino a quando fosse tutto finito.
Poi aggiunse: “Tu non verrai in montagna perché il tuo sangue è diverso dal mio, noi combattiamo il nostro ideale che è giusto e sacrosanto, se proprio non volessero che tu resti a casa mia, di giorno andresti nella mia grotta e mia moglie ti porterebbe da mangiare, e di notte verresti a casa a dormire”.
I giorni passavano lenti, di notte si sentiva sparare non molto lontano da noi. Un giorno passarono grosse formazioni da bombardamento, loro dicevano che erano gli inglesi che stavano per sbarcare, invece erano i tedeschi che bombardavano in montagna dove c’erano i partigiani.

                                         *****

Il mattino del 2 Ottobre alle nove circa, il nonno ed io andammo nel campo a lavorare. Ad un tratto arrivarono dei militari con l’autoblinda, chiesero il nome del paese e si fermarono.
Io, velocissimo, scappai su per un ruscello asciutto e continuai a salire per circa due chilometri fino a quando arrivai in un punto scoperto, c’erano solamente dei piccoli muretti di sassi. Mi fermai un attimo a guardare sotto, la strada era piena di autoblinde e di carri armati, in campagna c’era tanta gente, ma io non comprendevo bene cosa stesse succedendo, fino a quando capì che erano tedeschi. Ne vidi anche a 200 metri da me, e mentre scappavo alcuna pallottole mi sfiorarono tanto che io credetti di essere rimasto ferito. Mi buttai pancia a terra, feci qualche metro in ginocchio e mi diressi velocissimo tra i cespugli. Arrivò qualche altra fucilata, io ero stremato a forza di correre, allora guardai se potevo trovare qualche cespuglio fitto per nascondermi, e trovai un’insenatura stretta ma profonda, con un po’ di acqua e fango, mi infilai dentro, ruppi dei rami e li piantai sopra per rendermi meno visibile.
Dopo dieci minuti passarono i tedeschi, li sentivo camminare tra i rami e ogni tanto sparavano qualche colpo.

Piano piano tornò la calma, ma io restai nascosto quasi tre ore fino a quando non resistetti più dal freddo, allora uscì fuori e guardai verso il paese dove si vedevano case e capanne bruciare. Poco lontano da me passò una ragazza con un fascio di panni in testa e le chiesi se c’erano ancora i tedeschi, lei piangendo disse che erano andati via tutti, ed allora io andai verso la casa dei miei padroni.
Li trovai tutti spaventati e nel vedermi, piansero di gioia perché mi credevano morto. Mi cambiarono i vestiti e dopo un po’ arrivò anche il nonno che per la terza volta era andato a cercarmi e quando mi vide sano e salvo, mi baciò piangendo.
Decisi di partire la sera stessa……… ma non l’avessi mai detto!!!! Mi rimproverarono dicendomi che ero pazzo, allora io per accontentarli dissi che sarei partito la sera successiva, anche perché mi sentivo un po’ di febbre e mi faceva male la gamba che avevo tenuto nel fango fra due sassi.
All’indomani, essendo domenica, andai alla S. Messa, mangiai, e preparai tutto per la partenza. Passeggiavo nervosamente, ma il tempo non passava mai. Anche alcuni di Milano volevano partire, ma non di notte perché lo ritenevano più pericoloso e mi offrirono una forte somma in denaro per convincermi, ma io non cambiai idea, prima di tutto perché dei soldi non sapevo cosa farne e la mia vita era più importante, per me attraversare i monti di notte era certamente più sicuro che di giorno.
Alle ore 19.00 del 3 Ottobre partì, salutai tutti con abbracci, baci e lacrime. Anche i milanesi decisero di venire con me.
Ero deciso più che mai, portavo con me un sacchetto con carne e dolci che mi aveva preparato quella buona gente, il passamontagna e l’occorrente per la barba e nient’altro.
Rivolsi gli occhi al cielo dove brillavano già le prime stelle, e partimmo.
Attraversammo il paesetto ed andammo in una chiesetta a pregare e poi ci incamminammo verso la montagna. La notte era serena ma molto buia, soffiava una gelida bora ed il nostro percorso era in alcuni punti molto pericoloso, ma io restavo sempre vigile e calmo.
Dopo tanti saliscendi, ci inoltrammo in una fitta e buia boscaglia, non si vedeva nulla e ogni tanto urtavamo qualche ramo o roccia sporgente, era molto faticoso, ma a tutti i costi dovevamo continuare.
Usciti dalla pineta, scendemmo fra le piante, il percorso era meno faticoso , ma ad un tratto mi mancò il terreno da sotto i piedi, e precipitai per circa due metri e finì nel letto di un torrente che per fortuna era asciutto.
A mezzanotte passata arrivammo ad un villaggio, bussammo a qualche porta ma nessuno ci rispondeva, andammo poco più avanti in una casa c’era una luce accesa, bussammo e di nuovo non rispose nessuno, anzi,  spensero anche la luca. Allora io insistetti fino a che una voce tremolante disse: “chi è”. gli chiesi informazioni e mi rispose che l’unica cosa era quella di proseguire per una mulattiera dove alla fine ci sarebbe stata una grotta e ci potevamo rifugiare fino al mattino, comunque dovevamo stare molto attenti perché i tedeschi fermavano tutti.
Gli altri due fecero il piano di restare nella grotta perché erano stanchi e preoccupati, io invece non persi tempo e proseguì e poco dopo anche loro mi raggiunsero.
Salimmo una montagna rocciosa e fitta di cespugli spinosi e come al solito le caviglie ci sanguinavano. I miei compagni, stanchi di camminare tra quei cespugli, volevano proseguire per la strada asfaltata ma io no non volli perché era troppo pericoloso, così proseguimmo per la montagna.
Ad un certo punto, ci trovammo di fronte a tanti mucchi di fieno, ma da uno di essi, vidi un chiarore ed allora scappammo subito, … per fortuna…, all’indomani venimmo a  sapere che lì erano accampati le SS tedesche. [9]
Camminammo fino alle sei del mattino e dopo quasi 11 ore di cammino tortuoso, nonostante ci fosse un vento gelido, dormimmo circa due ore.
Fummo svegliati da raffiche di mitra sparate da poco lontano, mi alzai e vidi che eravamo appena a mezzo chilometro da una stazione ferroviaria dove c’erano i tedeschi.
Camminammo in ginocchio fino alle prime case e nessuno ci voleva vicino a casa, perché dicevano che se i tedeschi ci avessero trovato, avrebbero bruciato la casa. Alcune donne piangevano perché dicevano che avevano portato via i loro uomini ed anche i ragazzi di 16/17 anni.
Ci dissero che eravamo dei pazzi , in quanto i tedeschi erano da tutte le e noi non saremmo riusciti a superare la montagna .
Non ci perdemmo mai d’animo e continuammo la nostra marcia fra rocce e boschi. Ad un certo punto c’era cuna strada asfaltata da attraversare e così uno alla volta e di corsa l’attraversammo e ci allontanammo velocemente, ma fummo visti da un autocarro armato e ci sparò contro qualche raffica di mitra, ma per fortuna riuscimmo a trovare riparo dietro ad alti massi.
Passammo di fronte ad alcune case , dove ci dissero che stavamo andando verso una polveriera, e così dovemmo cambiare direzione, di nuovo fra sassi e spini; si faceva poca strada ma tanta fatica fino a mezzogiorno passato. Finalmente arrivammo in una vallata  dove c’era un paesetto,qui ci dividemmo, perché i miei compagni erano stanchi a decisero di fermarsi, mi ringraziarono tanto per il mio coraggio e dissero che senza di me non sarebbero mai arrivati fino lì. Così continuai il viaggio da solo.
Dopo una decina di silometri, arrivai in un paesetto dove incontrai altri soldati, due di loro proseguirono con me. Percorsa poca strada, incontrammo una donna che ci chiese se volevamo del latte caldo. Avevo lo stomaco gelato e non mi sembrava vero poter ingerire qualcosa di caldo.
Mentre il latte si scaldava, la donna disse che anche in quella zona avevano fatto dei rastrellamenti ed avevano ucciso parecchi militari e civili.
Ad un tratto bussarono alla porta ed una strana voce chiamò, noi tre cercammo di nasconderci, io riuscì ad infilarmi sotto ad un letto, però gli altri due vennero trovati e catturati.
Scappai fino a che arrivai in paesetto a pochi silometri da Se sana, nessuno mi voleva ospitare perché anche qui regnava la stessa legge, ma trovai una vecchietta che era sola, nel frattempo capitarono altri tre soldati e allora ci ospitò tutti a casa sua, ma abitava in una casa vicino ad una strada un po’ pericolosa e così preferimmo dormire nel pollaio con un po’ di foglie secche per materasso.
C’era una piccola osteria dove trovammo altri militari e un ragazzino che alla mattina alle 4 ci avrebbe fatto strada, in quanto lui era pratico del posto, e fra Se sana ed un altro paese c’erano molte pattuglie tedesche e dovevamo attraversare la strada provinciale e la ferrovia.
Pagammo questo ragazzetto e disse che pensava lui a svegliarci.
Alle 4 puntuali, partimmo, il ragazzetto davanti e noi dietro a fila indiana. Dopo aver scavalcato alcuni muretti, riuscimmo ad attraversare la ferrovia, poi a pochi passi la strada Trieste- Postumia, ed eravamo appena ad un chilometro da Sesana, quando sentimmo un rumore, ci fermammo tutti di colpo ma era un falso allarme. Salutammo quel coraggioso ragazzino e proseguimmo da soli, gli altri compagni erano tutti più anziani di me, avevano un buon passo, ma erano molto indecisi sul datarsi, allora io presi il comando.
Incontrammo alcune persone le quali ci dissero che azzardavamo troppo, ma ormai era tutto deciso, a tutti i costi dovevamo uscire da quell’inferno.
A mezzogiorno divisi con loro tutto ciò che avevo rimasto nello zaino, e poi proseguimmo fra colline e villaggi, passammo da un villaggio tutto bruciato e ci vennero dietro due caprette che non facevano altro che belare, non contava tirargli sassi né corrergli dietro per cacciarle e ci seguirono fino ad un paesetto dove le barattammo con un bicchiere di vino.
Proseguimmo e poco dopo fummo sulla Provinciale Monfalcone-Gorizia dove incontrammo una lunga autocolonna di tedeschi, non so se fummo avvistati, ma spararono all’impazzata verso di noi che però eravamo ben riparati, e così anche questa volta riusci a salvare la pelle!!
Ormai scendeva il sole e cominciammo a lasciare le colline, dopo qualche saliscendi, arrivammo a Doberdò. La prima cosa che notammo, fù un grande monumento, era il cimitero di Redipuglia.
Dopo aver attraversato una strada asfaltata, ci trovammo in vista del fiume Isonzo ed arrivammo nel paesetto di S. Pietro d’Isonzo.
A 100 metri dal fiume, chiedemmo fosse stato possibile attraversare la sera stessa, ma ci dissero che era impossibile
Trovammo un contadino disposto ad ospitarci, ci preparò da mangiare e da dormire. Finalmente dopo sedici ore di marcia potemmo riposare. Ero stanco, tuttavia durante la notte non chiusi occhio.
All’alba ripartimmo, arrivammo alle sponde del fiume, ma l’acqua era alta ed era impossibile attraversarlo. Di noi quattro solamente uno era capace di nuotare, ma neppure lui ci riusci, perché la corrente era troppo forte.
Provammo in altri punti, ma niente. Sul ponte c’erano i tedeschi ed avevano sequestrato tutte le barche.
Ad un tratto, dall’altra parte del fiume, un uomo stava attraversando, ci andammo incontro, e lui ci indicò i punti dove dovevamo passare.
Ci svestimmo  ed i panni li mettemmo attorno al collo ed incominciammo l’attraversata.
L’acqua ci arrivava più o meno al ginocchio, in alcuni punti alla coscia, e proprio al centro del fiume, alla pancia.
Così, piano piano ed a denti stretti, quasi congelati in quanto l’acqua era gelida, riuscimmo ad arrivare dall’altra parte del fiume.
Proseguimmo la nostra marcia. Camminavamo così bene che sembrava di passeggiare, non c’erano più rocce, né boschi e quei burroni tanto pericolosi e nemmeno più l’insidia dei tedeschi.
Sembrava di essere arrivati solo allora nella nostra bella Italia.
Verso mezzogiorno,passammo alla sinistra di Palmanova, ed arrivammo a casa di uno dei tre compagni di viaggio, ci ristorammo bene, gli altri due si scambiarono il vestito da militare e con un fiasco di vino ripartimmo per le belle campagne friulane.
A tarda sera ci fermammo in una grande villa dove ci diedero da mangiare e dormire. Una signora di Roma, sfollata, ci consigliò di arrenderci ai tedeschi, ma noi non l’ascoltammo, perché dopo tanta strada percorsa ed affrontato mille pericoli, eravamo decisi più che mai a portare a termine il viaggio.
Riposammo in un fienile, ma non riuscimmo a dormire molto in quanto eravamo preoccupati che quella signora facesse la spia.
All’alba ci mettemmo di nuovo in viaggio, verso le ore 11,00 con una barca attraversammo il Tagliamento. Passammo per alcuni paesi fino a che, dopo avere per 50 chilometri, stanchi morti, ci fermammo in un casolare a riposare.
All’alba del giorno successivo ci mettemmo subito in cammino lungo l’immensa pianura padana che sembrava non avesse mai fine, verso mezzogiorno dovemmo spostarci molto perché ci informarono che c’erano i tedeschi. Quella zona era molto pericolosa anche nelle strade secondarie perché giravano pattuglie tedesche in bicicletta in cerca di prigionieri inglesi ed americani che erano fuggiti dal campo di concentramento l’8 Settembre.
Noi proseguimmo senza troppe difficoltà, ed arrivati in una borgata, una signora chiese il mio indirizzo per poter scrivere alla mia famiglia ed annunciare il mio ritorno.
Alle ore 15,00 attraversammo il fiume Ivenza, l’unico che attraversammo sul ponte. Passando di paese in paese incontrammo tantissime donne, alcune in lacrime, che ci chiedevano notizie, forse avevano il figli, i mariti ed i fratelli in guerra, ed a me piangeva il cuore, perché pensavo a mia madre che probabilmente stava facendo la stessa cosa chiedendo di me ai militari che passavano.
   Al tramonto, dopo aver percorso 45 chilometri, ci fermammo in un villaggio che distava circa 200 metri dallo storico fiume Piave, qui ci dissero che non c’era tanto pericolo. Durante la notte riposammo un po’, ed all’alba, con un battello attraversammo il Piave.
   Percorsi circa 5 chilometri, incontrammo una vecchietta che con una voce sottile ci chiamò, l’aspettammo, ed arrivata a noi, mi prese per un braccio e ci disse di seguirla per un viottolo,e lacrimante ci disse che se avessimo proseguito saremmo stati presi dai fascisti e poi consegnati ai tedeschi, perché per ogni soldati consegnato prendevano un premio.
   Ringraziammo l’anziana signora per averci salvato,e proseguimmo. Verso l’una di notte passammo a sud di Treviso e ci fermammo oltre 25 chilometri, riposammo e di nuovo allo spuntar del sole, ci mettemmo in marcia.
Era la domenica del 10 ottobre, in una notte e 8 giorni precisi, avevamo percorso oltre 250 chilometri, forse i più brutti ed i più pericolosi, ma per quelle belle strade venete, marciavamo spediti e pieni di speranza.
Arrivammo nelle vicinanze di Padova. Vidi le cupole di Padova, e riconobbi bene il bel Santuario di Sant’Antonio che portavo in tasca e che è stato il compagno di viaggio e protettore prima di mio padre nella grande guerra ed ora il mio.
Mi sarebbe piaciuto entrare e pregare il Santo, ma purtroppo era impossibile.
Lasciammo Padova e proseguimmo in direzione di Monselice dove sapevo che vi abitava una mia zia. Camminammo sulla destra del canale navigabile Monselice-Padova, alla sinistra c’era la strada statale dove c’erano tanti autocarri tedeschi, ma noi eravamo al sicuro perché non c’erano ponti per poter attraversare.
Incontrammo un signore a cavallo che ci chiese dove fossimo diretti ed aggiunse che se al mattino alle 9.00 ci fossimo trovati in piazza a Monselice, ci avrebbe nascosto fra le ceste di pollame ed alla sera saremmo arrivati a Bologna. Allora camminammo fino a notte fonda ed al mattino presto eravamo già in cammino.
Mancavano ancora 10 chilometri a Monselice e dovemmo passare un paesino chiamato Battaglia dove c’erano i tedeschi, ma per fortuna andò tutto bene.
Alle otto arrivammo alle porte di Monselice ed anche lì c’erano i tedeschi e i fascisti. A questo punto ci dividemmo. Uno dei miei compagni mi invitò ad andare a casa sua dove mi avrebbe ospitato fino a quanto avessi voluto, ma io con rammarico non accettai, a tutti i costi volevo arrivare a casa.
In ogni modo, se non avessi trovato la strada, prima del Po ci abitava mia nonna ed al limite mi sarei fermato da lei.
Andai in una casa e domandai di mio zio, sapeva solo il nome e che non abitava in un paese, ma non ricordavo nient’altro. Allora una signora fu tanto gentile ed andò all’anagrafe ma non lo trovò; poi mi ricordai che lo zio faceva mercato con un autocarro, ed andai al mercato, ma neanche qui lo trovai. Mi feci dire i nomi dei paesini circostanti, ma tutto fù inutile, non mi venne proprio in mente nulla.
A questo punto, decisi di andare dalla nonna a Mantova che distava circa 100 chilometri.
Appena fuori dal paese, vidi un autocarro tedesco venirmi incontro, saltai in un fosso e rimasi nascosto fino a che passò, ripresi la marcia e non mi accorsi che mi era entrato un sassolino nella scarpa e continuai a camminare fino a quando mi dovetti fermare e guardare nella scarpa, mi ero addirittura fatto una piccola vescica, proseguì zoppicando leggermente ma sempre con andatura sostenuta.
La sera dormì vicino ad Este ed all’alba come al solito ricominciai la marcia ed arrivai in un paesetto dove mi dissero che era pericoloso, ed un uomo molto gentile mi diede una bicicletta per fare più in fretta, Ma dopo pochi chilometri scoppiò una gomma.
Verso le 11 con una barca attraversai il largo fiume Adige a circa tre chilometri da Legnago.
Verso mezzogiorno incontrai un uomo e mi invitò a mangiare a casa sua, mi raccontò che aveva una sorella a Bertinoro e che anche lui era stato più volte vicino a casa mia, ed in mio onore aprì una bottiglia di albana. Insistette perché rimanessi da lui, ma spiegai che non era possibile, ed allora alle 17,00, ripresi il viaggio e mi fermai Vicino ad Ostiglia che distava 30 chilometri dalla casa di mia nonna.
Al mattino, ancora buio, ripresi il cammino, ogni paese che passavo mi tornavano in mente i racconti di mio padre di quando era giovane in riferimento a quei posti.
A mezzogiorno mangiai un boccone camminando, fino a quando arrivai alle risaie.
Mi sentì chiamare, c’erano un centinaio di donne che raccoglievano il riso, avevano dei larghi cappelli di paglia e mi dissero di non proseguire perché c’erano i tedeschi.
Mi domandarono dove fossi diretto e io risposi che dovervo arrivare a S. Lucia.
C’erano tante donne di quel paese e mi chiesero da chi andavo e risposi dalla nonna, ed una di quelle donne, disse che mi conosceva, e che da piccolo mi aveva tenuto tante volte in quanto era un amica di mia mamma.
Chiamò una ragazza per accompagnarmi, ed aveva una bicicletta da donna, caricai la ragazza sul manubrio ed andammo verso la casa della nonna.
Finalmente arrivammo all’incrocio che si immetteva nella Provinciale Mantova- Verona, dove all’angolo c’era la casa della nonna. Con immensa gioia vidi che era nell’orto, mi vide anche lei ed esclamò stupita:” E’ una visione o sei proprio tu?!”
Mi abbracciò con gioia ancora incredula di vedermi. Mi fece entrare in casa( la casa della nonna era chiamata “ La Corte”), mi diede da mangiare e mi preparò un bel letto comodo dove finalmente avrei potuto riposare tranquillamente.
Qualche giorno dopo, una ragazza di nome Maria mi portò a casa sua e mi mostrò una stanza nella quale il 26 Giugno del 1922 nacqui io.
Maria fù molto carina e gentile con me, tanto che, complice l’emozione e la gioia di trovarmi finalmente più al sicuro, riuscì ad abbandonarmi fra sue braccia e di qui nacque un sentimento dolcissimo.
Ma purtroppo durò poco, in quanto 10 giorni dopo, dovetti lasciare la casa della nonna.
Una signora, amica di mia mamma, riuscì a procurarmi un permesso scritto in tedesco che mi permetteva di tornare a casa.
Mi dovevo muovere con molta prudenza perché Mantova era piena di Fascisti.
Riuscì a prendere il treno, il viaggio fù rocambolesco. Mi fecero scendere prima di Bologna perché la stazione era stata bombardata, ed allora proseguì con mezzi di fortuna.
* * * * * *
Finalmente arrivai a casa, era il 25 Ottobre del 1943.
Era una giornata piena di sole, ma il sole più grande era nel mio cuore per la gioia di poter riabbracciare i miei cari sano e salvo.
* * * * * * *
 Scritto il 30 ottobre 1943




[1] Il famoso corpo Cacciatori delle Alpi, nato il 4 maggio 1859 e all’epoca, affidato al comando di Giuseppe Garibaldi, durò sino all’8 settembre 1943, data in cui si sciolse, in Jugoslavia, nella zona di Lubiana, a seguito degli eventi determinati dall’armistizio.
[2] Basovizza.
[3] 8 settembre 1943: Pietro Badoglio, nominato generale il 25 Luglio 1943 dopo l’arresto di Mussolini da parte del re, annunciò tramite la radio l’accoglimento dell’armistizio richiesto alle forze anglo-americane. Mentre la notizia veniva divulgata, il re, la corte, l’intero stato maggiore e lo stesso Badoglio fuggivano da Roma dirigendosi verso sud. I tedeschi, che già da tempo si aspettavano questa mossa, passarono immediatamente al contrattacco, come era già previsto nei loro piani.
[4] Dopo la resa dell’Italia agli alleati la confusione all’interno dell’esercito fu totale. Badoglio, Il sovrano e lo stato maggiore, nella fretta di mettersi in salvo, dimenticarono di emanare gli ordini necessari. I battaglioni abbandonati in territorio nemico (ora amico) rimasero in balia degli ex alleati tedeschi, senza sapere che misure adottare nei loro confronti.





[5] Prendono il loro nome da “ceta” che significa “formazione” . Il verbo “cetovare”, che deriva da questo nome, indica “guerreggiare con scorrerie” e spiega la tattica militare utilizzata da questi combattenti. Il movimento nazionalista dei Cetnici nasce con lo scopo istituzionale di combattere le forze occupanti (Italiani e tedeschi). Ma con il proseguire della guerra, i dissidi con le altre forze partigiane comuniste spinsero i Cetnici all’intesa con le forze nazifasciste.
[6] Partigiani comunisti, al comando del maresciallo Tito. Il croato Josip Broz, più noto con il nome di battaglia di Tito, segretario del partito comunista Jugoslavo e dal 1943 nominato Comandante dell’esercito Popolare di Liberazione con il beneplacito di Mosca.
[7] Dopo l’8 settembre 1943 un’ampia zona del nord Italia passerà sotto il controllo diretto del Reich tedesco ed il 15 ottobre, per volontà di Hitler, questi territori saranno annessi al Reich con il nome di “Voralpenland” (“territorio delle Alpi”) formato dalle province di Bolzano, Belluno e Trento e di ”Adriatisches Kustenland” (“litorale adriatico”) formato invece dal territorio di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana.
[8] E’ la vetta più alta del territorio alle spalle di Trieste (1796 metri).
[9] Schutzstaffel: in tedesco significa “corpi di protezione” abbreviato con SS. Un’unità paramilitare, nata 1925 (assoldando uomini tra le fila delle Squadre d’Assalto (SA), 1°gruppo paramilitare del partito nazista) per formare la guardia del corpo di Hitler. Nel 1929 le SS contavano solo 280 uomini, nel 1933 contavano già 209.000 uomini. Il loro motto era “il mio onore è la lealtà”. Durante la seconda guerra mondiale combatterono a fianco dell’esercito regolare tedesco. Violente, crudeli ed estremamente efficienti, il loro nome era sufficiente ad infondere paura.