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Contro tutti e tutto. I soldati Italiani nei Balcani nel 1943

Il Volume "La Divisione "Perugia" Dalla Tragedia all'Oblio" è disponibile in tutte le librerie. ISBN 886134305-8, Roma, 2010, Euro 20,00 pag. 329.



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Un Triste destino per la Divisione "Perugia"

Un Triste destino per la Divisione "Perugia"
La Divisione "Perugia" avrebbe avuto miglior sorte se Informazioni ed Intelligence avessero trovato più ascolto presso i Comandi Superiori

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domenica 2 gennaio 2011

Relazione

Il Consiglio della Corona dell’8 Settembre 1943, nelle memorie del maggiore Luigi Marchesi
e nelle motivazioni
del Maresciallo Pietro Badoglio e di S. M. il Re Vittorio Emanuele III

Riccardo Scarpa

Il Consiglio della Corona, convocato da S. M. il Re Vittorio Emanuele III, alle cinque e mazza pomeridiane dell’8 Settembre 1943, nella sala Don Chisciotte del Palazzo del Quirinale, nel quale verrà deciso di dare notizia dell’armistizio firmato a Cassibile da parte del Generale Giuseppe Castellano e del Generale Walter Bedell Smith, e gli eventi che hanno immediatamente preceduto la riunione, condizionandone l’esito, e ne sono seguiti, costituiscono tasselli imprescindibili per ricostruire esattamente un momento determinante nella Storia d’Italia. Eventi, peraltro, descritti solo da testimonianze dei presenti, con tutti i limiti che tale fonte pone. La descrizione più dettagliata è senza dubbio contenuta nella testimonianza dell’allora Maggiore Luigi Marchesi, in servizio allo Stato Maggiore del Regio Esercito, proveniente dagli Alpini. Figlio d’un Colonnello del Regio Esercito, era entrato nella Regia Accademia di Fanteria e Cavalleria nel 1928. Sottotenente nel 1931 ed inviato al 3° reggimento Alpini sulle Alpi occidentali, alpinista ed istruttore di sci, ammesso alla Scuola di Guerra a ventisette anni, nel 1940 era stato inviato in missione al Comando Supremo della Wermacht, per la sua conoscenza della lingua tedesca, sulla linea Maginot. Dallo scoppio della guerra era stato, per ben tre anni, col Generale Vittorio Ambrosio, che aveva seguito all’ufficio operazioni della 2ª Armata, allo Stato Maggiore del Regio Esercito, al Comando Supremo, ed a Cassibile, col Generale Giuseppe Castellano, durante la fase conclusiva del negoziato per l’armistizio. Il Marchesi ha pubblicato, su questi eventi, due memorie: Come siamo arrivati a Brindisi, uscito per i tipi della Bompiani nel 1969, e: 1939-1945 – Dall’impreparazione alla resa incondizionata, edito da Mursia nel 1993. Il Generale Enrico Boscardi, Direttore del Centro Studî e Ricerche Storiche sulla Guerra di Liberazione, nel presentare quest’ultima pubblicazione del Marchesi, il 17 Giugno del 1993, in Palazzo Barberini, ha evidenziato alcuni elementi essenziali, sull’oggetto che ci concerne. Il Maggiore Luigi Marchesi era rientrato a Roma il 5 di Settembre del 1943, da Cassibile, per riferirne al Generale Vittorio Ambrosio, e consegnare, oltre ad una lettera del Gen. Giuseppe Castellano che accompagnava il testo dell’armistizio e delle clausole aggiuntive, un biglietto del Gen. Bedell Smith pel Maresciallo Pietro Badoglio e due pro memoria, per i Capi di Stato Maggiore della Regia Marina e della Regia Aeronautica e, per il SIM, l’Ordine di Operazioni per la 82ª divisione airborne degli Stati Uniti d’America, cioè il piano della famosa operazione GIANT DUE, colla quale quella divisione americana avrebbe dovuto essere aviotrasportata a Roma, il giorno stesso della pubblicazione dell’armistizio, per garantire la difesa della Capitale del Regno d’Italia dalle forze germaniche. Il successivo 7 Settembre giunsero a Roma il Gen. Maxwell Taylor ed il Col. William Tudor Gardiner per verificare la fattibilità dell’operazione GIANT DUE. Essi vennero ricevuti dal Col. Salvi e dallo stesso Marchesi. Questi assicurò al Gen. Taylor che i campi d’aviazione erano, con tutta probabilità, stati preparati per l’atterraggio dei velivoli che avrebbero dovuto trasportare la 82ª divisione aerotrasportata nordamericana. Infatti i relativi ordini erano stati impartiti allo Stato Maggiore della Regia Aeronautica il giorno 5. Perciò suggerì un’incontro col Gen. Giacomo Carboni, nella sua veste di Comandante del Corpo d’Armata Motorizzato, dal quale avrebbe dovuto dipendere la 82ª divisione aerotrasportata nordamericana durante l’operazione GIANT DUE, secondo gli accordi di Cassibile. Il Gen. Maxwell Taylor, tra l’altro, informò il Magg. Luigi Marchesi che «l’indomani notte saranno lanciati i paracadutisti e subito dopo gli aerei cominceranno ad atterrare». Egli aggiunse che, sempre l’indomani, 8 Settembre, sarà, contestualmente, il giorno dell’operazione Avalanche, cioè dello sbarco, ed il giorno in cui il Maresciallo Pietro Badoglio dovrà divulgare l’armistizio. Ciò malgrado il Marchesi avesse fatto presente all’ospite che il Comando Supremo non s’attendeva tale comunicazione prima di quattro o cinque giorni. Tuttavia, come ribatté il Taylor, l’armistizio di Cassibile non predefiniva alcuna data. Sopraggiunto il Generale Giacomo Carboni, questi volle parlare col Gen. Maxwell Taylor senza il Marchesi dichiarando, alla fine:«tutto aggiustato, adesso andiamo da Badoglio». Il Gen. Giacomo Carboni, dopo un colloquio col Gen. Maxwell Taylor ed il Col. William Tudor Gardiner ed un secondo colloquio a Villa Italia, residenza del Maresciallo Pietro Badoglio, indusse quest’ultimo a firmare un telegramma pel Gen. Dwight D. Eisenhower che chiedeva di ritardare la proclamazione dell’armistizio e cancellare l’operazione GIANT DUE: «dati cambiamenti e il precipitare situazione ed esistenza forze tedesche zona di Roma». Forze che renderebbero, a detta del Carboni, impossibile l’operazione della 82ª divisione paracadutisti, in quanto non ci sarebbero state forze sufficienti per garantire gli aeroporti. Solo dopo il messaggio di risposta del Gen. Dwight D. Eisenhower, che intima al rispetto degli impegni assunti e minaccia, in caso contrario, di far conoscere a tutto il mondo l’«affare», viene avvertito, dal Ministro Acquarone, S. M. il Re, che dispone immediatamente la convocazione del Consiglio della Corona per le ore cinque e mezza pomeridiane, nella sala del Don Chisciotte. Sono presenti il Capo del Governo Maresciallo Pietro Badoglio, il Capo di Stato Maggiore Generale Vittorio Ambrosio, il Ministro della Guerra Generale Antonio Sorice, il Ministro della Regia Marina Ammiraglio Raffaele De Courten, il Ministro della Regia Aeronautica Gen. Renato Sandalli, il capo del SIM, Gen. Giacomo Carboni, il Sottocapo di Stato Maggiore del Regio Esercito De Stefanis, in rappresentanza del Gen. Mario Roatta, Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito, impegnato in un colloquio col Gen. Westphall, l’Aiutante di campo di S. M. il Re Paolo Puntoni, ed il detto Magg. Luigi Marchesi. In quella sede il Gen. Giacomo Carboni, che aveva mandato a casa il Gen. Maxwell Taylor ed il Col. William Tudor Gardiner dopo aver di fatto annullato l’operazione GIANT DUE, attacca violentemente il Generale Giuseppe Castellano, la sua conduzione del negoziato per l’armistizio, tace ogni cosa sull’operazione GIANT DUE, che aveva rifiutato senza avvisare nessuno, e propone di sconfessare Capo del Governo, Capo di Stato Maggiore Generale, il Gen. Giuseppe Castellano, e di ritrovare immediatamente un’intesa coi germanici, e riconfermare l’alleanza dell’Asse e la volontà di proseguire la guerra al fianco del Terzo Impero Germanico nazionalsocialista. Il Magg. Marchesi, che era stato chiamato fuori dalla sala, vi rientra per dare la notizia che Radio Algeri, alle ore sei e mezza pomeridiane, aveva diffuso la proclamazione dell’armistizio col Regno d’Italia, sia col messaggio del Gen. Dwight D. Eisenhower che colla traduzione in Inglese del messaggio del Maresciallo Pietro Badoglio. Il Gen. Giacomo Carboni, a questo punto, riprese a parlare sostenendo che ciò non cambiava nulla nella sua proposta. Viene, però, interrotto dal Maggiore Luigi Marchesi, che inizia: «con una precisa esposizione degli accordi intervenuti con il Comando Alleato dopo la firma dell’armistizio, illustrai – egli prosegue – l’importanza che gli anglo-americani annettono alla nostra collaborazione militare. Essa soltanto, ed in misura della sua entità, avrebbe potuto cancellare la durezza delle clausole armistiziali». E proseguì:«La anticipazione dell’armistizio da parte degli alleati era per noi una dolorosa sorpresa. A rigore, però, gli alleati erano nei termini degli accordi, perché la data ipotetica del 12, indicata dal Gen. Castellano, (…) era frutto di una deduzione del generale stesso (…) Era stato un errore non dare credito alla comunicazione del Gen. Taylor e, peggio ancora, illudersi circa la possibilità di ottenere una proroga. Parlare di tradimento da parte degli anglo americani, come il Gen. Carboni aveva appena accennato, era assurdo (…) Non mantenere fede agli accordi presi e firmati avrebbe costituito storicamente un indelebile macchia di disonore per l’Italia. La firma dell’armistizio da parte del delegato italiano il giorno 3 era stata fotografata e cinematografata da giornalisti, fotografi e curiosi. Il testo del proclama che doveva subito, senza ulteriori ritardi, essere diramato dal Maresciallo Badoglio, si trovava nella sua stesura integrale nelle mani degli Alleati. C’era da aspettarsi, ritardando ancora, che ne dessero essi stessi lettura dalle loro stazioni radio (come, infatti, fecero). Dissi che qualora non avessimo mantenuto gli impegni presi, potevamo contare con tutta sicurezza su una vastissima reazione alleata. Raccontai che il Gen. Alexander ci aveva accolti a Cassibile, dopo aver saputo che il Gen. Castellano non aveva ancora la delega per firmare l’armistizio e come egli ci aveva fatto sapere che, sui campi dell’Africa settentrionale e della Sicilia, era concentrata la più grossa formazione da bombardamento che mai si fosse avuta durante la guerra. Il bombardamento aereo tedesco della città ci sarebbe, forse, stato; niente tuttavia, in confronto a quello che certamente avremmo potuto subire dagli anglo americani». Dopo un silenzio degli astanti, il Gen. Giacomo Carboni tentò di riprendere la parola, ma Sua Maestà il Re glielo impedì, con un gesto perentorio, si alzò, il Consiglio era sciolto. Uscirono tutti, tranne il Capo del Governo. Il Sovrano decise con rapidità; dopo qualche minuto uscì anche il Maresciallo Pietro Badoglio, e dichiarò: «Il Re ha deciso che l’armistizio venga proclamato secondo gli accordi». Chiese, quindi, al Gen. Vittorio Ambrosio da dove potesse trasmettere l’annuncio alla Nazione e, poiché non era stato installato al Quirinale nessun impianto per trasmissioni radiofoniche, come avrebbe dovuto essere installato per chiare disposizioni date al Gen. Carboni, si recò alla sede dell’EIAR, in via Asiago. Sul contesto nel quale si svolse il Consiglio della Corona l’8 Settembre del 1943, e sulle necessitate decisioni operative che ne seguirono, così ebbe ad esprimersi il Maresciallo Pietro Badoglio, pochi giorni dopo lo sbarco a Brindisi, parlando a Limone delle Puglie: «Mi si fa colpa di avere tardato a concludere l’armistizio. Cosa questa ingiusta, poiché è evidente che per addivenire ad una conclusione bisognava prima che aderisse anche l’altra parte: e sino al 3 Settembre noi non abbiamo avuto il consentimento alleato. Una semplice dichiarazione di resa, umiliante, ossia soltanto da parte nostra, ci avrebbe consegnato in pieno potere ai tedeschi senz’alcuna speranza di aiuto da parte degli anglo-americani ancora ben lontani da Roma […] Proclamato l’armistizio, subito le divisioni germaniche stanziate nei pressi della capitale si mossero contro la città, e, per cause che saranno a suo tempo appurate, dopo qualche episodio di eroica resistenza, la difesa crollò. Non era più possibile rimanere a Roma senza cadere nelle mani dei tedeschi (cioè, senza lasciare l’Italia priva di un governo legittimo); perciò, tutta la famiglia reale, io, e i ministri che avevo potuto avvertire, ci recammo a Brindisi, passando per Tivoli e Pescara» . Sua Maestà il Re, Vittorio Emanuele III, così descrive il contesto e le decisioni da Lui prese in base a quel Consiglio della Corona: «La sera dell’8 Settembre le divisioni tedesche che si trovavano nei pressi della capitale, mossero verso Roma. Se il lancio dei paracadutisti alleati nei dintorni della città avesse avuto luogo, oppure se lo sbarco ad Anzio fosse avvenuto l’8 Settembre, né il governo, né tantomeno il Re e la famiglia reale, si sarebbero mossi da Roma. Invece, rimanere prigionieri nella capitale, significava lasciare l’Italia priva del capo dello Stato e del governo legittimo, od unicamente con un governo illegittimo alla mercé dei tedeschi. […] Nulla di glorioso, ha detto qualcuno? Ma sembra che alla gloria un Re debba saper rinunciare quando l’interesse del Paese esige che egli operi in libertà e con vantaggio per la Nazione. Rimanere a Roma sarebbe stato fare la fine del reggente Horthy che i tedeschi costrinsero a dire alla radio il contrario di quanto spontaneamente espresso qualche giorno prima. Se nel 1940 gli inglesi fossero rimasti a Dunkerque per morire tutti sul posto, avrebbero scritto una pagina evidentemente più gloriosa, ma inutile, o ben poco utile, mentre gli stessi soldati servirono molto meglio dopo, quando l’esercito britannico, ricostituito, passò all’offensiva. Quindi, non fuga, né rifugio all’estero, per me, ciò che sarebbe stato abbandonare la Patria. Se mi recai col governo a Brindisi, cioè in una parte libera del suolo della Nazione, fu per creare in piena libertà un governo legittimo, ricostruire un esercito, come subito avvenne, evitando che i soldati delle divisioni italiane rimaste al Sud fossero considerati prigionieri di guerra. La cobelligeranza, ottenuta dal mio governo, salvò parecchie cose, compresi gli interessi personali di molti antimonarchici, specie dell’ultima ora, che con il loro carico d’odio non sarebbero rientrati in quel periodo in Italia senza la cobelligeranza» . Quindi il Re ed il governo avrebbero deciso diversamente se, l’8 Settembre del 1943, avesse avuto luogo l’operazione GIANT DUE, che non ebbe luogo perché, prima che S. M. il Re fosse informata d’alcun ché e convocasse il Consiglio della Corona, il Gen. Giacomo Carboni s’assunse la responsabilità morale, militare e politica di imporre agli alleati di rinunciare all’operazione già programmata. Dal tono delle dichiarazioni del Gen. Giacomo Carboni nel Consiglio della Corona si evince, altresì, come l’iniziativa del medesimo fosse ispirata dal tentativo di porre il Sovrano ed il governo nelle condizioni di denunciare l’armistizio appena sottoscritto e costringerli all’alleanza col Terzo Impero Tedesco, sino alla completa debellatio delle potenze dell’Asse, nel quadro d’una scelta politica decisamente filogermanica. Il Re, sentito l’intervento del semplice Maggiore Luigi Marchesi, invece, operò una scelta decisamente opposta e la attuò avendo il coraggio di decisioni certamente gravi, per le conseguenze, ma che si dimostrarono le uniche in grado di salvare la personalità internazionale dello Stato italiano nato dal primo Risorgimento, e di porre le basi istituzionali, militari e politiche della Guerra di Liberazione, secondo Risorgimento d’una Nazione. E vennero scelte le province libere del mezzogiorno, anziché la Sardegna, come innanzi programmato, per essere più vicini al fronte, ed agli italiani delle province occupate, esattamente come in altre circostanze il Re soldato decise di resistere sulla linea del Piave, invece che ritirarsi sul Po, come anche allora avrebbero preferito gli alleati.

mercoledì 29 dicembre 2010

a tutti i lettori di questo blog


i più sinceri
AUGURI
DI UN SERENO, FELICE, E PROSPERO
2001

giovedì 9 dicembre 2010

Il Museo ed il Plastico di Roma Imperiale
11 dicembre, sabato, 10.30
Il museo della Civilta' Romana nasce dalla raccolta di una numerosissima serie di materiali realizzati in occasione della Mostra Archeologica del 1911. Si tratta di interessantissimi plastici ricostruttivi realizzati in scala e non, dei principali edifici pubblici e privati dell'impero romano; ad essi si aggiungono riproduzioni di strumenti ed oggetti di uso domestico, suppellettili varie, strumenti da lavoro, ecc. che testimoniano i diversi aspetti della civilta' Romana. L'importanza didattica del Museo nato nel 1955 e' indiscussa: la nostra visita vertera' sulla conoscenza dei principali monumenti di Roma, della loro tecnica edilizia e della topografia antica della citta', attraverso i plastici. Il percorso terminera' con la visione d ... >>> info e dettagli

lunedì 20 settembre 2010

E uscito il volume:

L'investimento e la presa di Ancona
La conclusione della campagna di annessione delle Marche
20 settembre - 8 ottobre 186
di
Massimo Coltrinari




278 Pagine,
illustrazioni
20,00 euro
Edizioni Nuova Cultura
è reperibile in tutte le librerie d'Italia,
in Ancona, presso la Libreria Canonici, Corso Garibaldi,112
per ordini diretti: ordini@nuovacultura.it,






Il Volume riporta la prefazione del Sindaco di Ancona,
Prof. Fiorello Gramillano

mercoledì 21 luglio 2010

Il Nuovo Corso della Turchia
Cesare Merlini1
9/07/2010
È stato un bene che il Presidente Obama, in una recente intervista al Corriere della sera, abbia implicitamente corretto il suo ministro della difesa che pochi giorni prima, nel corso di una visita in Europa, aveva accusato gli europei di allontanare la Turchia dall’Occidente, negandole l’adesione all’Ue. La cosa più sbagliata che americani ed europei potrebbero fare è abbandonarsi a reciproche recriminazioni sulle responsabilità rispettive per i nuovi orientamenti della politica estera di Ankara, secondo la formula - who lost Turkey - in voga a Washington. È persona notoriamente cauta ed equilibrata, Robert Gates, che era capo del Pentagono già nella precedente amministrazione Bush – unico esito ancora reperibile dell’apertura fatta dal nuovo presidente a una gestione più bipartisan della cosa pubblica. E che il governo americano, indipendentemente dalla sua coloritura politica, fosse a favore dell’ingresso della Turchia nell’Unione europea era cosa arcinota. La preferenza degli Stati Uniti, del resto, è più che comprensibile, viste le enormi potenzialità per loro (e per tutto l’Occidente) di un tale sviluppo, anche se l’insistenza con cui è stata espressa è apparsa a volte eccessiva, come un omaggio generosamente offerto a carico di una carta di credito altrui (cioè degli europei).Nuovo corsoMa la tesi che le scelte autonome e spesso eclatanti, compiute di recente da Erdogan in materia di politica internazionale, siano conseguenza diretta della porta solo semiaperta – o semichiusa, ambiguamente semichiusa, diciamolo pure – lasciata dagli europei all’adesione della Turchia all’Ue, non resiste ad analisi anche sommaria. Davvero Gates pensa che avere un piede, o anche due, in Europa avrebbe portato il primo ministro turco ad ignorare la reazione della sua opinione pubblica, in particolare quella del suo partito, all’operazione “piombo fuso” condotta da Israele a Gaza nell’inverno 2008-09? È da lì che il “nuovo corso” di Ankara ha assunto visibilità, come hanno dimostrato il clamoroso incidente di Davos con Shimon Peres poche settimane dopo, e il sovrappiù di consenso domestico che Erdogan ne ha tratto. Ma esso risale a diversi anni prima, una delle novità essendo la crescente attenzione dei cittadini per i temi di politica estera, prima riservati, per tradizione, a un circolo ristretto ed elitario, comprendente il business e i militari – molto secolare ma poco democratico. E da Davos si arriva all’altro incidente, l’ultimo, quello della flotilla cosiddetta umanitaria, allestita con il sostegno del partito turco al potere e maldestramente e sanguinosamente fermata dalle forze speciali israeliane, prima che raggiungesse Gaza.Orbene, come ci si poteva aspettare, Obama ha detto al Corriere che “sarebbe saggio accettare la Turchia nell’Unione”. Ma ha anche aggiunto: “Riconosco che questo solleva sentimenti forti in Europa e non penso che il ritmo lento o la riluttanza europea sia il solo o il predominante fattore di alcuni cambiamenti d’orientamento osservati di recente nell’atteggiamento turco” (il corsivo è aggiunto). A Washington si dovrebbe riflettere sul fatto che i “cambiamenti d’orientamento” e i conseguenti avvenimenti sono anzi apparsi agli occhi di coloro che sono contrari da sempre all’allargamento dell’Ue alla Turchia, come una conferma ex-post sia dell’incompatibilità delle nuove logiche internazionali e regionali di Ankara con quelle dell’Ue, sia dell’incapacità dell’Unione (e dei suoi principali partner, già inclini alla cacofonia fra loro) di imporre una pur vaga disciplina comune alla media potenza turca. Responsabilità UsaPeraltro, chi in Europa cercasse argomenti per affermare che, al contrario, le principali responsabilità della deriva “eretica” turca si situano dall’altro lato dell’Atlantico, non avrebbe grande difficoltà a trovarne qualcuno. Per esempio: è probabile che Erdogan, nel fare assumere al suo paese a predominanza musulmana il complesso ruolo di collaborazione con Israele e di mediazione fra lo stato ebraico e i suoi nemici arabi, contasse sull’influenza moderatrice americana prima su Olmert e poi su Netanyahu, soprattutto dopo l’impegnativa svolta annunciata da Obama in questo senso. Ma i risultati finora appaiono molto deludenti, e non solo agli occhi della dirigenza turca. Il che giunge a riprova del fatto che a Washington la potenza della lobby ebraica tradizionale (non quella di J Street, per intenderci, sulla quale si erano appuntate molte speranze) resta condizionante.Ma ci sono altre lobby che esercitano influenza sul Congresso, contro le preferenze dell’amministrazione. Fra di esse quella degli armeni – ecco un secondo esempio – il cui agitarsi in favore di una risoluzione per dichiarare genocidio il massacro della loro etnia da parte dei turchi (un’ovvietà per la grande maggioranza degli storici, ma forse non un compito per maggioranze parlamentari, quando dalla tragedia è trascorso un secolo) è apparsa come arma ideale di risentimento offerta ai nazionalisti, che si opponevano all’altro complesso capitolo della politica di Erdogan, quello del dialogo con le minoranze interne al fine di cicatrizzare antiche piaghe nazionali. Ora, la tutela delle minoranze etniche è una delle condizioni pressantemente sollecitate dagli europei, come in generale la riforma costituzionale in senso democratico, oggetto di prossimo referendum. Realtà emergenteLa Turchia non è “persa”. È sbagliato affermare che il “fallimento [del negoziato di adesione alla Ue] significherà il ritorno a politiche nazionaliste e autarchiche, nonché alla continuazione delle violenza e dell’instabilità”, come fa Henry Barkey del Carnegie Endowment for International Peace, sulla rivista Survival (53-2, June-July 2010). Le economie emergenti oggi difficilmente sono inclini all’autarchia. Le cifre del primo quadrimestre 2010 parlano di una crescita turca dell’11,4%, seconda solo a quella della Cina. Il debito al 49% del Pil e il deficit che potrebbe scendere sotto il 3% già l’anno prossimo, rientrano nelle condizioni di appartenenza all’euro, mentre lo spread sui titoli pubblici è a 192 (194 in Italia e 980 in Grecia, tradizionale rivale). Ma soprattutto, gli scambi commerciali sono cresciuti con i vicini, cioè con l’Iran, l’Arabia Saudita e la Siria, oltre che con la Russia, primo partner, ma anche con Israele, malgrado le tensioni politiche. E le relazioni economiche con gli americani e gli europei sembrano destinate a restare sufficientemente robuste per natura – grazie allo spirito innovativo che non fa difetto ai turchi – anche in una situazione di minore “appartenenza” della Turchia all’Occidente.Sulle due rive dell’Atlantico condividiamo il desiderio che la democrazia, la laicità delle istituzioni e la separazione dei poteri dello stato crescano in Turchia, ma sempre di più in conseguenza della volontà della gente e sempre meno come requisiti per passare al metal detector dell’ingresso dell’Unione europea, che non è come un aeroporto in cui si entra, per poi prendere l’aereo che si vuole.E se dalla dinamica interna passiamo alla politica estera, il segnale che è venuto da Ankara con l’intesa raggiunta con l’Iran (e il Brasile!) sull’arricchimento dell’uranio iraniano (accordo di scambio solo un po’ più debole di quello prima negoziato dagli occidentali e dai russi e poi disconosciuto da Ahmadinejad) vuole proiettare la Turchia al livello di potenza emergente, non solo economica, che rivendica un ruolo regionale, indipendentemente dalle prospettive di adesione alla Ue e dall’appartenenza alla Nato. Ed è un segnale soprattutto per Washington.È questa la realtà, di cui Europa e Stati Uniti, invece di recriminare fra loro, dovrebbero prendere atto, avendo un comune interesse a definire una strategia ottimale verso questa nuova media potenza, collocata in una posizione chiave nello scacchiere al momento più ostico per l’Occidente.
(articolo tratto da Affari Internazionali)
Cesare Merlini è Presidente del Comitato dei Garanti, Istituto Affari Internazionali.

martedì 6 luglio 2010

Gli arichivi inglesi parlano
Da un documento conservato nei National Archives (HS/9/621/7) apprendiamo che, alla fine del 1940, Emilio Lussu (uno dei principali esponenti dell’antifascismo emigrato) entrava in contatto a Lisbona con un agente inglese, comunicandogli di «essere certo che un’organizzazione partigiana in Sardegna avrebbe creato una vasta azione insurrezionale contro il governo di Roma».La massa di manovra su cui contava Lussu doveva essere costituita dai quadri del Partito Sardo d’Azione, di cui era stato fondatore, «composti da ufficiali e sottoufficiali con una non comune esperienza militare formatasi alla Brigata Sassari che avevano servito ai suoi ordini durante la Grande guerra». Quei reduci, già impiegati durante il conflitto civile che, tra 1919 e 1922, avevano opposto i clan fascisti e antifascisti nell’isola, dovevano operare esclusivamente contro i reparti tedeschi, acquistandosi «il favore dell’esercito italiano che era prevalentemente formato da sardi». L’aspirazione autonomista, continuava Lussu, era diventata generale e in essa poteva riconoscersi l’intero antifascismo isolano. L’azione decisiva, con il concentramento di tutte le bande di guerriglia, sarebbe dovuta avvenire in occasione di una spedizione alleata, alla quale avrebbe fatto seguito «la presa del potere politico e la formazione di un governo provvisorio che avrebbe parlato a tutta l’Italia per spingerla a rovesciare il fascismo». Tra settembre e ottobre del ’41, Lussu raggiungeva Gibilterra e Malta, dove si abboccava con i responsabili dello Special Operations Executive, che dal luglio del ’40 era stato posto sotto il diretto comando di Churchill per organizzare, in tutti i territori controllati dall’Asse «operazioni di sabotaggio, propaganda sovversiva, scioperi, insurrezioni, a supporto della resistenza civile».La risposta alle offerte di Lussu era però tiepida. La freddezza del Soe era spiegabile sulla base di alcuni precisi fattori. In primo luogo, la «poca affidabilità politica di Lussu» e il timore che tra le sue bande si potessero infiltrare elementi del brigantaggio, che l’esponente antifascista definiva «banditismo d’onore». Poi, i reputati fallimenti collezionati dall’Inghilterra nel reclutare una «Legione Italiana» tra gli emigrati residenti negli Stati Uniti e tra i prigionieri detenuti in India. Infine, le condizioni alle quali Lussu subordinava il suo impegno e cioè l’assicurazione che, alla fine del conflitto, l’Italia potesse conservare le sue colonie e i confini stabiliti nel ’19. Inoltre, le trattative erano state negativamente influenzate dal rifiuto di Lussu di entrare a far parte del Soe, motivato dalla convinzione che «nessun esponente dell’antifascismo italiano avrebbe potuto accettare di divenire un agente inglese, mettendosi in questo modo al servizio di una potenza straniera».La situazione mutava a fine gennaio ’42, quando Lussu raggiungeva Londra, sotto lo pseudonimo di Meyer Grienspan, preceduto da un’informativa che lo qualificava come «una personalità di massimo prestigio destinato a intrattenere proficuamente rapporti con i nostri ministri e le più altre gerarchie militari». Durante i colloqui, avvenuti tra febbraio e giugno, Lussu ammorbidiva la sua posizione, rinunciando alla speranza di mantenere sotto sovranità italiana il Dodecanneso e la Cirenaica. La sua richiesta si limitava, ora, a domandare che le risoluzioni di Londra su questa materia restassero segrete «per evitare la contrapposizione col Regio Esercito del quale vorrebbe garantirsi l’appoggio o quanto meno la certezza che esso non spari sui civili al momento della rivolta». Da quel momento Lussu prometteva di cooperare strettamente col Soe non solo in Sardegna, ma anche «nell’Italia centrale e meridionale», purché venisse fornita al suo partito «l’assicurazione politica di potersi diffondere su tutto il territorio nazionale».
Benché il Soe nutrisse la più ampia fiducia nel successo del colpo di mano orchestrato da Lussu, battezzato Operation Postbox, le trattative non arrivarono a nessuna conclusione e l’ardimentoso capitano della Brigata Sassari lasciava Londra con la magra promessa che il gabinetto britannico avrebbe continuato a prendere in considerazione il programma di un’invasione della Sardegna. Nella riunione del War Cabinet del 20 novembre ’42 Churchill considerava, infatti, come obiettivo indispensabile l’occupazione dell’isola, non però per costituirvi un santuario antifascista, ma per farne una grande portaerei terrestre dalla quale scatenare la strategia del moral bombing contro le città italiane del versante tirrenico, compresa Roma. Dimostrandosi del tutto scettico sulla possibilità di veder nascere una rivolta contro il regime di Mussolini, l’inquilino di Downing Street era persuaso che solo l’arma del terrore avrebbe potuto costringere l’Italia alla resa, colpendo il suo popolo il quale «se avesse continuato a percorrere la via del Fascismo avrebbe dovuto sopportare tutte le punizioni e le calamità che si riservano ai vinti».Eppure il programma di Lussu, relativo alla possibilità di scatenare una rivoluzione nel Supramonte, continuava a interessare il Regno Unito, a condizione di poterla trasformare da sollevazione autonomista in rivolta separatista, in modo da fare della Sardegna una nuova gemma dell’Impero Britannico. Non casualmente il Foreign Office aveva elaborato nel ’42 un approfondito studio su questa ipotesi, incentrato sull’«attitude of Sardinia towards Italian rule». Né solo accidentalmente la prima bozza del Trattato di pace con l’Italia, formulata da Anthony Eden, il 5 luglio ’45, insisteva sulla necessità di sottoporre Pantelleria, Lampedusa, Linosa al mandato delle Potenze vincitrici, in attesa forse di incorporare la Sicilia e l’«Isola dei Sardi» nei domini del Commonwealth.eugeniodirienzo@tiscali.it

venerdì 26 marzo 2010

"Sezione Studenti e Cultori della Materia"
Seminario
Chianciano 20-21 marzo 2010
Sono state poste le basi per una nuova “scuola” di storici non ideologizzati con i quali sarà possibile riscrivere, ma in alcuni casi scrivere per la prima volta, gli eventi di uno dei periodi più tragici per l’Italia, quello legato alle vicende armistiziali dell’8 Settembre 1943, alle scelte che vennero individualmente o in gruppo fatte dai singoli, militari o civili che fossero, delle conseguenze di tali scelte, spesso imposte dal contingente, che sfociarono in tragedie ancora poco note o addirittura ignorate se si esclude i pochi super informati addetti ai lavori.
L’occasione è stata data da un seminario di studi della durata di due giorni che si è svolto a Chianciano nell’ambito del Consiglio Nazionale dell’Associazione Nazionale Combattenti della Guerra di Liberazione inquadrati nei Reparti regolari delle Forze Armate (Ancfargl) che ha sancito la nascita di una nuova sezione specialistica denominata “Studiosi e cultori della materia” alla quale saranno ammessi, dopo un periodo di prova biennale, studiosi avviati o giovani promettenti leve impegnati in dottorati di ricerca su materie attinenti la Guerra di Liberazione. L’iniziativa fa seguito alla creazione da parte dell’organo associativo, la rivista “il Secondo Risorgimento d’Italia” scaricabile dalla pagina web http://www.secondorisorgimento.it/rivista/sommari/quadrosommari.htm, di una collana di volumi, di cui il sesto della serie “Salvare il salvabile” ha costituito il filo conduttore del seminario nonostante esso sia ancora in fase avanzata di pubblicazione, ma ancora in bozze di stampa e non in libreria.
La tesi sostenuta dal volume è fortemente innovativa, se pure non originale in assoluto come ipotesi, comunque sotto il profilo del “quadro indiziario” di fonti documentali ad essa convergenti appare articolata e ben argomentata, come mai in precedenza, nel delineare uno scenario in cui una fazione, se non il vertice politico militare del tempo nel suo complesso, aveva intrapreso le trattative armistiziali con il fine ultimo di adescare, in perfetto accordo con la Germania ancora alleata, gli angloamericani in una trappola, in un inganno strategico volto a sfruttare le informazioni scambiate in sede di trattative per ributtarli in mare e magari riconquistare la Sicilia che Hitler il 19 luglio a Feltre aveva descritto come la futura Stanlingrado della coalizione nemica.
Il piano ipotizzato nel volume di prossima pubblicazione e commercializzazione non avrebbe però funzionato all’atto pratico per il crollo del fronte interno che il regime aveva sottovalutato, nonostante a seguito dell’avvicendamento di Mussolini con Badoglio il 25 luglio avesse dovuto ricorrere al metodo del bastone (forti misure di ordine pubblico) e della carota, proclamando la caduta del fascismo, sia pure con l’instaurazione di un governo militare e non della democrazia pre regime.
Ai giovani studiosi (età media 30 anni) che hanno partecipato al seminario il direttore e coordinatore Massimo Coltrinari aveva solo fornito uno spunto di approfondimento, senza neppure fare loro leggere, per non influenzarli, il relativo capitolo del volume “Salvare il salvabile”. Il risultato delle loro ricerche è stato sorprendente, in particolare per quanto riguarda una delle argomentazioni a sostegno della tesi di “inganno strategico” secondo la quale la cosiddetta “fuga da Roma” fu un semplice trasferimento a Chieti, dove nel requisito Palazzo Mezzanotte si era cominciato a mettere in piedi una sorta di comando supremo prima che gli eventi, sfuggiti di mano, portassero ad un cambio di programma e l’imbarco sulla corvetta “Baionetta” per fare rotta verso Brindisi e formalizzare quella resa, che avrebbe dovuto invece, secondo l’ipotesi del libro, fungere da specchietto per le allodole. Numerosi gli elementi aggiuntivi frutto di una ricerca condotta in loco, rispetto quelli già riportati in “Salvare il salvabile”, nel senso del potere e delle istituzioni del tempo.
Perora non possiamo dire di più, se non che, in particolare le relazioni relative ai reparti italiani impiegati all’Estero e colti dall’armistizio oltremare, hanno disegnato uno scenario che è difficile immaginare.
Nel congedarci, Massimo Coltrinari ci informa che una analoga due giorni di più ampio respiro si terrà a Roma il 9 e 10 aprile prossimi. Non dispera in quei giorni di avere in mano le prime copie definitive del libro.
Giorgio Prinzi

sabato 16 gennaio 2010

Il generale Ambrosio, Capo di Stato Maggiore Generale che condusse le trattative di Armistizio nell'estate del 1943
Da "Prinzi G., Coltrinari M., Salvare il Salvabile. La cirsi armistizile dell'8 settembre 1943: per gli Italiani il momento delle scelte, Roma, Edizione Nuova Cultura, 2010
n. 6 della Collana Storia in Laboratorio
in uscita per il mese di Febbraio 2010

mercoledì 6 gennaio 2010

La caduta del Fascimo e la richiesta di Armistizio
Gli Italiani di fronte a se stessi: il momento delle scelte
La Componente etica e morale della Guerra di Liberazione
25 luglio 1943 – 8 settembre 1943

massimo coltrinari

ricerca23@libero.it

(si riportano aalcuni temi che si dibatteranno a margine del Consiglio nazionale della Associazione Combattenti dela Guerra di Liberazione il prossimo 10 aprile (data provvisoria) nel seminario di studi organizzto dalla costituenda Sezione Studenti e Culturi delLA Materia della citata associazione)

Il crollo di un castello di carte. Perché gli esponenti fascisti non salvarono il Fascimo

L’origine della Guerra di Liberazione, come causa remota, è da ricercarsi nel sostanziale fallimento del fascismo sia come movimento che come regime, fallimento che venne a maturazione nella primavera del 1943. Alla luce di quello che poi accadde e che fu uno dei temi della Guerra di Liberazione, ovvero il “tradimento” da parte Italiana della Alleanza con la Germania, il ritorno del fascismo nelle forme e nella attività che diedero vita alla repubblica Sociale Italiana, è interessante e necessario capire il perché il fascisti, che avevano tutte le leve del potere e controllavano tutto lo Stato non difesero Mussolini ed il loro regime nel luglio 1943.

Occorre prendere atto che il fascismo, in tutte le sue manifestazioni, nella primavera ed ancor più all’inizio dell’estate 1943, aveva ormai raggiunto il punto più basso in termini di consenso e di fiducia presso il popolo italiano e nella considerazione internazionale, sia fra i nemici che fra gli alleati.
Aveva fallito tutti i suoi obbiettivi di guerra e la serie ininterrotta di sconfitte, oltre a provocare la perdita di prestigio internazionale, aveva anche alimentato la disistima dell’Alleato germanico e degli alleati minori.
Con l’invasione della Sicilia la guerra era arrivata in casa e nulla sembrava potesse arrestare tanto sfacelo.
Secondo Ruggero Zangrandi, “agli inizi del ’43 il fascismo era spacciato, in conseguenza di tre fattori per buona parte connessi.
Il primo ( che si deve riconoscere come determinante) fu la disfatta militare: la quale completò l’opera di discredito e di corrosione già compiuta dalla guerra, rilevando anche a tanti italiani che, illusi o ingannati, non avevano capito prima, la vera essenza del fascismo.
L’altro fattore che indicava prossimo il crollo del regime era, appunto, costituito dall’insofferenza e dall’opposizione popolari, pressoché generali ormai, non più dissimulate e ogni giorno più pressanti.
C’era infine la circostanza, forse più di tutte significativa, che non esistevano più, praticamente, fascisti. Anche se i vari gruppi di congiurati non se ne erano accorti e, anzi, misurassero i propri sforzi in vista di una temibile resistenza. In realtà, fatta eccezione per gli elementi troppo compromessi, qualche raro fanatico e una minoranza di giovanissimi e di combattenti che, nel clima di esaltazione e di disorientamento provocato dalla guerra, non riuscivano aprendere coscienza, non vi era, in campo fascista, neppure tra i massimi gerarchi, nessuno che avesse intenzione e volontà di difendere il regime. Il vecchio regime aveva, dunque, cessato di esistere di fatto già nella primavera del 1943; e coloro che ne rimossero il cadavere, con qualche anticipo rispetto alle ormai indifferibili esequie, ma con troppo ritardo per rendere l’operazione utile al popolo italiano, non ebbero altri meriti se non quelli che si sogliono riconoscere ai becchini. La loro azione, d’altro canto, fu esclusivamente ispirata a considerazioni di convenienza personale. Le forze che si rilevarono determinanti ebbero come unico stimoloquello di trovare una via di scampo al disastro in cui, insieme al fascismo, s trovarono coinvolte”[1]
E’ in questo clima di ampia sfiducia verso il fascismo che vanno cercate le cause e le motivazioni che, all’indomani della proclamazione dell’armistizio, saranno alla base delle scelte degli Italiani che daranno vita ai “fronti” della Guerra di Liberazione.

Tutti gli esponenti fascisti erano consci che da soli non avrebbero avuto la forza di salvare la situazione. E saranno proprio loro che provocheranno la caduta e l’arresto di Mussolini. L’occasione fu la seduta del Gran Cosiglio del Fascismo con la messa ai voti del cosiddetto “Ordine del Giorno Grandi”, con il quale si riaffidavano al Sovrano Vittorio Emanuele III tutte le sue prerogative; con ciò,in pratica, si esautorava Mussolini e si decretava la fine del regime fascista. Un passo grave, che poneva fine ad una ventennale dittatura di un solo partito, passo aveva motivazioni e ragioni complesse, ma che fu determinato, come elemento scatente la decisione, dall’esito infelice dell’incontro di Feltre del 19 luglio 1943 tra Mussolini e Hitler. In questo incontro l’alleato germanico, con sprezzante alterigia, non aveva concesso nulla a un Mussolini ormai impotente ed esausto. La delegazione italiana era andata a Feltre nella speranza che Mussolini, con il suo prestigio e la sua autorità, riuscisse di trovare il modo per strappare alla alleata Germania una sorta di consenso per uscire dignitosamente dalla guerra; queste speranze andarono deluse; il Duce del Fascismo ebbe un atteggiamento remissivo e succube, non riuscì nemmeno ad accennare la questione ad un Hitler deciso e sicuro di se, e Mussolini ne uscì con una netta sconfitta, ponendo le premesse reali della sua destituzione.
Il bombardamento dello scalo di San Lorenzo a Roma, il 19 luglio 1943 in contemporanea con l’incontor di Feltre, da parte Alleata, in cui si violava in modo quasi irrisorio le difese antiaere, mise a nudo ancor auna volta tutta l’impotenza dell’Italia, e fu visto come il preludio ad altri lutti e rovine, se non si fosse prese decisioni drastiche.
I quarantacinque giorni
Il 26 Luglio, dopo un colloquio a Villa Savoia con il Re, Mussolini fu arrestato e il governo affidato al Maresciallo Badoglio. Questi si affrettò a proclamare che la guerra sarebbe continuata affianco alla Germania, ma in pochi , compresi i tedeschi erano orientati a crederlo. Infatti iniziarono da più parti contatti con gli Alleati per negoziare l’uscita dell’Italia dalla guerra. Nei giorni che vanno dal 27 al 30 luglio, Gli Alleati si aspettavano una prima mossa da parte del Governo Badoglio, tesa a stabilire un primo contatto per avviare trattative per arrivare al meno a far cessare le ostilità. Questa era opinione diffusa, ed anche i Tedeschi, sopresi dalla caduta del Duce in modo cos’ repentino, erano sul chi va là in merito alle vicende italiane ed anche loro avevano ben chiaro che la mossa successiva di Roma sarebbe stata una iniziativa, nonostante tutte le manifestazioni di volontà in termini di “la guerra continua”, volta ad uscire dalla guerra.[2] Anglo-americani e Tedeschi, quindi, si erano messi in misura tale di essere pronti alla richiesta italiana di uscire dalla guerra, ed avevano entrabi le idee chiare sul come affrontare questo evento. Chi invece non aveva le idee chiare ed era molto lontano dalla realtà era il Governo Badoglio ed il suo capo. Ci si era posti il problema che oramai la situazione imponeva di uscire dalla guerra. Il primo passo era stato fatto, ovvero l’allontanamento di Mussolini, che la guerra aveva voluto. Ora si tratta di attuare il come uscirne, con il meno danno possibile.
Le ipotesi erano le seguenti: a) con una immediata richiesta di resa agli angloamericani e contemporanea denuncia della Alleanza con al germania; b) guadagnare qulahce settimana al fine di intavolare serie e dignitose trattative con gli anglo americani, e nelle stesso tempo intavolare serie e risolutive trattative con i tedeschi, venendo con loro ad una franca e defintiva spiegazione sulle reali condizioni dell’Italia non più in grado di condurre la guera. In entrambi i casi alto era il rischio di venire a combattere su due fronti, quello aperto con gli angloamericani e quello interno che sarebbe stato aperto dai tedeschi. Un fattore era determinante: occorrevano decisioni fulminee, precise ed efficaci, per non dare la possibilità ai nostri avversari di preparare le contromosse alla azione italiana.
Questo non fu attuato e si percosero strade, ed anche sentieri, così tortuosi che alla fine risucimmo screditati sia agli occhi dei Tedeschi[3], sia agli occhi degli Angloamericani.
In breve ripercorriamo le tappe di queste trattative, i cui protagonisti da una parte, quella italiana, furono il Re Vittorio Emanale III, Badoglio, Ambrosio, Capo dello Stato Maggiore generale ed Acquarone, ministro della Real Casa, e personaggi minori che a vario titolo entrarono nella vicenda, dall’altra gli Angloamericani. Queste trattative passano attraverso fasi, che sinteticamente possiamo individuare in un momento in cui Badoglio spervalutò la situazone italiana, avviando trattative da pari a apari e dettando anche condizioni, una seconda fase in cui dovette constatare che i margini di discussione erano quasi nulli ed una terza in cui si accettarono tutte le condizioni senza rendersi conto delle conseguenze immediate e reali. Tutto questo, mentre continuavamo a manifestare professioni di lealtà e cameratismo verso i tedeschi, nella speranza che non sospettassero che si stava trattando segretamente con gli Alleati.
Persa l’occasione di agire immediatamente, e contemporaneamente scarata senza un reale motivo la possibilità di utilizzare emissari accreditati presso gli Alleati e di prestigio come Dino Grandi[4] e il Maresciallo Caviglia, noto antifascista, e molto stimato per i suoi trascorsi militari presso i Comandi Alleati. Fu scarata anche la possibilità di utilizzare le ambiascuate statunitensi e britannica presso il Vaticano perche non si aveva fiducia nei Codici diplomatici che queste ambasciate utilizzavano e che si riteneva fossero stati penetrati dai tedeschi. Vi furono nel contempo anche altre iniziative minori, che si sono perse nell’blio del tempo. Vi era in atto l’iniziativa dell’industriale Alberto Pirelli, che fu mandato in Svizzera ia primi di agosto, ma la sua missione non sortì effetti. Si disse che Badoglio tentò anche la carta della Massoneria, per aver autorizzato l’emissione di passaporti di comomodo, elargizione di somme ed altro, con la collaborazione del ministro della guerra Sorice e con una parte attiva del figlio di Badoglio, Mario, ma anche questo canale su perse nelle nebbie degli avvenimenti successivi. Vi era anche il tentativo del banchiere Giorgio Schiff-Gorgini[5], ma anche questo si perse nel nulla. Vi era poi il contatto stabilito a seguito della cattura di un nostro agente del SIM da parte inglese a Bendasi; gli inglesi erano disposti a mandare in cifrario e aprire questo canale, ma anche questa opportunità fu fatta cadere.
Questi tentativi che possiamo definire minori contribuirono, con il passare dei girni, ad elevare la soglia di diffidenza da parte Alleata, che di giorni in giorni divennero sempre più guardinghi per timore di essere raggirati dagli Italiani.
Si preferì, quindi, utilizzare diplomatici di secnda schiera, assolutamente sconosciuti agli occhi degli Alleati, e sostanzialemente privi di quel carisma e profilo internazionale che la situazione richiedeva. Queste missioni diplomatiche, come se la situazione fosse normale, già compromesse proprio perché tali, paetivano dal presupposto di trattare da pari a pari con gli Alleati, con l’intento di chiedere aiuti agli Alleati, nella convinzione, del tutto irreale, che era nell’interesse angloamericnao portare l’Italia nel proprio campo e quindi abbreviare la guerra, ovvero gli angloamericani dovevano portare soccorso all’Italia che era in serie difficoltà con i Tedeschi[6]
Le missioni diplomatiche avviate erano quelle el Consigliere di Legazione Blasco D’Ajeta[7] e quella del Console Alberto Berio.
D’Ajeta si doveva presentare all’ambasciatore britannico a Lisbona, sir Ronald Campbell, e presentargli gli intendimenti del governo italiano. A premessa di questi si doveva prospettare 1) l’atteggiamento apparentemente tempreggiaotre della monarchia e del governo Badoglio non doveva essere frainteso dagli Alleati, poiché era determinato dalla pressione tedesca; 2) che tale pressione si concretizzava in una massiccia occupazione militare geermanica[8] 3) che Roma era praticamente minacciata di occupazione, 4) che le condizioni dell’Italia erano disastrose.
D’Ajeta quindi doveva, al fine di attuare lo sganciamento, chiedere l’aiutoangloamericano, in attesa del quale gli angloamericani dovevano sospendere i bombardamenti e porre fine la campagna diffamatoria radiofonica contro il governo Badoglio e l’Italia in genere. In pratica D’Ajetta doveva far comprendere agli anglo americani che l’uscita dell’Italia era nel comune interesse, che se attuata ( secondo le indicazioni italiane) avrebbe grandemente giovato a Londra e Waschington.[9] L’incontor ebbe luogo a Lisbona , il 4 agosto 1943, dalle 11,30 alle 13, ma i risultati furono praticamente nulli.
Il tentativo del Console Berio si tinge dei contorni del romando d’avventure. Berio[10] era latore delle seguenti proposte: 1) i tedeschi erano padroni dell’Italia, eal primo sospetto si sarebbero impadroniti di Roma, facendo prigionieri Re e Badoglio: 2) Gli Alleati dovevano attenuare se non sospendere i bombardamenti, per agevolare la tenuta del fronte interno 3) Gli Alleati dovevano affettuare uno sbarco nella Francia meridionale, nei Balcani onde attirare forze tedesche e alleggerire la pressione sull’Italia. Tutto questo per dare la possibilità al governo italiano di effetture con successo lo sganciamento dai tedeschi e l’uscita dalla guerra. Nel corso delle conversazioni Berio doveva anche chiedere che gli Alleati effettuassero uno sbarco il più possibile a nord di Roma, onde ulteriormente agevolare l’azione italiana.
Queste proposte furono presentate al console britannico aggiunto Watkinson ( il titolare era in ferie) il 5 agosto 1943

Vari furono i tentativi di avviare trattative di armistizio,molte velleitarie, altre maldestre, che in parte insospettirono gli Alleati. Alla fine, in situazioni che daranno la stura a polemiche ancora oggi non sopite, si arrivò alla firma a Cassibile il 3 settembre 1943 del cosiddetto “armistizio corto”. Sulla base di intese non controllate e sensazioni il Governo a Roma ritenne che la proclamazione dell’armistizio dovesse avvenire non prima del 12 settembre. In realtà gli Alleati lo fecero coincidere con lo sbarco a Salerno, programmato per il 9 settembre, nella convizione che la resa delle truppe italiane avrebbe favorito lo sbarco, come in effetti avvenne. Proclamato alle 18,30 dell’8 settembre da Algeri e alle 19,45 da Radio Roma con un messaggio del maresciallo Badoglio, l’armistizio aprì una delle pagie più controverse e buie della nostra storia recente.
La non reazione per oltre 48 ore da parte delle Forze Armate italiane, combinata dalla pronta e decisa azione tedesca, fece sì che tutto l’apparato statale italiano crollò immantinente. Il Re ed il Governo si trasferono, via Pescara, a Brindisi, aprendo una crisi costituzionale gravissima. Il fatto grave da parte del Sovrano e del Governo non fu che lasciarono la capitale e si trasferirono in altra parte del territorio dello Stato al sicuro della minaccia tedesca; il fatto grave fu che per oltre 48 ore non si diede ordini a chicessia, lasciando nella più totale incertezza Comandi e Ministeri e l’intero apparato statale. Venir meno a questi doveri da parte del Re e da parte del Capo di Governo, in momenti delicati e difficili come quelli armistiziali, è inammissibile e inaccettabile sapeva quello Il motivo di questo atteggiamento?. Viarie le ipotesi

Al di là di ogni considerazione venne per ogni italiano il momento delle scelte. Prima per i soldati, che si trovarono spianate davanti le armi dei tedeschi poi per ogni cittadino italiano fu l’inizio di quella stagione, in cui a fronte di assenza di ogni autorità nazionale, non era possibile non reagire e schierarsi, pena la sopravvivenza.
Per i soldati all’indomani della proclamazione dell’armistizio le scelte erano le seguenti:
. in presenza o in assensa di ordini precisi, lasciare la divisa e cercare di raggiungere le proprie case, sottraendosi alla cattura tedesca; in molti vi riuscirono; altri, furono catturati e internati in Germania.
. resistere, combattendo, ad ogni richiesta di cessione delle armi.
Coloro che si trovarono al Sud in territorio controllato dagli Alleati, ebbero la possibilità o di rimanere alle proprie case, oppure di entrare a far parte della Organizzazione Logistica Alleata, oppure di entrare nelle fila del Regio Esercito, che si andava formando tra mille difficoltà.
Coloro che si trovarono al Nord in territorio controllato dai Tedeschi, ebbero la possibilità di rimanere alle proprie case, ma con maggiori difficoltà in quanto minacciati dalle retate tedesche, dai rastrellamenti, e dalla continua ricerca di mano d’opera forzata. Oppure di entrare nella fila del movimento partigiano sia nelle formazioni di città che in quelle della montagna, sceltà che si cominciò a palesare verso la fine del 1943. Oppure per coloro che vollero essere fedeli alla vecchia alleanza, aderire alla Repubblica Sociale Italiana, entrando nelle fila delle sue Organizzazioni civili e militari.
Sia al nord che al sud vi fu una massa di italiani che cercarono di scegliere il più tardi possibile cercando di superare la situazione contingente; diedero vita all’”attendismo” ovvero che si delineasse un vincitore certo e sicuro per poi fare le proprie scelte. L’attendismo è la mafestazione più di basso profilo della Guerra di Liberazione, frutto della sconfitta e delle necessità materiali che divennero di giorno in giorno sempre più impellenti, nella convizione che erano gli “altri” che dovevano condurre e concludere la guerra.

Per le truppe all’estero la situazione fu ancora più dolorosa. Abbiamo varie categorie, tra i soldati, che operarono diverse scelte, che furono:
Quelli che si sottrassero alla cattura tedesca, e si nascosero e nel prosieguo della loro permanenza all’estero o rimasero sempre nascosti oppure entrarono nelle fila della resistenza locale;
Gli “internati”. ovvero quelli che direttamente o indirettamente caddero in mano ai tedeschi e furono Internati nei campi di concentramento in Germania o in Polonia.
I “combattenti”, ovvero quelli che, senza abbandonare le proprie armi, raggiunsero le formazioni esistenti della Resistenza locale ed iniziarono la lotta al nazifascismo.
I “fortunati”, coloro che riuscirono a rientrare in Italia (sia quella liberata che quella occupata dai tedeschi) usufruendo dei convogli o navi, mandate dal regio Governo o organizzate anche con il consenso dei tedeschi. A questi, con il passare dei mesi, si aggiunsero coloro che, datasi alla macchia in attesa degli eventi, organizzarono attraversate dell’Adriatico o a passare i confini con mezzi di fortuna o utilizzando mezzi della Regia Marina inviati appositamente.
I “fedeli alla vecchia alleanza”, cioè coloro che accettarono le offerte dei tedeschi e passarono, anche in virtù di scelte dovute al caso ed alle circostanze, nei loro ranghi in nome degli ideali fascisti seguendo le motivazioni che a suo tempo portarono alla guerra dell’Asse. Fra questi vi furono anche coloro che, inzialmente “Internati” aderrono alle proposte tedesche e della Repubblica Sociale di entrare nelle loro organizzazioni militari.

Se gli Italiani sono chiamati a scegliere come impegnarsi e come affrontare il presente, appare chiaro che essi sono in situazione subordinata di fronte ad Alleati e a Tedeschi. Sono, in sostanza, esponenti di un Paese sconfitto, che non può accampare, al momento, alcun diritto. Hanno perso totalmente la sovranità del loro territorio. Questa è in mano al Sud agli Anglo-Americani e loro alleati, al Nord alla Germania. Sobo gli Occupatori, che instaurono le loro Amministrazioni le quali saranno, fino alla fine delle ostilità, in varia misura, le padroni assolute e le gerenti della Sovranità su tutto il territorio italiano in senso assoluto
Ogni Italiano o organizzazione o formazione italiana di qualunque tipo è al servizio al Nord come al Sud degli Occupanti, a prescindere da ogni considerazione. L’ultima parola, in ogni problema, circostanza o altro non spetta agli Italiani ma ad Angloamericani a ai Tedeschi. In base alla loro benevolenza o non benevolenza ci sarà spazio di manovra per gli Italiani per la realizzazione dei loro desideri ed interessi.
Occorre tenere sempre presente, quindi, che nella Guerra di Liberazione sia a Nord che a Sud è l’Occupante sia esso Anglo-americano o Tedesco che decide tempi e modi di ogni azione. Non vi sarà spazio per gli Italiani per incidire in questo meccanismo. Ne discende uno dei corollari della Guerra di Liberazione: gli interessi Italiani, qualunque siano, sono e saranno sempre subordinati a quelli dell’Occupante. Sarà solo la benevolenza del medesimo se qualche cosa verrà accordato, ma solo in vista o in virtù di un preciso tornaconto di chi lo concede.
Occorre prendere atto di questo, e sgombare il campo da ogni altra considerazione. E’ tipico anche della storiografia trasformare alcuni aspetti sopra descritti in elementi a noi favorevoli. Il movimento partigiano non ebbe mai la forza di sostituirsi alle Armate Alleate e la sua azione dipese sempre dal sostegno materiale degli Alleati. Il proclama Alexander del novembre 1944 fu un vero e proprio trauma per tutto il movimento partigiano, che fu superato solo per la forza morale ed etica di coloro che avevano scelto di combattere in montagna. Asserire che “furono i partigiani” avincere la guerra, significa non conoscre o non voler riconoscre ciò che realmente accadde in quei anni di guerra. Altre sono le “versioni” che nel corso di questi decenni si sono via via affastellate, a giustificare questo o quello, ma sono versioni di comodo, al servizio delle esigenze del momento e di determinate forze politiche, che nulla hanno a che fare con la realtà della Guerra di Liberazione.
Se sul piano dei rapporti di forza e sul piano strettamente materiale la situazione è quella sopra descritta, ben diversa era quella sul piano morale e politico. Se è pur vero che molti italiani si rifugiarono nell’attendismo, se forze conservatrici come la Chiesa Cattolica, peraltro fortemente compromessa con il Fascismo, furono un freno ad ogni inziativa voltà ad avere una Italia futura diversa da quella passata, è pur vero che la Guerra di Liberazione vi è stata perché alimentata da una tensione morale ed etica senza pari. Si sperava, attraverso l’impegno ed il superamento dell’attendismo e degli interessi personali, in qualcosa di diverso per le future generazioni. Si combatteva e si affrontavano rischi e difficoltà in vista di un domani migliore che non fosse il presente. Si subivano e si sopportavano gli Occupatori, e al Nord che al Sud, nella convizione che presto tutto sarebbe finito e che ci sarebbe stata la possibilità di poter scegliere un modello di vita sociale diverso da quello avuto fino ad allora. Era la spinta ideale del movimento partigiano al Nord che raccolse nelle sue fila uomini di provenienza la più disparata, spesso antagonisti tra loro, come il dopoguerra stara a dimostrae, ma uniti nel combattere il nazifascismo; come i soldati del sud, che superando il “chi to fa fa”, seppero combattere e reagire a tanto disfattismo; come gli Internati in Germania che, cn una semplice firma avrebbero posto fine a tutte le loro sofferenze, ma che resistettero in nome di un qualcosa che sarebbe stato il tessuto connettivo dell’Italia del domani; come coloro che all’estero combatterono per la libertà di altri popoli nella speranza di averla anche in Italia al loro rientro ed infine come coloro che in prigionia aderirono e collaborarono allo sforzo contro il nazifascismo come cooperatori sempre nella speranza che qualcosa dovesse cambiare per il futuro. E’ il patrimonio della Guerra di Liberazione, che subordinata all’Occupante sul piano materiale, vincolata agli interessi altrui, fu scuila e terreno di impegno morale ed etico, un investimento per il futuro, una speranza in un futuro migliore.
Questo approccio alla Guerra di Liberazione, ben può far comprendere come essa sia stata il crogiuolo della nostra storia recente e che in essa siano confluite tutte le componeti della nostra società, dall’estrema destra all’estrema sinistra, che, grazie alla partecipazione di tutti, ha fatto si che l’Italia potesse risalire con brillantezza il baratro in cui era sprofondata a seguito di una guerra malamente condotta e ancor più malamente persa.
[1] Zangradni R., 1943: 25 luglio – 8 settembre, Milano, Feltrinelli editore, 1964, pag. 40.
[2] Scrive Goebels nel suo diaro , all’indomani dell’annuncio dell’Armistizio “9 settembre 1943. Si dalla caduta di Mussolini abbiao sempre pensato ed atteso qusta mossa. Non avremo da fare mutamenti sostanziali nelle nostre misure. Possiamo mettere in motociò che il Fuhre avrebbe voluto fare immediatamente dopo la caduta di Mussolini”.
[3] Rinverdimmo agli occhi tedeschi la fama di “traditori”, ricordando il “giro di valzer” della Prima Guerra Mondiale, quando aderimmo all’Intesa dopo decenni di militanza nella “Triplice”, anche se formalmente l’alleanza era scaduta. I Tedeschi manifesteranno questo loro sentimento di disprezzo con l’insulto “Badoghlio”. Non da meno gli Angloamericani insriranno nel loro vocabolario il bereto “To badogliate” come sinonimo di inganno, superficialità mista a stupidità, mistificazione e quant’altro di ignominioso si può aggiungere nelle relazioni tra esseri umani.
[4] Grandi era stato ambasciatore per otto anni a Londra e vantava soldie amicizie anche nella cerchia più intima di Cherchill; chiese a gran voce e con insistenza di essere incaricato di condurre trattative, ma invano. Lo fu a fine agosto quando ormai tutto era compromesso e la sua missione, per l’evidenza delle cose, non fu mai avviata ma serv’ allo stesso Grandi ed alla sua famiglia di porsi in salvo in Spagna.
[5] Questi ebbe un ruolo primario nel 1914 quanto riuscì a portare a termine la sovvenzione erogata dalla Francia al “Popolo d’Italia”, diretto da Mussolini, per portarlo definitivamente, data la somma di denaro consistente, sulla sponda interventista.
[6] E’ veramente difficile capire questo modo di porre la questione di uscire dalla guerra in quanto l’Europa era dal 1939 sotto occupazione tedesca. Gli Angloamericani dovevano andare a portare soccorso all’Italia ed agli Italiani, non si sa in nome di che cosa o in cambio di chissa che cosa, mentre nulla era stato fatto ed era possibile fare per norvegesi, greci, belgi, cecoslovacchi, danesi, polacchi, russi, jugoslavi, francesi ecc. tutti sotto il gico tedesco e senza nessuna colpa.
[7] D’Ajetta era un uomo legato ad Acquarone, anche per la loro amicizia consolidata. Fu D’Ajetta che introdusse nei circoli esclusivi, che sia Acquarone che D’Ajetta frequentavano e noti per quello che una volta si sarebbe definiti di “doce vita”, Galeazzo Ciano, cosa che fruttò al genero del Duce, oltre al rancore ed all’odio della suocera Rachele, la nota fama di dissolutezza e amoralità. Si evidenzia ancor di più che la scelta del nostro emissario da mandare a trattare un così grande problema come l’uscita dalla guerra, affidata a personaggio di tal fatta, non fu proprio felice.
[8] D’Ajetta era in grado di dare ampie notizie su questo aspetto; certment el’accusa di “traditori” avanzata agli Italiani da parte tedesca in questo segmento ha fondamenti consistenti.
[9] A questa proposta, il commento di Cherchill fu “ Dalla prima all’ultima parola, D’Ajeta non ha mai minimamente alluso a termini di pace e tutta la sua esposizione non è stata che la preghiera che noi si salvi l’Italia, dai tedeschi e da se stessa, e al più presto possibile.”
[10] La copertura era data dall’assunzione del Berio del posto di console generale italiano a Tangeri, lasciato scoperto da Mario Badoglio. Si doveva avvalere dell’aiuto dei vice-consoli groppello e Castronovo oltre che dei buoni uffici della consoerte di Mario Badoglio, Giuliana. Doveva con tutte le cautele del caso prendere contatto con il console britannio Gascoigne, e porgergli le richieste italiane. Assolutamente si doveva fare attenzione affinché nulla trapelasse, dato che Tangeri era piena di spie tedesche. E’ appena il caso di far notare che appena giunto Berio a Tangeri, alcuni giornali locali avevano pubblicato la notizia che un plenipotenziario italiano era giunto per prendere contatto con gli angloamericani e trattare l’uscita dalla guerra.

mercoledì 30 dicembre 2009

Negazione In Marcia



(partercipa a combattere la negazione dell'Olocausto)








Sembra impossibile!!!
Il Generale Dwight D. Eisenhower aveva ragione
nell’ordinare che fossero fatti

molti filmati e molte foto.
OLOCAUSTO
Esattamente, come è stato previsto circa 60 anni fa…
E’ una questione di Storia ricordare che,
quando il Supremo Comandante delle Forze alleate
(Stati Uniti, Inghilterra, Francia, etc.),
Generale Dwight D. Eisenhower,
incontrò le vittime dei campi di concentramento,
ha ordinato che fosse fatto il maggior numero di foto possibili,
e fece in modo che i tedeschi delle città vicine
fossero accompagnati fino a quei campi
e persino seppellissero i morti.


E il motivo, lui l’ha spiegato così:
'Che si tenga il massimo della documentazione
– che si facciano filmati – che si registrino i testimoni –
perchè, in qualche momento durante la storia,
qualche idiota potrebbe sostenere
che tutto questo non è mai successo'.


'Tutto ciò che è necessario per il trionfo del male,
è che gli uomini di bene non facciano nulla'.
(Edmund Burke
)










RIcordiamo:








Questa settimana,il Regno Unito ha rimosso l’Olocausto
dai piani di studio scolastici
poichè “offendeva” la popolazione musulmana,
che afferma che l’Olocausto non è mai esistito...



Questo è un presagio spaventoso sulla paura
che si sta diffondendo nel mondo,
e che così facilmente ogni Paese
sta permettendo di far emergere.
Sono trascorsi più di 60 anni
dal termine della Seconda Guerra Mondiale.
Questa e-mail viene inviata come una catena,
in memoria dei 6 milioni di ebrei,
20 milioni di russi,
10 milioni di cristiani,
e 1900 preti cattolici
che sono stati assassinati, massacrati, violentati,
bruciati, morti di fame e umiliati,
nel mentre la Germania e la Russia
volgevano lo sguardo in altre direzioni.



Ora, più che mai, a fronte di qualcuno che sostiene
“L’Olocausto è un mito”,
è fondamentale fare in modo che
il mondo non dimentichi mai.










L’obiettivo che si vuole raggiungere inviando una e-mail
è che venga letta da, almeno, 40 milioni di persone in tutto il mondo
.






Sii un anello di questa catena
e aiuta ad inviare l’e-mail in tutto il mondo.
Traducila in altre lingue se necessario!


Non cancellarla.

Sprecherai solamente un minuto del tuo tempo
nell’inviarla ad altre persone.

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martedì 1 dicembre 2009

LA CARRIERA

"MI AIUTI A RICORDARE DOVE POTREMMO GIA' ESSERCI INCONTRATI"
NEL LONTANO 19... I TENENTI, COLLEGHI DI CORSO IN ACCADEMIA, BIANCHI E ROSSI, SI RICONTRANO IN FIRENZE PRESTANDO SERVIZIO PRESSO LA CASERMA ZANZIBAR. SONO ANNI DI INTENSA AMICIZIA. HANNO MODO DI FREQUENTARSI PER MOLTO TEMPO E STRINGERE NEL TEMPO UN VINCOLO DI AMICIZIA, A TRATTI ANCHE FRATERNO.
DOPO TANTO TEMPO MENTRE IL CAPITANO BIANCHI VIENE TRASFERITO A ROMA E COSì PERCORRE UNA BRILLANTE E FULGIDA CARRIERA, IL COLEGA ROSSI VINE DESTINATO IN UN ANONIMO LUOGO PERIFERICOE NON HA MODO DI SEGUIRE LE ORME DELL'AMICI COLLEGA.
ACCADE QUINDI CHE IL ROSSI PER CASO TROVANDOSI PRESSO L'ORGANO CENTRALE XY INCONTRA NEI CORRIDOI BIANCHI, NEL FRATTEMPO DIVENUTO GENERALE ALLA VISTA DEL QUALE CON MODO AFFABILE ED AMICHEVOLE TENTA L'APPROCCIO CON UN "CARISSIMO, DA QUANTO TEMPO....... CHE PIACERE!!!"
MA DI RIMANDO IL BIANCHI IN MODO FREDDO E SEVERO E CON UN BARLUME DI IRONICA SIMPATIA E CON FARE PERPLESSO, AFFERMA.....
MI AIUTI A RICORDARE DOVE
POTREMMO GIà ESSERCI INCONTRATI......"

domenica 1 novembre 2009

Commemorazione dei Defunti
e
Giorno dell'Unità Nazionale
Programma 2009
Sabato 31 ottobre 2009
Conferenza sul tema:
I Cacciatori delle Alpi nella Storia di Spoleto
exursus storico-risorgimentale
coordina Francesco Fuduli
ore 9,45. Complesso Monumentale di San Nicolò
Le campagne del 1859 e del 1866
Ten. Col. Osvaldo Biribicchi
I Cacciatori delle Alpi a Cortina, Falzarego, Col di Lana e sulle Tofane 1915-1918
Gen. Massimo Coltrinari
I Cacciatori delle Alpi nella seconda Guerra Mondiale
Dott. Giovanni Cecini
Lunedi 2 Novembre 2009
ore 10,30 - Cimitero Monumentale di San Salvatore. Santa Messa
Celebrata da S.E.R. Mons. Renato Boccardo
Sacrario dei caduti:deposizione di Corone d'Alloro
Mercoledì 4 novembre 2009
ore 10,30 Piazza Garibaldi
Alzabandiera
Lettura del Messaggio del Capo dello Stato
Saluto del Sindaco
saranno preseti:
una compagnia del reggimento "Granatieri di Sardegna"
Rappresentanze delle Forze Armate
dei Corpi Armati dello Stato
L'U.N.U.C.I.,
Le Associazioni Combattentistiche e d'Arma
La Croce Roosa Italiana
La Protezione Civile
Partenza autobus per Colle Attivoli
Ore 11,30 Colle Attivoli
Deposizione corone d'aloro al Monumento ai caduti
La caserma Giuseppe Garibaldi
sede del Comando del II Battaglione "Cengio" del 1° Reggimento "Granatieri d Sardegna"
sarà aperta alle Scuole ed alla Cittadinanza tutta dalle 11,30 alle 13.00
Con questa manifstazione ricordiamo i 600.000 Caduti in combattimento ed i 100.ooo morti in Prigionia immolatesi per completare
l'Unità d'Italia
Alle nostre Forze Armate,
che in ogni parte del mondo portano il Tricolore,
quale emblema della Pace,
vada il nostro riconoscimento
La Sezione dell'Unione Nazione Ufficiali in Congedo d'Italia
UNUCI
di Spoleto

venerdì 31 luglio 2009


Napoleone e i principi dell’arte della guerra
 
Une armée n’est rien que par la tête
 

Napoleone a Sant’Elena affermò, conscio delle sue eccezionali qualità, che anche dopo la sconfitta di Waterloo di lui si sarebbe parlato in futuro mentre invece i suoi avversari sarebbero stati dimenticati. Anche in questo la sua intuizione è stata esatta: pare che su Napoleone Bonaparte siano state scritte più opere che su qualsiasi altro personaggio storico.
Napoleone aveva sicuramente assimilato la teoria dell’arte della guerra sin dai tempi della scuola di Brienne, alla quale l'aveva iscritto il padre e, soprattutto, alla scuola militare di Parigi, dove però i risultati negli studi non furono brillanti: diventò infatti sottotenente di artiglieria classificandosi tra gli ultimi del suo corso.
Ciò peraltro non deve stupire se si pensa che Napoleone era un piccolo nobile di una provincia d'oltremare, la Corsica, in mezzo ai più noti rampolli della grande nobiltà francese che lo prendevano in giro per la sua pelle olivastra e la scarsa conoscenza del francese. Anche allora probabilmente non era estraneo il principio della raccomandazione.
Inoltre, non si deve dimenticare che Napoleone Buonaparte (così si chiamava fino al marzo del 1796, quando francesizzò il proprio nome in Bonaparte) non padroneggiava la lingua francese come i suoi compagni di scuola ed eccelleva in matematica ma non nelle altre materie.
La teoria ha codificato i principi dell’arte della guerra sostenendo che essi sono immutabili nel tempo. Nella storia moderna i maestri in materia sono stati, come tutti sappiamo, Machiavelli e Clausewitz e nei testi didattici delle scuole militari moderne sono ormai consolidati alcuni principi fondamentali che tutti conosciamo, come la massa, la velocità, la sorpresa.
Machiavelli è stato sicuramente studiato da Napoleone ed è stata pubblicata anche un'edizione de "Il principe" annotata da Napoleone; il testo sarebbe stato ritrovato nella carrozza dell'imperatore al rientro dall'infausta campagna di Russia. Le annotazioni di Napoleone appaiono verosimili perché sostanzialmente confronta la figura del principe con se stesso, ma si ritiene che l’opera sia sostanzialmente apocrifa.
Clausewitz, invece, ha scritto la sua opera "Della guerra" avvalendosi delle esperienze e degli ammaestramenti tratti anche e soprattutto dalla strategia e dalla tattica napoleonica.
Il celebre aforisma di Clausewitz "La guerra non è soltanto un atto politico, ma un vero strumento politico: una prosecuzione dell'attività politica, una sua continuazione con altri mezzi" è una perspicace osservazione della vicenda napoleonica.
Bonaparte fu prevalentemente un autodidatta ed era notoriamente un grande lettore e conosceva approfonditamente i classici della storia e della strategia, da Tito Livio a Giulio Cesare e Machiavelli, per non citare che i più noti, e ne portava i testi con sé anche durante le campagne di guerra. Derivò però la sua vera cultura in tema di strategia e di tattica soprattutto dagli insegnamenti del Maresciallo Maillebois, un condottiero francese della metà del settecento che egli studiò e apprezzò in modo particolare.
Napoleone tuttavia non fu mai un teorico bensì un grande pragmatico. Le memorie che dettò a Sant'Elena possono apparire come una codificazione di principi dell'arte della guerra che egli aveva sperimentato e padroneggiato. Non è così: sono piuttosto un tentativo brillantemente riuscito di mettere in rilievo per la posterità le sue straordinarie capacità non solo di ingegno ma anche di lavoro, determinazione e soprattutto di ambizione.
Napoleone Bonaparte durante le sue campagne, sia come giovane generale, sia come Primo Console e anche come imperatore, ha applicato i principi dell'arte della guerra in maniera intuitiva e pragmatica; egli stesso sostiene, infatti, che nessuna battaglia è uguale alla successiva e che nessuna battaglia è condotta e terminata come era stata pianificata.
Il piano strategico-tattico preventivo è indubbiamente necessario ma è ancor più necessario, affermava, avere il coraggio e la capacità di adattarlo alla situazione del momento e all'evolvere del conflitto ().
L’immaginario collettivo è, ad esempio, affascinato dalla vittoria di Austerlitz nella campagna del 1805 contro la terza coalizione (Inghilterra, Austria e Russia) che si concluse appunto con quella celeberrima battaglia.
Ma quella campagna non fu caratterizzata solo dall’esito della giornata di Austerlitz ma, soprattutto, dalla determinazione e dalla capacità dell'Imperatore di spostare nel giro di un mese dalle coste della Manica un esercito di 300.000 uomini, con i quali si riprometteva di invadere l’Inghilterra, attraversare vittorioso tutta l'Europa per giungere oltre Vienna, ad Austerlitz appunto, concentrando nel momento e nel luogo più idoneo le forze per battere la coalizione avversaria ().
Ritengo che sia più interessante, piuttosto che analizzare sotto il profilo teorico la genialità di Napoleone, conoscerne le vicende più significative. In altri e più chiari termini s’impara di più la strategia e la tattica studiando l’evoluzione delle campagne dei grandi condottieri piuttosto che mandare a memoria il Clausewitz. Ho scelto a questo scopo le fasi iniziali delle due campagne d'Italia del 1796 e del 1800, dove egli, ancora giovanissimo (nel 1796 aveva solo 27 anni), seppe agire con quella genialità pratica che è l’essenza della sua arte della guerra.
Non a caso ho scelto queste due campagne, anche se altri eventi bellici successivi hanno un maggior valore nell'immaginario collettivo (mi riferisco alle battaglie di Austerlitz, Jiena o Wagram, per non citare che alcune delle 100 battaglie combattute da Napoleone).
Si tratta di operazioni belliche condotte su un territorio che noi italiani ben conosciamo ma soprattutto, più che nelle altre, da esse si può capire come Napoleone abbia armonizzato brillantemente movimento, massa e sorpresa e come esigenze politiche, esigenze strategiche ed esigenze tattiche siano state un insieme inscindibile nella sua mente.
 
La fase iniziale della prima campagna d’Italia ()
Nel 1796 durante la guerra contro la prima coalizione (Inghilterra, Austria, Piemonte) il Direttorio riteneva che il fronte principale fosse a nord delle Alpi e considerava le operazioni dell’Armata d’Italia secondarie e destinate solo a fare cassa nella ricca Italia.
L’offensiva di Bonaparte ribaltò la gravitazione degli sforzi e le sue brillanti vittorie furono la dimostrazione della bontà della sua strategia. Contravvenne anche alle direttive del Direttorio che intendeva salvaguardare il Piemonte dei Savoia mentre egli volle neutralizzarlo e costringerlo a una pace separata. Partendo da Nizza arrivò quasi alle porte di Vienna. La sua genialità rifulse nella prima parte della campagna, quando aveva di fronte ancora le due armate piemontese ed austriaca.
Contro due armate, una austriaca di 40.000 uomini al comando del feldmaresciallo Beaulieu e una piemontese di 42.000 uomini al comando del feldmaresciallo Colli, avendo a disposizione 47.000 uomini in pessime condizioni, facendo leva sulla disciplina ma anche sulla promessa di onori e di bottino, riuscì a galvanizzare una truppa sfiduciata, senza soldo, senza viveri e senza scarpe, a separare le due armate, battere la piemontese costringendola, dopo appena un mese dall’inizio delle ostilità, all’armistizio di Cherasco e proseguire poi contro gli austriaci. Fu certo aiutato in questo dalla mancanza di cooperazione tra gli avversari che fecero a gara per farlo vincere.
In sintesi, gli austriaci e i piemontesi commisero errori esiziali:
operarono con obiettivi divergenti (salvare Torino e salvare Milano) ed esclusivamente in difensiva;
non strinsero un patto di comando unico;
disseminarono le forze (doppie dei francesi);
non coordinarono operazioni di soccorso reciproco;
non sfruttarono successi locali, che pur ci furono.
Bonaparte non fece invece praticamente errori e l’offensiva che condusse all’armistizio di Cherasco fu una guerra lampo "ante litteram".
La fase iniziale della seconda campagna d’Italia ()
Anche nella seconda campagna risalta, prima ancora che l’aspetto tattico, la grande intuizione strategica. Bonaparte, Primo Console, costituì in brevissimo tempo un’armata di riserva a Digione, valicò le Alpi dove nessuno lo aveva immaginato possibile, aggirò l’intera armata austriaca protesa dal Piemonte verso la Provenza sull’onda dei successi ottenuti l’anno precedente, realizzando così la sorpresa non solo in campo tattico ma addirittura strategico. Battè infine l’armata austriaca al comando del feldmaresciallo von Melas a Marengo (14 giugno 1800).
Marengo non fu però il capolavoro di Bonaparte che egli si sforzò di far credere, in verità riuscendoci. Tanto fu brillante la manovra che condusse l’armata francese nella pianura padana alle spalle degli austriaci quanto la condotta dello scontro di Marengo fu miope. Napoleone errò nella valutazione delle intenzioni del nemico e disperse le forze. Il Corpo di Desaix solo fortunosamente ritornò in tempo sul campo di battaglia.
La battaglia di Marengo non consentì l’annientamento dell’Armata di von Melas, lasciò i contendenti alla sera del 14 giugno sulle stesse posizioni sulle quali si trovavano al mattino, indebolì quasi nella stessa misura austriaci e francesi. Fu vinta da Bonaparte solo perché il Comandante in capo austriaco non trovò di meglio che arrendersi spontaneamente. Marengo non pose termine alla guerra che sarebbe terminata solo a febbraio dell’anno successivo (Pace di Lunéville), dopo la vittoria, questa sì determinante, del Generale Moreau a Hohenlinden nel dicembre del 1800.
Il felmaresciallo von Melas accumulò sbagli su sbagli:
perse l’occasione di occupare la Provenza in primavera;
sottovalutò l’Armata di riserva e non averla bloccata sulle Alpi;
disseminò l’Armata in Piemonte e in Lombardia;
accettò lo scontro invece di portarsi verso Mantova o Genova;
suddivise la propria cavalleria, che era un punto di forza determinante;
non effettuò ricognizioni sul terreno, pur avendo preso l’iniziativa;
costituì colonne d’attacco "ad hoc" smembrando reparti organici;
informò scarsamente i Comandanti in sottordine sul piano d’operazioni;
non motivò i reparti alla vigilia della battaglia;
abbandonò al nemico il giorno 13 sera proprio l’area di Marengo che il giorno dopo fu costretto a riconquistare a caro prezzo.
A Marengo anche Bonaparte non fu però immune da errori:
non individuò a tempo le intenzioni offensive degli austriaci;
distaccò tre Divisioni (Desaix e Lapoype) in inutili esplorazioni;
non perseguì l’annientamento dell’Armata austriaca.
 
Conclusioni
Napoleone fu indubbiamente un grande tattico ma soprattutto fu un grande stratega. Si celebrano le sue battaglie ma si trascura il fatto che a quelle battaglie vinte Napoleone giunse attraverso concezioni strategiche ad amplissimo respiro, soprattutto per allora (). In entrambe le campagne d’Italia non furono solo importanti le singole battaglie ma grandioso e ardito disegno strategico che ne fu la premessa.
Le vicende della prima e della seconda campagna d’Italia () insegnano che tra i principi dell’arte della guerra sia da aggiungere "saper approfittare della fortuna" e non è un paradosso. Essa ha giocato un ruolo molto importante in queste due campagne e non solo in queste: a Marengo Desaix avverte il rombo del cannone e arriva in tempo mentre a Waterloo Grouschy, inviato da Napoleone fuori dell’area della battaglia, sente il rombo del cannone ma non rientra, ritenendo di dover eseguire il primitivo ordine dell’imperatore. Gli esiti furono ovviamente opposti.
Emblematica, sotto questo profilo, l’operazione Voltri nella prima campagna, voluta dal suo predecessore, da lui non condivisa ma utilizzata per distrarre forze nemiche dalla direttrice di gravitazione dello sforzo ().
Adottò sempre rapidi mutamenti degli schieramenti e delle direzioni d’attacco in funzione dell’evolvere delle situazioni () ().
Seppe con intelligenza suddividere i reparti sul territorio, mantenerli leggeri per muovere più agevolmente (), per sopravvivere con approvvigionamenti e saccheggi e per confondere il nemico sulla direzione dello sforzo principale, e concentrarli nel momento decisivo per realizzare la massa facendo leva sulla velocità di spostamento delle truppe ().
"L’Imperatore fa la guerra con le nostre gambe" dicevano i "grognard"(). I soldati francesi erano in prevalenza contadini di leva, che muovevano solo con l’armamento, il munizionamento e quei pochi viveri che venivano distribuiti, dormivano all’addiaccio al fuoco dei bivacchi quando non trovavano case coloniche dove rifugiarsi ().
Ciò, al contrario degli austriaci, militari di carriera i quali, come scrisse Napoleone a Sant’Elena, non si capiva come facessero a combattere così appesantiti.
Aveva un rapporto privilegiato con i soldati che a Lodi lo soprannominarono "il piccolo caporale" e che chiamava i miei figli, anche se poi non esitava a sacrificarli a migliaia, anziché con i generali che teneva piuttosto a distanza, e visitava i reparti con frequenza (a differenza degli austriaci) ().
Una sua costante preoccupazione fu la ricerca della sorpresa attraverso la scelta di linee d’operazione alternative e dovunque mantenendo il segreto sulle proprie intenzioni ().
Ebbe l’intuizione e sperimentò l’impiego delle artiglierie a massa anziché disperderle a supporto diretto dei singoli reparti (). Privilegiò anche l’impiego a massa della cavalleria; nell’Armata di riserva la cavalleria era tutta al comando di Murat, mentre gli austriaci, pur avendo reparti di cavalleria ben più efficienti ed equipaggiati dei francesi, non seppero impiegarla a massa, cosa che avrebbe cambiato l’esito della battaglia ().
Napoleone può essere considerato l’inventore delle unità complesse pluriarma (Divisioni e Corpi d’Armata) da utilizzare come pedine autonome, mentre gli austriaci consideravano il reggimento solo come unità organiche e non necessariamente operative, che in combattimento potevano essere scisse per ricostituire altri reparti "ad hoc".
Per quanto riguarda l’organizzazione di Stato maggiore, è’ noto che Berthier fu il Capo di Stato maggiore per eccellenza di Napoleone, bravo a tavolino, meno quale Comandante. Occorre però precisare che Bonaparte utilizzò gli Stati maggiori quasi esclusivamente come organi per la redazione e la diffusione delle sue direttive verbali, piuttosto che come organo di consulenza in senso moderno.
La consapevolezza della sua superiorità oppure l’urgenza gli faceva spesso scavalcare lo Stato maggiore e colloquiare direttamente con i Comandanti in sottordine. Inoltre, sovrapponeva più canali per far giungere lo stesso ordine, a causa del rischio che i corrieri a cavallo potessero essere intercettati.
La logistica e l’organica non dovevano costituire un ostacolo al perseguimento dei movimenti e delle operazioni: l’armata di riserva che scavalcò le Alpi fu completata e approvvigionata marcia durante e ancora quando era giunta di a sud dei passi alpini.
In sintesi, Bonaparte applicava i principi fondamentali della guerra in modo intuitivo con audacia e grande flessibilità, contro avversari lenti e metodici, che operavano con concezioni mutuate dai loro predecessori () (). Sostanzialmente nessun nuovo principio ma una determinata pragmatica e realistica applicazione degli stessi. Perseguiva i propri obiettivi con grande determinazione, senza mai darsi per vinto, costi quel che costi anche in vite umane.
Curiosamente ed inspiegabilmente, Napoleone non promosse l’innovazione nei mezzi e nei materiali: il fucile era quello del 1777 ad avancarica e laborioso da impiegare (Mod. Charleville), con una gittata utile di 100 metri, così come le artiglierie che risalivano alle realizzazioni di Gribeauval.
Voglio terminare con un’altra caratteristica di genialità di Bonaparte, la sua capacità di rappresentare gli eventi a proprio uso e consumo, con una maestria nell’arte della comunicazione che aveva già messo in luce nella prima campagna, modificando fatti, tempi e perdite, ad uso della fama delle sue truppe ma soprattutto sua (). Ciò che non gli riuscì sul campo gli riuscì nella propaganda.
Il resoconto francese della battaglia di Marengo (ma dovrei dire i resoconti perché ne esistono ben quattro, l’ultimo dei quali presentato a Napoleone Imperatore proprio a Marengo nell’anniversario della vittoria) fu via via addomesticato, stravolto e mistificato sin dal primo momento e negli anni successivi; furono redatte quattro relazioni successive francesi, nelle quali si volle dimostrare che l’esito della battaglia non fu dovuto al caso ma a una precisa decisione strategica del Primo Console. Lo scopo era evidente: si trattava di una provvidenziale vittoria che consentiva al Primo Console di consolidare il proprio potere in Francia, anche se non concludeva la guerra contro l’Austria.
Sotto il profilo della mitizzazione del Personaggio, è emblematica la rappresentazione del passaggio del Primo Console sul Gran San Bernardo: il famoso quadro di David con Napoleone su un cavallo bianco. La realtà è ben diversa: lo superò a dorso di mulo e rischiò pure di cadere in un burrone.
 
 
 

mercoledì 1 luglio 2009

Si ricorda che il museo valdese di Torre Pellice, in via Beckwith 3, sarà aperto in luglio e agosto tutti i giorni dalle 16 alle 19.

NOVITA'
Sono disponibili le audioguide in italiano e in inglese a 1,50 euro; 2 euro insieme alla guida cartacea.

Insieme al museo sono visitabili: selezione di dipinti di Paolo Paschetto; le collezioni archeologiche; la mostra "Giovanni Calvino (1509-1564) Un progetto di società" e la mostra "Vent'anni al Centro" sui vent'anni di attività del Centro culturale valdese (info: www.fondazionevaldese.org)

lunedì 20 aprile 2009



EDIZIONE NUOVA CULTURA
RICOSTRUZIONE E LO STUDIO DI UN AVVENIMENTO
MILITARE
COLTRINARI M. - COLTRINARI L.
ISBN 978886134267
pagg. 292 - 2009 - € 18,50
f.to 17X24
Collana >
Il volume si prefigge di fornire, a studenti e ricercatori, prendendo le mosse dai dettami e
finalità del Progetto "Storia in laboratorio" promosso dalla Associazione Combattenti
della Guerra di Liberazione volto a divulgare e far conoscere la Storia alle nuove
generazioni, uno strumento utile al fine di ricostruire e studiare, il più correttamente
possibile, un evento storico-militare (del passato) proponendo un metodo di analisi
consequenziale.Prendendo a riferimento il fenomeno "guerra", il volume propone
schemi attagliati, anche in combinazione tra loro, alla guerra classica, alla guerra
rivoluzionaria e/o sovversiva, con le più varie accezioni, ed alle recenti peace support
operations, ove, in questo caso, i soggetti protagonisti da due passano a tre (parti in
conflitto/ forze di interposizione o "di pace").Sono "note",suggerimenti che ognuno
dei destinatari può, anzi deve, interpretare secondo la sua creatività, nella più ampia
accezione della libertà di pensiero, rispettando solo i criteri di scientificità e di coerenza,
al solo fine della conoscenza, la più ampia, onesta e completa possibile.
Un volume che vuole essere uno strumento, più da consultare che da leggere.
EDIZIONI NUOVA CULTURA - P.le Aldo Moro 5 00185 ROMA - Per info visitare il sito:
www.nuovacultura.it
Per ordinare il testo invia una e-mail all'indirizzo: ordini@nuovacultura.it
contattare Gennearo Guerriero0697613088 3397010065