martedì 9 maggio 2017
1866 Quattro Battaglie per il Veneto
Si riporta la Prefazione di Giancarlo Ramaccia al Volume
di Massimo Coltrinari
"Quattro battaglie per il Veneto"
di prossima edizione
Prefazione
Il 20 giugno 1866 fu consegnata all’arciduca Alberto
d’Asburgo, comandante supremo delle forze austriache dislocate in Italia, la dichiarazione
di guerra del Regno d’Italia, che fissava al giorno 23 del medesimo mese
l’inizio delle ostilità. Come al solito entrammo in guerra con tre giorni di
ritardo dalla dichiarazione e sei giorni dall’inizio delle ostilità rispetto a
quanto precedentemente pattuito con il nostro alleato prussiano. Tale ritardo non
poteva che irritare notevolmente e aumentare la diffidenza dei vertici
politico-militari di Berlino, che già di loro dubitavano delle buone intenzioni
dei vertici del giovane Regno d’Italia.
In ogni caso la dichiarazione di guerra, presentata
all’impero austro-ungarico, fu accolta nel paese con grandi manifestazioni di
consenso, accese grandi aspettative nella popolazione e produsse una straordinaria
eccitazione patriottica, come ben documenta, nel suo diario, Sidney Sonnino,
allora giovane ed entusiasta patriota toscano: “Gran giorno per l’Italia! Per la prima volta in tutta la sua storia
essa si solleva tutta a rivendicare sola il suo diritto! Mai, mai si è visto un
fatto simile. Felici noi che vi assistiamo!”[1]. Per il Sonnino, come per molti se non per
tutti, la nuova guerra sarebbe stata breve e vittoriosa. In nessun caso si
valutarono le conseguenze di una possibile sconfitta. Dopo le non brillanti
vicende militari degli anni precedenti, come la guerra del 1848/49, il buon
senso avrebbe dovuto suggerire una valutazione
“più cauta” da parte dei vertici politico-militari italiani. Invece, l’essere
sconfitti risultava impensabile e inaccettabile da tutti gli appartenenti al
nostro ceto dirigente, anche perché le conseguenze politiche erano troppo
spaventose da sostenere per il giovane e debole Stato unitario. Poi gli
Austriaci non combattevano su due fronti? Il nuovo esercito italiano contava
ora ben venti divisioni e non più le cinque piccole divisioni del Regno di
Sardegna della guerra precedente. La nostra flotta era il doppio di quella
austriaca e con un numero maggiore di
corazzate, dodici contro le sette austriache, quindi sulla carta e solo sulla
carta il Regno d’Italia aveva tutti i numeri e il diritto di aspettarsi una
vittoria. Anche per questo motivo ciò che avvenne nelle settimane successive fu
traumatico e profondamente doloroso per tutto il Paese.
Per comprendere al meglio la situazione si deve ampliare il
quadro alle vicende politiche degli anni precedenti e agli enormi problemi che
il giovane Stato dovette affrontare. Ben cinque furono le questioni principali
e tutte intrecciate tra loro, ossia: il brigantaggio in larga parte del Paese;
la crisi economica; la morte del Conte di Cavour; la questione romana e la
conseguente crisi dei rapporti con la Francia, in particolar modo con
l’imperatore Napoleone III; la costruzione del nuovo Esercito unitario.
Tralasciamo le questioni minori ma che minori, per il giovane nascente Stato
unitario, non furono.
Il 15 febbraio 1861 il Re delle Due Sicilie Francesco II di
Borbone, proclama la resa della fortezza di Gaeta dove si era rifugiato dopo le
sconfitte subite ad opera dell’armata garibaldina e il successivo intervento
sabaudo, imbarcandosi, dopo una lunga trattativa diplomatica, su una nave
francese che lo porterà a Roma dove rimarrà in esilio, ospite di Papa Pio IX.
Solo dopo il gen. Cialdini potrà occupare la cittadina laziale che ha assediato
e bombardato per ben 102 giorni. Successivamente anche le guarnigioni
borboniche della cittadella di Messina e quella di Civitella del Tronto (A.P.)
si arrenderanno definitivamente, ma nuclei rimasti fedeli a Francesco II continueranno
a combattere unendosi a bande di contadini poveri e briganti, dando vita a una
lunga guerriglia a cui si darà il nome di “brigantaggio”.
Questa insorgenza sociale era frutto di povertà endemica, di
patti agrari esosissimi, di nuovi inasprimenti fiscali, di una nuova ed errata
leva obbligatoria che provocò una disperata guerriglia dei contadini contro i
proprietari terrieri e il nuovo governo “piemontese” che fu abilmente sfruttata
politicamente da chi desiderava restaurare il Regno delle Due Sicilie. La
rivolta armata scoppiò nell’aprile del 1861 in Basilicata e si estese a quasi
tutto il meridione continentale.
Il nascente Regno d’Italia provò inizialmente a mediare
politicamente con i legittimisti borbonici, nel tentativo di contenere il
fenomeno, poi diede seguito ad una feroce e indiscriminata repressione. Migliaia
di insorti, alzando le bandiere bianche borboniche, occuparono province e
paesi, trucidando cittadini comuni, guardie nazionali e scontrandosi con i
soldati italiani. La risposta fu durissima da parte dello Stato unitario:
fucilazioni indiscriminate e senza alcun processo, interi paesi bombardati e
incendiati, deportazioni di massa; tutto ciò accrebbe l’ostilità della
popolazione meridionale nei confronti del nuovo Regno, di “quello dei
piemontesi”. Se i soldati impiegati nel meridione furono non più di 50.000 nel
1861, solo tre anni dopo se ne impiegarono 120.000, ossia circa il 50% delle
forze armate dello Stato. Esse svolsero prevalentemente compiti di ordine pubblico
e di polizia, tralasciando l’addestramento e la preparazione militare, per
dedicarsi, a tempo pieno, a combattere e reprimere questa vera e propria guerra
civile. I dati ufficiali ci dicono che tra il 1861 e il 1865 (un anno prima
dell’inizio della terza guerra di indipendenza) furono uccisi in combattimento
o fucilati 5.212 “cosiddetti briganti” e altri 5.000 furono arrestati e carcerati, ma i dati
ufficiosi parlano e raccontano un’altra verità, ossia di ben 15.000 o 20.000
uomini eliminati. Ciò produsse una lacerazione nel tessuto politico e sociale
di cui a tutt’oggi ne riscontriamo le conseguenze. A questo gravissimo problema
si aggiunse, per il nuovo Stato – che si era costituito a Torino il 18 marzo
1861 con la proclamazione da parte del primo parlamento italiano del Regno
d’Italia – una serie di gravissimi problemi finanziari.
Essi erano il frutto dei costi per l’unificazione nazionale
che comprendevano le spese sostenute per le guerre di unificazione con
l’aggiunta del consolidamento dei debiti ereditati dai periodi precedenti e
dovuti ai sette Stati pre unitari e alle ben nove amministrazioni finanziarie
che avevano sistemi monetari diversi, diversi modi di contabilizzare oltre a
diversi criteri di imposizione fiscale e di riscossione delle imposte. Sommando
tutti questi costi risultò, per il nuovo Stato, un debito pubblico esorbitante,
ossia 111.500.000 lire. A questa enormità si dovette far fronte con soluzioni
che risultarono non risolutive ed efficaci, anzi aggravarono ulteriormente la
già difficile situazione economica.
Allo scoppio della guerra dell’ottantasei questo problema
parve addirittura insormontabile, con le entrate effettive dello Stato che coprivano
appena i due terzi delle uscite e con una sicura prospettiva di incremento,
dovuta alle nuove spese che si dovevano sostenere per la nuova guerra.
All’enorme disavanzo si provvedeva con l’emissione di nuovi titoli di debito a
copertura dei prestiti esteri, proprio nel momento in cui una crisi economica
gravissima si abbatteva sui mercati borsistici europei (Borsa di Londra e
Parigi) dovuta in gran parte agli enormi prestiti americani per la guerra di
secessione e al pagamento delle grandi quantità di cotone importate dall’India,
tra il 1861 e il 1865, per il fermo di produzione del mercato americano.
Inoltre il clima di conflitto che si respirava in tutte le cancellerie d’Europa
creava la giusta miscela per la caduta delle quotazioni dei titoli nelle
principali Borse europee.
Il 6 giugno 1861 il nuovo Regno d’Italia perse il suo
principale artefice, dopo una brevissima malattia, muore a Torino, improvvisamente,
il presidente del Consiglio dei Ministri Camillo Benso conte di Cavour. Egli
era lo stratega, il politico più grande che il nostro Stato unitario abbia mai
avuto, perché pur lasciando alla sua morte fedeli sostenitori del progetto di
unificazione del Paese, non lasciò un vero e proprio erede, nessuno dei suoi
seguaci era in grado di elaborare una strategia per il completamento
dell’unione territoriale e costruire un nuovo Stato alla base di una comunità
ampliata e solidale. Si dà inizio ai governi “brevi” (ben sei ministeri si
succedettero dal 1861 al 1866), a governi che “navigano a vista” con politiche
miopi e di breve durata, incapaci di elaborare e perseguire una strategia di
lungo periodo.
Cavour, invece, nei mesi precedenti alla malattia, aveva
cercato di definire nei confronti della questione romana una netta posizione
governativa. In due discorsi alla Camera, sostenne che solo Roma poteva
ricoprire il ruolo di capitale d’Italia e che era necessario procedere alla sua
liberazione per unire e cementare le diverse popolazioni italiche, ma che ciò
doveva avvenire con “l’accordo” della Francia e senza mai intaccare la libertà
spirituale e l’indipendenza del sommo pontefice. In cambio della cessione del
potere temporale, al pontefice verrebbe corrisposta una cospicua rendita annua.
Era questo il modo di recuperare i rapporti diplomatici con la Francia e in
particolar modo quelli con l’imperatore Napoleone III, dopo le tensioni dovute
all’assedio di Gaeta.
In linea con questa impostazione, il suo successore al
governo Bettino Ricasoli redige un progetto di conciliazione che invia
rispettivamente alla Cancelleria francese e a quella dello Stato pontificio; ma
tale progetto ottiene un netto rifiuto francese ad aprire una qualsiasi
trattativa su quella base.
Nel 1862 a seguito di una delle tante riconciliazioni tra
Garibaldi e Mazzini e con l’appoggio dell’associazione emancipatrice italiana
si progetta una spedizione di volontari a Roma e subito alcuni ufficiali
garibaldini cominciano a raccogliere i volontari. Nel mese di giugno Giuseppe
Garibaldi si reca come privato cittadino in Sicilia ed è accolto da grandi
manifestazioni popolari e affermando la necessità di una spedizione armata per
liberare Roma pone la condizione di trovare un accordo con il re Vittorio
Emanuele II. A Marsala promuove il giuramento “o Roma o morte” e subito l’associazione emancipatrice
italiana fa sua la parola d’ordine e aderisce al giuramento. Alcune settimane
dopo, trasferitosi a Palermo, Garibaldi organizza la legione romana e annuncia
di muovere contro lo Stato pontificio al grido di “Italia e Vittorio Emanuele,
o Roma o morte”. Una grave crisi si profila all’orizzonte con la Francia,
ostile e pronta all’intervento in difesa dello Stato pontificio. Al governo
italiano non resta che decretare (20 agosto) lo stato d’assedio nelle province
napoletane e inviare truppe regolari dell’esercito, al comando del colonnello
Pallavicini di Priola, per bloccare la spedizione. Durante un breve conflitto
sull’Aspromonte, nient’altro che una scaramuccia, Garibaldi, che era al comando
di 1.300 volontari, viene ferito al piede e si arrende, venendo posto agli
arresti. Al diffondersi della notizia, che provoca una grande emozione non solo
in Italia e violente manifestazioni antigovernative, il Rattazzi cerca senza
riuscirci di forzare i tempi di una soluzione diplomatica e infine il 20
novembre 1862 si rassegna e presenta le sue dimissioni dal ministero. I
rapporti con la Francia diventano di nuovo gelidi. Segue un lungo lavorio
diplomatico per ricostruire i rapporti che permetteranno di stipulare un
trattato di libero scambio (17 gennaio 1863) tra i due paesi e nell’anno
successivo di gettare le basi di un accordo sulla questione romana. Gioacchino
Pepoli, inviato dal nuovo governo presieduto da Marco Minghetti, avanza l’idea
di trasferire la capitale d’Italia da Torino ad un’altra città, come segnale
dell’abbandono del progetto di fare Roma capitale d’Italia e in cambio chiede
alla Francia di procedere al ritiro graduale delle sue truppe di stanza nello
Stato pontificio. L’accordo verrà raggiunto ed a Parigi, nell’agosto del medesimo
anno, si procederà alla firma “della convenzione di settembre” (15 settembre
1864), che prevedeva il ritiro delle truppe francesi da Roma nell’arco dei
successivi due anni, per dare il tempo al governo papale di costituire un suo
esercito. In cambio il Regno d’Italia si impegna a rispettare l’integrità dello
Stato pontificio. E’ questo un incredibile gioco delle parti, dove tutto è
ambiguo, infatti i francesi interpretano l’accordo come una rinuncia definitiva
da parte italiana del progetto di Roma capitale, mentre per noi Italiani è
null’altro che il primo passo verso la soluzione delle controversie con la
Francia e un avvicinamento a Roma. Solo Pio IX esprime delusione e manifesta
nuove paure.
Sul versante internazionale ferve la controversia tra la
Prussia e l’Austria sulla sorte dei ducati dell’Holstein, dello Schleswig e del
Lauenburg di proprietà personale del re di Danimarca e che le due potenze hanno
occupato. Entra nel vivo il conflitto, per molti anni latente tra la Prussia e
l’Austria, per il primato e l’egemonia sulla Confederazione degli Stati
tedeschi.
Otto von Bismarck, presidente del Consiglio prussiano, che
già nel 1862 aveva sondato il ministro italiano a Berlino, Da Launay sulla
possibilità di una alleanza italo-prussiana, incarica il suo ministro a Firenze
Conte Usedom di sondare il capo del governo Alfonso Ferrero La Marmora in
relazione a quale atteggiamento avrebbe assunto il suo governo nel caso di una
probabile guerra tra la Prussia e l’Austria. La Marmora risponde che non può
prendere nessun impegno senza prima conoscere quale atteggiamento sarebbe stato
a sua volta preso dalla Francia in merito a tale questione. Per questo motivo
incarica il ministro italiano a Parigi, Costantino Nigra, di sondare sulla
questione il ministro degli Esteri francese Drouyn de Lhuys, il quale suggerì
“prudenza e di attendere gli eventi”. Bismarck, insoddisfatto della risposta
italiana e soprattutto dell’atteggiamento ambiguo dell’Imperatore francese
Napoleone III decise, provvisoriamente, di stipulare la Convenzione di Gestein
con l’Austria, conservando quindi per la Prussia l’amministrazione del ducato
dello Schleswig e lasciando all’Austria il ducato dell’Holstein.
Successivamente all’incontro di Biarritz, tra Napoleone III e Bismarck, dei
primi di ottobre del 1865, Bismarck rassicurato riprese la politica che mirava
ad arrivare alla guerra e ad unificare la nazione tedesca con lì esclusione
dell’Austria. Probabilmente in questo incontro Napoleone III sperò di ottenere
un ingrandimento territoriale della Francia sul Reno e sul Belgio, promettendo
di mantenere la neutralità nel conflitto tra Prussia e Austria, mentre Bismarck
chiese a sua volta l’intervento dell’Italia nel prossimo conflitto, che mirava
a conquistare il Veneto (già promesso da Napoleone III) dal 1859 e poter
attaccare su due fronti l’Austria, come era stato progettato nel Consiglio
della corona prussiana del 29 maggio 1865. A questo accordo verbale fece
seguito da parte di La Marmora un tentativo
di trattativa diretta con l’Austria per ottenere la cessione del Veneto,
contando molto sulla minaccia di una
guerra sui due fronti per ammorbidire l’intransigenza austriaca.
Nell’ottobre del 1865 incaricò un suo rappresentante personale, il conte
reggiano, Alessandro Malaguzzi – Valeri, che aveva autorevoli amici e parenti a
Vienna, di intraprendere una trattativa segreta con il conte Belcredi,
presidente del Consiglio austriaco, per la cessione del Veneto a fronte di una
indennità versata dall’Italia di un miliardo di lire. Pur riscontrando da parte
del governo austriaco un interesse favorevole alla proposta, la dura
opposizione dell’imperatore Francesco Giuseppe e della sua corte fece fallire
la trattativa. Non restava altro che seguire i consigli francesi che invitavano
ad orientarsi verso la politica antiaustriaca di Bismarck.
Il 31 dicembre 1865, Alfonso Ferrero La Marmora costituisce
il suo secondo ministero, dopo una lunga e difficile crisi di governo nata
dalla sfiducia votata dal Parlamento in relazione al decreto legge relativo al
servizio di tesoreria statale da affidarsi alla Banca Nazionale. Provvedimento
economico che avrebbe aggravato ulteriormente la crisi di debito del Regno
d’Italia. Oltre alla presidenza del Consiglio mantenne per sé il ministero
degli Esteri e chiamò al ministero della Guerra il generale Ignazio di
Pettinengo e ai Lavori pubblici Stefano Jacini che fu il suo più ascoltato
consigliere nella fase preparatoria della guerra.
Nel frattempo i rapporti austro-prussiani si fecero sempre
più tesi e aumentarono le probabilità della guerra. A seguito della decisione
presa dal Consiglio dei Ministri prussiano del 28 febbraio 1866, Bismarck
chiesa a La Marmora di inviare a Berlino un alto ufficiale per trattare
un’alleanza militare. La Marmora scelse di inviare il generale Govone con
l’incarico di verificare la preparazione militare prussiana, che
nell’occupazione dei ducati non aveva particolarmente brillato per preparazione
militare e di restare sul vago sulle questioni diplomatiche. Anche perché il
suo invio era stato sollecitato al governo italiano da parte di Napoleone III
che mirava ad una alleanza tra Italia e Prussia. Napoleone III in questa
complicata partita, dalla quale sperava di acquisire per la Francia
ingrandimenti territoriali, con il consenso della Confederazione germanica
usava l’Italia come una pedina da muovere a suo piacimento sullo scacchiere politico
continentale. Egli voleva che l’Italia ottenesse il Veneto ma senza una guerra
o con una guerra non seriamente combattuta in modo tale che il merito fosse suo
e della Francia; in questo modo mirava ad esercitare sul giovane Regno d’Italia
un semi protettorato. Per lui l’Italia unita doveva diventare una potenza di
rango inferiore, strettamente legata agli interessi politico economici
francesi. L’8 aprile 1866 a Berlino, l’Italia firma un trattato segreto di
alleanza con la Prussia, un trattato a “tempo determinato” valido per soli 3
mesi a partire dalla data della firma apposta per noi dal generale Govone e dal
ministro a Berlino conte Barral. Era questa una alleanza “offensiva-difensiva”
in cui l’Italia si impegnava a dichiarare guerra all’Austria appena la Prussia
avesse iniziato le ostilità; ognuno dei due Stati si impegnò a non concludere
armistizio o pace senza il consenso dell’altra, fino a quando l’Austria non avesse
accettato di cedere il Veneto e la provincia di Mantova all’Italia e alla
Prussia territori equivalenti per popolazione.
Il trattato era squilibrato e a favore della Prussia, non
veniva menzionato il Trentino, per un netto rifiuto di Bismark che lo considerava
parte integrante dell’Impero Austro-ungarico, anche se verbalmente e in
privato, garantiva che avrebbe appoggiato tale richiesta una volta giunti al
tavolo della pace e solo se durante la guerra l’Italia fosse riuscita ad
impadronirsi del territorio. Il trattato era alquanto umiliante per l’Italia
per la sua unilateralità, infatti la Prussia non assumeva nessun impegno nei
confronti dell’Italia. Inoltre un madornale errore di valutazione di La Marmora
complicò la situazione, egli rifiutò la proposta avanzata dal generale Govone
di allegare al trattato una convenzione militare, che avrebbe permesso di
conoscere in precedenza i piani prussiani e quindi di coordinare i propri
impegni sulla effettiva condotta della guerra. Ciò generò ulteriore diffidenza
da parte prussiana sulla reale volontà italiana di condurre la guerra con
impegno ed energia. Era impensabile per i nostri governanti una politica
diversa perché troppo esposti politicamente e finanziariamente con l’ambigua
politica di Bonaparte.
Il 3 maggio 1866 il governo prussiano iniziò la
mobilitazione e a seguito di ciò il 5 maggio il governo austriaco fece sapere a
Parigi di essere disposto a cedere il Veneto a Napoleone III, affinchè tramite
lui fosse ceduto all’Italia a patto che l’Italia rompesse l’alleanza con la
Prussia e si dichiarasse neutrale. La Marmora, colto di sorpresa dall’offerta
austriaca, rifiutò cercando al tempo stesso di guadagnare tempo e proponendo un
congresso internazionale con le principali potenze del Continente per definire
la controversia tra Italia-Prussia-Austria. Questa proposta sfumò
definitivamente alcune settimane dopo quando una nota austriaca (1 giugno)
dichiarò di essere pronta a partecipare al congresso a patto che fossero
esclusi dalle risoluzioni finali modifiche e ingrandimenti territoriali. Il 12
giugno avveniva la rottura definitiva delle relazioni diplomatiche tra Berlino
e Vienna e nello stesso giorno, sempre a Vienna, veniva firmato un accordo tra
l’Austria e la Francia, in base alla quale la Francia si impegnava a rimanere
neutrale nel conflitto che opponeva l’Austria alla Prussia; Napoleone III si
impegnava a sua volta a fare il possibile perché l’Italia restasse neutrale o
conducesse la “guerra senza impegno” e l’Austria a sua volta si impegnava a
cedere il Veneto a Napoleone III al quale garantiva ulteriori compensi
territoriali nel caso di vittoria da parte sua e con modificazioni territoriali
in Germania. Infine Napoleone III si impegnava a sua volta a cedere il Veneto
all’Italia in cambio di una indennità all’Austria e del riconoscimento da parte
italiana del potere temporale dei papi. Il giorno stesso della firma, Napoleone
III convocò il ministro italiano a Parigi, Costantino Nigra, e nel colloquio
che seguì informò ufficialmente di quanto sottoscritto a Vienna e chiese a
Nigra che “l’Italia non facesse guerra con troppo vigore”.
Otto giorni prima della dichiarazione di guerra all’Austria,
per noi la guerra era già vinta . A questo punto il 17 giugno (giorno della
dichiarazione di guerra della Prussia all’Austria) Alfonso Ferrero La Marmora
si dimette da presidente del consiglio restando in ogni caso ministro senza
portafoglio e assume il comando dello Stato maggiore raggiungendo il Re al
fronte. Al suo posto di Presidente del Consiglio subentra Bettino Ricasoli che
ad interim assume anche il ministero degli esteri e quello dell’interno.
Inizia la terza guerra d’indipendenza e dà vita alle sue
battaglie che l’autore del testo, l’amico Massimo Coltrinari, ricostruisce con
perizia e nel dettaglio, con la perizia e la precisione propria dello storico
militare e del militare di carriera, più precisamente dell’ufficiale in
servizio di stato maggiore fedele ai principi e alla filosofia di chi ideò e
progettò tale servizio; ossia uno dei massimi protagonisti di questa guerra il
generale Helmuth Karl Bernhard von Molke capo di stato maggiore dell’esercito
prussiano nella guerra dell’86.
Ogni guerra ha caratteristiche sue proprie e differisce
dalle precedenti, questa ha caratteri suoi peculiari; è la prima del giovane Regno
d’Italia; la forza italiana è quadruplicata in confronto a quella del Regno di
Sardegna, 20 divisioni contro 5; la Cavalleria, anche se pesante, muove 100
squadroni e solo l’artiglieria è poco numerosa, anche se di maggior calibro il
che la rende meno mobile. La deficienza maggiore, per il nostro esercito
riguardava il “quadro ufficiali” fortemente eterogeneo (ciò era dovuto
all’assorbimento nell’esercito sardo dei quadri di diversa provenienza:
borbonica, toscana, dello Stato Pontificio e dell’armata garibaldina) e di
diversa preparazione e capacità militare. In modo particolare mancavano
comandanti capaci a livello di battaglione e di reggimento. I comandanti di
brigata erano personalmente coraggiosi, ma la loro cultura professionale era a
dir poco scarsa. Per non parlare della totale assenza di uno Stato Maggiore e
di vertici politico militari in concorrenza e in contrasto tra di loro. Ai
nostri 258.000 combattenti effettivi (250.000 del Regio esercito più 38.000
volontari garibaldini) su 565.000 uomini mobilitati con 462 cannoni si
opponevano 61.000 combattenti austriaci su 190.000 mobilitati e 152 cannoni,
con un rapporto a nostro favore di tre a uno, eppure non riuscimmo a vincere
sul campo. Non avevamo un piano, dividemmo le nostre forze tra il Mincio (12
divisioni) e il Po (8 divisioni), dividemmo il comando tra La Marmora e il
Cialdini ed infine il primo giorno di scontro ci demmo per vinti con ben 15
divisioni integre che non avevano preso parte neanche ad una scaramuccia e con
320.000 uomini di riserva. Alla “figuraccia” del nostro esercito i vertici
politico militari cercarono di rimediare sul fronte del mare, dove la nostra
flotta, potente “sulla carta e non sul mare”, regalò al Paese un’altra
umiliante sconfitta.
Arrivati a questo
punto non ci restò, il 3 settembre 1866, che firmare la pace che conservava
l’umiliante clausola della cessione del Veneto all’Italia attraverso la
consegna da parte della Francia di Napoleone III. L’imperatore d’Austria
Francesco Giuseppe riconobbe il Regno d’Italia, riconsegnò la “corona ferrea”
che gli Austriaci al termine della guerra del 1859 avevano portato a Vienna e
noi ci accollammo altri 91 milioni di debito pubblico del Veneto.
Questa nostra prima guerra in Italia fu un’ impresa
assolutamente deludente e generò durissime polemiche in tutto il Paese negli
anni successivi. I nostri vertici politico – militari a cominciare da Alfonso
Ferrero La Marmora e dal Cialdini furono impari al loro compito, non seppero
impostare e condurre con efficienza la guerra anche perché il governo italiano
preparò diplomaticamente la guerra con la speranza di non farla e con la
certezza di aver ottenuto il proprio premio ancora prima di iniziarla.
La brutta figura e la rabbia popolare crescente nel paese
imposero di trovare un colpevole e quindi, il 1 dicembre 1866, fu arrestato
l’ammiraglio Persano per essere giudicato dal Senato, costituito in Alta Corte
di giustizia, sulle sue responsabilità nella battaglia di Lissa, ma molti altri
avrebbero dovuto comparire con lui come chiaramente afferma Carlo Cattaneo in
una sua lettera inviata il 9 ottobre 1866 al senatore Giuseppe Muzio: “Ormai,
nella memoria della nazione e delle nazioni – e nella coscienza del soldato –
Custoza e Lissa sono parte d’un reato solo. Nessuno ha ormai forza di
sciogliere quel nodo. Il Senato è giudice unico e supremo dei colpevoli: può,
se vuole, assolver tutti, ma deve giudicare tutti. Anzi, se v’è reato, il suo
punto culminante è già Custoza. Lissa è il tardo e inutile strascico d’una
guerra morta. Se potè avere un proposito doloso, è solo in quanto fosse intesa
a ostentare, oltre ad un’impotenza militare del Regno, anche una impotenza
marittima. Solo la presenza d’un accordo segreto può spiegare un simulacro di
guerra di cui non v’ha forse esempio al mondo. Esser liberi d’ogni movimento, anche
nelle giurisdizioni federali germaniche del Tirolo e dell’Istria; avere a
fronte un nemico già umiliato e vacillante, ricinto, fin entro le sue montagne,
le sue fortezze e le sue navi, da tre milioni di popolo fremente; avere in pugno
più di 300.000 soldati; portarne al fuoco, per volontà premeditata, nemmeno la
quinta parte; e darsi vinti, come per “disastro irreparabile” è una sì strana
prova d’arte militare che non è lecito imputarla a nudo errore. Il Senato non
può esigere il rendiconto di Lissa senza esigere il rendiconto di Custoza (…).
A Lissa non si vede come a Custoza il proposito sofistico di vincere senza
vincere, non si vede l’umile accordo con lo straniero imperioso, il vile
accordo col burbero nemico, non si vede il traffico dell’onore col guadagno, la
guerra finta eppur sanguinosa che pone per sempre nel cuore del soldato non la
fiducia della vittoria, ma il ghiaccio del sospetto. E’ per queste arti indegne
che l’Italia aveva perduto a memoria nostra l’onore delle armi” [2]Centocinquant’anni
dopo queste parole di Cattaneo, che colgono nel segno tutto l’ operato della
guerra dell’’86 e che invitano al rinnovamento morale e culturale del Paese per
divenire uno Stato moderno, ci appaiono terribilmente attuali nella nostra
terra italica, nella terra dei “gattopardi”, dove tutto sembra che cambi, ma
dove non cambia mai nulla.
Giancarlo Ramaccia
venerdì 21 aprile 2017
Comprendere la Grande Guerra
ISTITUTO
DEL NASTRO AZZURRO
FRA
COMBATTENTI DECORATI AL V.M.
Presidenza
Nazionale
Centro
Studi sul Valore Militare
INVITO
Giovedì 27 aprile
2017 ore 17
In occasione della Giornata del
Decorato che si terrà ad Arezzo il 28-30 aprile 2017
Il Presidente Nazionale
Gen. Carlo Maria Magnani
Ha l’onore di invitare la S.V.
AL V
INCONTRO CON L’AUTORE
Tommaso
Gramiccia
Che presenterà il Volume
Comprendere la Grande Guerra
Dal Primo al Secondo anno di
guerra 1915-1916
Atti del convegno in occasione della Giornata del Decorato
Salò 23-24 aprile 2016
Saranno presenti i
Curatori, Massimo Coltrinari e Giancarlo
Ramaccia
ROMA
Presidenza Nazionale Nastro Azzurro Sala
Maggiore
Piazza Galeno 1 . V.le
Regina Margherita
centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org
mercoledì 19 aprile 2017
venerdì 24 marzo 2017
La prima Guerra Mondiale
I Volumi che sono stati oggetto della conferenza di ieri presso la Sede sono disponibili per tutti i Soci presso la Presidenza della Sezione.
chi desidera acquistarli può farlo direttamente alla
casa editrice
ordini@nuovacultura.it
o
contattando l'autore alla email
direttore.cesvam@istitutonastroazzurro.org
mercoledì 22 marzo 2017
22 marzo 2017 ore 16,30. Incontro con i Soci
CONFERENZA
"I PRIMI DUE ANNI DI GUERRA"
L’Italia, l’entrata in guerra ed il tradimento degli Imperi Centrali” 1914-1916
di Massimo Coltrinari
La conferenza ha lo scopo di illustrare gli
avvenimenti diplomatico-politici-militari nel momento della rottura degli equilibri europei
a seguito dell’attentato di Sarajevo; saranno illustrate le ripercussioni
all’interno della Triplice Alleanza, l’esclusione dell’Italia dalla
applicazione della Convenzione militare del marzo 1914, l’attacco alla Francia
ed alla Russia, ed alla Serbia. La conseguenza di tutto questo fu la forzata
neutralità italiana che acuì un problema strategico generatosi nel 1866 e che
fu uno degli argomenti centrali nel problema della difesa del confine
orientale.
Il dibattico svoltosi tra i componenti il vertice
militare italiano di fine ottocento su dove occorreva difendersi o sulla linea
el Piace o sulla linea dell’Adige durò fra gli strateghi italiani per oltre 40
anni. I Piani di difesa del confine orientale furono redatti dai Capi di Stato
Maggiore: dal piano Ricotti Magnani (1873) a Cosenz (1883), da Tancredi Saletta
(1904) ad Alberto Pollio (1914) a
Luigi Cadorna. Si sono espoti, quindi, questi vari piani in una
sintesi espositiva.
Anche per questo l’Italia, in contrasto con la Francia e la Gran Bretagna , non
può che aderire alla alleanza con Germania ed Austria nel 1882, una sorta di
Alleanza preventiva, quasi di una assicurazione sulla esistenza del giovane
stato unitario italiano. La Triplice Alleanza venne rinnovata di cinque anni
in cinque anni fino al 1914.
Accanto alla Triplice, venne firmata una Convenzione
Militare che fu rinnovata nel marzo 1914, in cui l’Italia era partecipe all’attacco
alla Francia, con oltre 150.000 uomini,con previsto anche un attacco alla
neutrale Svizzera.
La esclusione da parte della Germania e dell’Austria
dell’Italia, al momento della rottura degli equilibri europei nel 1914, in
quanto entrambi si ritenevano sufficiente forti per conseguire una vittoria che
non volevano dividere con l’Italia. Da qui dalla Triplice alleanza alla
neutralità da parte di un Italia che nel 1914, allo scoppio della guerra europa
non aveva ne amici ne alleati..
La figura del von Konrand e di parte del consiglio aulico
di Vienna che voleva la guerra all’Italia, decisamente ostile all’Italia,
èemblematica. Progetti portati a punto per la guerra preventiva nel 1908 (
terremoto di Messina) nel 1912 ( guerra di Libia) con l’intento di rioccupare
non solo il Vento ma anche la Lombardia, riaprendo la questione risorgimentale
erano nel 1910-1915 all’ordine del giorno a Vienna.
Dal momento della dichiarazione della neutralità, il 2
agosto 1914, l’Italia, come detto, non ha più ne alleati ne amici e si deve
inventare tutta una nuova politica estera. Fino agli inzi del 1915 non viene
presa nessuna decisione. Poi Sonnino e Salandra, rispettivamente Ministro degli
Esteri e Presidente del Consiglio con l’accordo del Re, in contrasto con la
maggioranza giolittina, decidono di fare il grande salto con la discussione e
la firma del Patto di Londra (febbraio-marzo 1915). In Italia scoppia lo
scontro tra la maggioranza neutralista, composta da giolittiani, cattolici e
socialisti, ed interventista, repubblicani, sia storici che risorgimentali e nazionalisti,
con figure di rilievo come D’Annunzio, Mussolini, Filippo Corridoni. Prevalgono
gli interventisti, ma le belle parole non risolvono il problema prinicipale: la
impreparazione delle Esercito, depauperato dalla guerra di Libia, e non pronto
per una guerra all’Austria.
La dichiarazione di guerra fu prematura e la prima
offensiva Cadorna la lancia il 23 giugno 1915, un mese dopo la dichiarazione di
guerra.
In tutto questo gli Austriaci, che con i Tedeschi fecero
di tutto per tenerci fuori dalla guerra offrendoci ogni cosa meno dandoci
l’unica cosa che contava, Trieste, videro aprirsi un nuovo fronte e subito ci
accusarono di tradimento.
Ma il vero tradimento fu quello di Berlino e Vienna del
1914, che poi fu mascherato da una campagna di propaganda ignobile che sarebbe
ora di contrastare e respingere.
I
Contenuti della Conferenza, possono
essere approfondi nei volumi qui riprodotti:
Richidibili alla Casa Editrice Nuova Cultura
(ordini@nuovacultura.it)
oppure
all’Autore
(studentiecultori2009@libero.it)
giovedì 23 febbraio 2017
Mercoledi del Nastro Azzurro. 1 marzo 2017 ore 17
ISTITUTO DEL NASTRO AZZURRO
FRA COMBATTENTI DECORATI
AL V.M.
(Ente Morale R.D. 31 maggio
1928 n. 1308)
Piazza Galeno, 1 - 00162 ROMA
Federazione Provinciale di
Roma
Roma, 22
febbraio 2017
Comunicato Stampa
Mercoledì 1 marzo 2017
presso la Sala Convegni dell'Istituto
del Nastro Azzurro Piazza Galeno,1 – Roma
dalle ore 17,00 alle ore 19,00
si terrà il 6° incontro del 2° ciclo
de "I Mercoledì
del Nastro Azzurro"
verranno presentati i volumi
'Caschi Blu Italiani'
'ReportagEsercito'
a cura di 'Informazioni
della Difesa'
rivista
dello Stato Maggiore della Difesa
Interverranno:
Stefano Pighini, Tommaso Gramiccia,
Massimo Coltrinari, Mario Renna, Giuseppe Tarantino.
info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org
venerdì 10 febbraio 2017
giovedì 26 gennaio 2017
Immigrazione e Strategie
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lunedì 16 gennaio 2017
Casa Bianca: l'arrivo del nuovo Presidente
sabato 31 dicembre 2016
mercoledì 21 dicembre 2016
SCenari e minacce al termine di un anno
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Quali sono le minacce? Tutto ruota attorno alla individuazione delle minacce alla sicurezza dell’Europa e al ruolo che potrà o vorrà giocare la Nato (in questo caso essenzialmente gli americani) per contrarle e dissuaderle. Da sempre la costruzione europea si è sviluppata in un quadro di sicurezza garantito dalla Nato e dalle forze convenzionali e nucleari che gli Stati Uniti hanno dedicato alla difesa del vecchio continente. Ciò era vero quando si pensava di istituire la Comunità europea di difesa (Ced) negli anni ’50, ed è rimasto a maggior ragione vero negli anni successivi quando la costruzione europea si è indirizzata in campo politico-economico. Ora si riparla di difesa europea, ma in sostanza si parte ancora dai limitati “compiti di Petersberg” identificati dall’Unione europea occidentale nel 1992, poi incorporati, dal 1997, nei Trattati dell’Unione europea (Ue). Allargati e approfonditi, essi riguardano essenzialmente le missioni di gestione delle crisi al di fuori dell’Europa e lasciano la difesa vera e propria alla competenza della Nato. Naturalmente l’Ue contribuisce alla difesa: alcune sue politiche (sorveglianza delle frontiere, compiti di addestramento e di intelligence, missioni di sicurezza interna e di sicurezza cibernetica, eccetera) svolgono importanti funzioni di supporto. Inoltre l’Unione sta progressivamente sviluppando una sua politica industriale, di ricerca e sviluppo e di integrazione dei mercati europei che potrà contribuire a mantenere l’importante vantaggio tecnologico occidentale nei confronti del resto del mondo. Guardiamo bene agli scenari Tuttavia queste politiche devono ora fare i conti con l’arrivo dell’inverno. Gli sviluppi in Russia e nei paesi dell’ex-Unione Sovietica possono mettere a rischio la stabilità strategica europea. L’importante riarmo nucleare e convenzionale della Russia si accompagna ad una politica espansionista, dal Mediterraneo ai territori ex-sovietici, e forse anche in Asia, se ad esempio venisse confermata l’intenzione russa di riaprire una base navale in Vietnam. A questo aggiungiamo gli equilibri asiatici già sottoposti a forti stress dal riarmo nucleare della Corea del Nord, dalle rivendicazioni marittime della Cina e dalla confusissima situazione in Medio Oriente, dove si delinea un confronto a quattro tra Turchia, Iran, Arabia Saudita e Israele (con impliciti rischi di proliferazione nucleare). L’Europa ha sinora guardato a questi scenari con un certo distacco, ritenendosi garantita dal baluardo dissuasivo della Nato. È possibile che il nuovo Presidente americano confermi la solidità di questo impianto (pagato per circa ¾ degli stessi americani), ma è anche possibile che la Nato cominci a mostrare crepe pericolose. Che farà la Russia? Sinora Vladimir Putin si è limitato a piccole punture di spillo (come i sorvoli non autorizzati da parte di aerei militari), ma non ha esercitato significative pressioni militari contro l’Alleanza, ma in compenso è più volte caduto nella tentazione della escalation retorica e soprattutto ha abbracciato con entusiasmo la politica di liquidazione degli accordi di disarmo e controllo degli armamenti, improvvidamente iniziata da Washington con la denuncia del Trattato sui sistemi antimissile (Abm) e l’introduzione di nuove tecnologie destabilizzanti. Ora egli annuncia che considera decaduto anche il Trattato che bandiva i missili a medio raggio (Inf), che preoccupano in primo luogo l’Europa, e non rimpiange certo la perdita, dal 2007, del Trattato che regolava le dislocazioni e i livelli delle forze militari convenzionali in Europa. Egli sta conducendo un processo unilaterale di riarmo, che l’Europa sembra guardare con un eccesso di compiacenza, senza reagire, anche se in ballo ci sono paesi partner di una certa importanza come la Georgia e l’Ucraina, e l’equilibrio di aree strategicamente significative, dal Caucaso all’Asia centrale. Ciò non servirà certo ad influenzare positivamente il nuovo Presidente americano: al contrario lo confermerà nella sua convinzione che, in questo campo, gli europei siano sostanzialmente dei saprofiti. Una svolta positiva, ma incompleta La svolta che l’Unione sta dando alla Pesd è certamente positiva e potrà contribuire, se ben sviluppata, sia alla sua buona salute che a quella della Nato. Tuttavia le sue limitazioni, che un tempo erano state concepite anche per renderla più accettabile agli occhi dell’Alleanza Atlantica (per non entrare in competizione e duplicazione con la Nato) ora delineano uno scenario del tutto insufficiente e rischiano di apparire come l’ennesimo tentativo di sfuggire alle proprie responsabilità parlando d’altro. Non possiamo ignorare la minaccia più importante che esiste ai nostri confini, e sperare di essere presi sul serio. Certamente la questione della Russia non è solo militare, ma anche politica. È mancata una strategia coerente e lungimirante nei confronti di Mosca che aprisse la strada ad una reale partnership continentale. Ma un simile sviluppo non potrà basarsi sulla debolezza militare e sulla crisi della dissuasione. Il rischio che corriamo è quello di un progressivo indebolirsi della credibilità dell’Alleanza che potrebbe incoraggiare sia pericolose scelte avventuriste russe sia reazioni improvvisate e caotiche in Europa. Come ad esempio quando, nel commentare l’elezione di Donald Trump e la possibilità di un ritiro americano dall’Europa, il portavoce dei Cristiano-democratici tedeschi, Roderich Kiesewetter, ha dichiarato che al limite lo scudo nucleare americano avrebbe potuto essere sostituito da uno scudo nucleare anglo-francese. Non è la prima volta che queste idee sono state fatte circolare (anche se in genere riguardano più la Francia che il Regno Unito, le cui forze nucleari sono quasi integralmente dipendenti da quelle americane), ma non hanno mai dato frutti, soprattutto perché i paesi nucleari europei sono inerentemente più vulnerabili degli Usa, e hanno molte meno opzioni operative. Ciò non significa che un deterrente europeo, nazionale o collettivo, sia impossibile, ma che per avere una credibilità sufficiente a coprire gli attuali paesi membri dell’Unione, richiederebbe importanti investimenti e soprattutto un livello di coesione e solidarietà oggi tutt’altro che evidente. Prima di tentare disperate fughe in avanti è dunque opportuno che l’Europa mostri, con urgenza, la sua volontà di essere all’altezza delle sfide reali, e che accetti di dimensionare il suo sforzo militare ai livelli della minaccia (e non di sottolineare solo quelle minacce che il suo attuale livello di impegno le permette di contrare). Qualcosa si muove, ma è una grave debolezza il fatto che, nella strategia globale e nelle sue linee programmatiche, questo punto non venga affrontato di petto. Possiamo capire le ragioni politiche e di opportunità che hanno portato a questo, ma non possiamo accettarle. Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI. | ||||||||
venerdì 9 dicembre 2016
Lanzarotto Malocello
PonentevazzinoNews
Varazze, 12.12.2016. Home page
Varazze, 12.12.2016. Home page
Tradotto e pubblicato in lingua spagnola il libro di Licata su Lanzarotto Malocello
Il volume sarà presente e potrà essere consultato in tutte le biblioteche pubbliche delle Isole Canarie nonché diffuso, attraverso i canali istituzionali, in tutta la penisola Iberica.
Nell’opera, compendio, sono riportate le fonti documentali genovesi che parlano di un Lanzarotto Malocello già defunto, nel più ampio quadro di una rassegna delle fonti storiografiche italiane assieme a quelle straniere, soprattutto francesi, anglosassoni ed ispaniche.
Un ampio spazio viene riservato alla trattazione delle prime esplorazioni atlantiche da parte di navigatori liguri, ossia italiani, alla relazione di Giovanni Boccaccio sulla navigazione, questa con data certa, lungo la medesima rotta verso le Canarie, e forse Madera e le Azzorre, di Nicoloso da Recco e sul trattato De insulis di Domenico Silvestri, non dimenticando il quadro di riferimento mitico che faceva delle Canarie le Insulae Fortunatae.
L’opera, arricchita da numerose illustrazioni, non tralascia di tratteggiare lo stato delle Isole Canarie al momento del primo impatto con una civiltà che arrivava da lontano e si conclude con un doveroso omaggio alle ricerche archeologiche, tuttora in corso, che mirano a mettere in chiaro eventuali residue tracce del passaggio di Lanzarotto Malocello sull’isola di Lanzarote, indissolubilmente legata con il proprio nome al navigatore ligure-varazzino.
Il volume, come è noto, non è in commercio ed è riservato alle Istituzioni, alle Università, agli accademici, docenti, studenti e appassionati di storia medievale e delle scoperte geografiche i quali, ove vogliano consultarlo nella originaria versione in italiano, potranno farlo on line sul sito del “Ministero della Difesa” oppure, entro il limite delle copie disponibili, richiederlo al “Comitato per le Celebrazioni del VII Centenario“, o all’Ufficio Storico dello Stato Maggiore della Difesa: quinto.segrstorico@smd.difesa.it.
L’iniziativa di tradurre il testo del libro in varie lingue è finalizzata alla più ampia diffusione, divulgazione e valorizzazione dell’eccezionale impresa del navigatore varazzino ben oltre i confini nazionali.
A tal proposito, l’edizione in lingua spagnola del volume , che era stata preannunciata dall’autore nel corso di una conferenza al Parlamento Europeo lo scorso 31 maggio 2016, sarà presentata l’11 febbraio 2017 a Roma, presso la sede della Casa dell’Aviatore (Viale dell’Università n.20), in occasione della Cerimonia internazionale di Gemellaggio/Hermanamiento tra il Distretto Lions 108L d’Italia (Lazio, Umbria e Sardegna) e il Distretto Lions 116B di Spagna (Andalusia, Extremadura, Ceuta e Melilla, Isole Canarie) nel corso della quale alla Delegazione lionistica spagnola ed alle Autorità presenti sarà fatto omaggio dell’opera editoriale.
lunedì 14 novembre 2016
Mercoled' ' 16 Novembre ore 16,30. Conferenza.
Titolo
"L'Ultima difesa Pontificia - 1860"
di Massimo Coltrinari
La descriverà gli avvenimenti che sottrassero le Marche e l'Umbria nel 1860 al Potere Temporale dei papi e quindi annesse al regno d'Italia
In particolare il settembre 1860, con particolare riguardo alle vicende a Spoleto
Sintesi dei volumi qui presentati
Carlo d’Angiò è il cavaliere che campeggia al centro dello stemma d’Ancona. Lo sostiene, senza porre dubbi, l’ultimo governatore pontificio di Ancona, conte de Quatrebarbes. Dopo giorni di lotte accanite, con suo grande rammarico, lo stemma pontificio, il 29 settembre 1860 doveva essere abbassato per far posto allo stemma sabaudo, significando la fine del potere temporale dei Papi nelle Marche. La descrizione degli avvenimenti di parte pontificia per la difesa di questo potere è il filo conduttore del presente volume, che pone Ancona al centro degli avvenimenti del 1860. Avvenimenti che sono descritti nell’ottica di coloro, i legittimisti cattolici, che volevano difendere questo potere, perdurante da oltre tre secoli, che ritenevano indispensabile per l’esercizio della missione del Papa e della Chiesa Cattolica.
Nel adottare il principio che è con la geografia che qualsiasi storia deve iniziare, caro all’Autore, il volume dedica ampio spazio ad Ancona come città e come piazzaforte. Ne esce un quadro di come Ancona era nel 1860, un quadro che si può considerare come il punto di partenza dello sviluppo, non solo urbanistico, della Dorica negli ultimi 150 anni.

Massimo Coltrinari, generale, analista militare, giornalista, è contitolare della Cattedra di Dottrine Strategiche e Storia Militare all’Istituto Superiore di Stato Maggiore Interforze, e ricercatore del Centro di Studi Strategici al Centro Alti Studi per la Difesa. È Cultore della Materia alla Cattedra di Geografia Politica ed Economica alla Facoltà di Scienze Politiche della Università “La Sapienza” di Roma. È direttore della Rivista “Il Secondo Risorgimento d’Italia” e collabora a giornali e riviste specializzate. Medaglia Mauriziana per i dieci lustri di servizio continuativo, è Cavaliere Ufficiale al merito della Repubblica.
domenica 23 ottobre 2016
lunedì 10 ottobre 2016
UN problema da affrontare
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Da allora la Conferenza del Disarmo di Ginevra, l'organo istituzionalmente competente per condurre tali negoziati, è rimasta paralizzata. È deprecabile che per oltre un ventennio non si sia riusciti a sfruttare le occasioni offerte dall'allentamento della tensione post-guerra fredda il quale va oggi tramontando. Una novità per la messa al bando dell’arma atomica La frustrazione si riscontra in particolare in seno alla Prima Commissione dell'Assemblea Generale dell'Onu che si riunisce ogni anno a New York nel mese di ottobre e che segue i temi del disarmo e della sicurezza internazionale. Quest'anno si prevede un elemento di novità: verrà infatti discussa e votata una nuova risoluzione in cui un gruppo di Paesi capeggiati da Austria, Brasile, Irlanda, Messico e Nigeria, propone la celebrazione nel 2017 di una Conferenza per negoziare uno "strumento legalmente vincolante per proibire le armi nucleari che conduca alla loro totale eliminazione". Si tratterebbe in sostanza di perseguire "in un solo colpo" l'ambizioso obiettivo della messa al bando dell'arma atomica. È la prima volta che in Prima Commissione viene proposto un testo così perentorio in cui vengono già individuati i partecipanti, la data,il luogo e la durata della prevista Conferenza. Ad aprire la strada è stata in realtà la Conferenza di Riesame del Trattato di Non proliferazione nucleare, Tnp, tenutasi nel 2010 a New York dove si convenne sull'obiettivo di un mondo privo di armi nucleari e si giunse ad affermare il principio degli effetti catastrofici dell'uso di tali armi. Per approfondire questo ultimo tema si sono tenute successivamente, sotto gli auspici dei Paesi citati, tre conferenze internazionali che hanno affinato gli argomenti a favore di un'eliminazione delle armi nucleari ed allargato la piattaforma dei Paesi che condividono tale obiettivo. La resistenza delle potenze nucleari Le cinque potenze nucleari riconosciute dal Tnp (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti) che pure avevano aderito ai principi enunciati nel 2010, si trovano ora a resistere a questa iniziativa che giudicano irrealistica. Ad essi si affiancano i quattro Paesi (India, Israele,Pakistan e Corea del Nord) che si sono dotati unilateralmente dell'arma nucleare e che restano al di fuori del Tnp. Non si trova a proprio agio neppure la Nato, la cui dottrina si fonda sul principio della deterrenza nucleare. Vista l'eterogeneità delle posizioni dei suoi membri sulla questione nucleare, l'Unione europea, Ue, incontrerà difficoltà a trovare un orientamento comune su tale spinoso argomento. Gli ostacoli procedurali che gli agguerriti oppositori potranno frapporre sono molteplici. Le parti possono chiedere una votazione sui singoli paragrafi del testo ed esercitare ogni tipo di pressione. Le risoluzioni dell'Assemblea non sono comunque giuridicamente vincolanti e un'analoga conferenza sulla proibizione delle armi di distruzione di massa in Medio Oriente, fissata per il 2012, non ha mai visto la luce. Ciononostante, è assai probabile che la risoluzione finisca per ottenere la maggioranza dei consensi e che quindi si inneschi a New York (e non nella sede istituzionale ginevrina) un effettivo meccanismo negoziale. Probabilmente molti degli oppositori opteranno per non partecipare all'incontro e per dichiararsi non vincolati dai suoi esiti. Ma dall'esterno gli assenti avranno minori possibilità di influire sui negoziati i cui risultati rischiano in tal modo di essere ancora più contrari a quella che è la loro percezione dei propri interessi. Molti si domandano se abbia un senso avviare una trattativa sulle armi nucleari se saranno assenti i principali detentori di tali armi. È quanto è già avvenuto allorché,mutatis mutandis, vennero concluse, rispettivamente nel 1997 e nel 2008, le convenzioni sulla proibizione delle mine anti persona e quella sulle munizioni a grappolo dalle quali rimasero estranei paesi importanti come Stati Uniti, Russia, Cina e India. Tali convenzioni furono adottate e vengono ora applicate senza la partecipazione dei "major players" che si sono trovarono relegati in un angolo. Due sentieri negoziali da tenere insieme Nel valutare i pro e i contro dell’iniziativa nucleare, che è però ben diversa da quella delle mine e delle munizioni a grappolo, occorre tener conto che va lentamente maturando il convincimento di un tramonto del dogma della bomba atomica come arma egemonica ed assoluta. Il Presidente Usa Barack Obama se ne è reso primo interprete attraverso la sua dichiarata propensione a ridurre il ruolo dell'arma nucleare nella strategia di difesa statunitense. I tempi di Hiroshima e Nagasaki sono in effetti superati da nuove tecnologie che permettono a mezzi convenzionali più sofisticati e precisi di svolgere un ruolo strategico analogo a quello del nucleare senza averne gli effetti catastrofici. Un piccolo e disastrato Paese come la Corea del Nord, con le poche risorse di cui dispone, è riuscito a procurarsi l'arma atomica. Qust'ultima, lungi dall'assicurare l'egemonia dei grandi, può permettere a stati fuorilegge ed eventualmente a gruppi terroristici di sfidare anche le maggiori potenze nonostante la loro schiacciante superiorità militare. Attraverso il Trattato di non Proliferazione si è riusciti sinora a contenere la cerchia degli stati nucleari ma India, Israele, Pakistan e ora la Corea del Nord sono già riusciti a sfuggire dalle maglie di questo meccanismo. Altri paesi li potrebbero seguire. Le tecnologie nucleari si diffondono ormai anche via internet ed i costi delle apparecchiature più sofisticate sono sempre più alla portata anche dei paesi meno abbienti. In queste circostanze viene da domandarsi se, in aggiunta alle sacrosante considerazioni di umanità e di civiltà, non militino a favore di questo negoziato anche motivi di convenienza strategica delle stesse grandi potenze. Occorre mettere in conto tuttavia che il processo dall'esito incerto che si va profilando a New York rischia di richiedere anni di trattative. Sarebbe quindi prematuro gettare alle ortiche l'approccio alternativo al negoziato "in un solo colpo": quello che mira a perseguire una proibizione, come si è fatto sinora purtroppo con risultati deludenti, attraverso un processo per tappe successive.I due sentieri non si escludono tra loro, possono convivere e rafforzarsi vicendevolmente. L'Ambasciatore Carlo Trezza è Presidente uscente del Missile Technology Control Regime. Ha presieduto la Conferenza del Disarmo ed il Advisory Board del Segretario Generale dell'Onu per le questioni del Disarmo. È stato Ambasciatore d'Italia a Seoul e presso la Conferenza del Disarmo a Ginevra. |
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