
lunedì 20 settembre 2010

mercoledì 21 luglio 2010
Cesare Merlini1
martedì 6 luglio 2010
Benché il Soe nutrisse la più ampia fiducia nel successo del colpo di mano orchestrato da Lussu, battezzato Operation Postbox, le trattative non arrivarono a nessuna conclusione e lardimentoso capitano della Brigata Sassari lasciava Londra con la magra promessa che il gabinetto britannico avrebbe continuato a prendere in considerazione il programma di uninvasione della Sardegna. Nella riunione del War Cabinet del 20 novembre 42 Churchill considerava, infatti, come obiettivo indispensabile loccupazione dellisola, non però per costituirvi un santuario antifascista, ma per farne una grande portaerei terrestre dalla quale scatenare la strategia del moral bombing contro le città italiane del versante tirrenico, compresa Roma. Dimostrandosi del tutto scettico sulla possibilità di veder nascere una rivolta contro il regime di Mussolini, linquilino di Downing Street era persuaso che solo larma del terrore avrebbe potuto costringere lItalia alla resa, colpendo il suo popolo il quale «se avesse continuato a percorrere la via del Fascismo avrebbe dovuto sopportare tutte le punizioni e le calamità che si riservano ai vinti».Eppure il programma di Lussu, relativo alla possibilità di scatenare una rivoluzione nel Supramonte, continuava a interessare il Regno Unito, a condizione di poterla trasformare da sollevazione autonomista in rivolta separatista, in modo da fare della Sardegna una nuova gemma dellImpero Britannico. Non casualmente il Foreign Office aveva elaborato nel 42 un approfondito studio su questa ipotesi, incentrato sull«attitude of Sardinia towards Italian rule». Né solo accidentalmente la prima bozza del Trattato di pace con lItalia, formulata da Anthony Eden, il 5 luglio 45, insisteva sulla necessità di sottoporre Pantelleria, Lampedusa, Linosa al mandato delle Potenze vincitrici, in attesa forse di incorporare la Sicilia e l«Isola dei Sardi» nei domini del Commonwealth.eugeniodirienzo@tiscali.it
venerdì 26 marzo 2010
L’occasione è stata data da un seminario di studi della durata di due giorni che si è svolto a Chianciano nell’ambito del Consiglio Nazionale dell’Associazione Nazionale Combattenti della Guerra di Liberazione inquadrati nei Reparti regolari delle Forze Armate (Ancfargl) che ha sancito la nascita di una nuova sezione specialistica denominata “Studiosi e cultori della materia” alla quale saranno ammessi, dopo un periodo di prova biennale, studiosi avviati o giovani promettenti leve impegnati in dottorati di ricerca su materie attinenti la Guerra di Liberazione. L’iniziativa fa seguito alla creazione da parte dell’organo associativo, la rivista “il Secondo Risorgimento d’Italia” scaricabile dalla pagina web http://www.secondorisorgimento.it/rivista/sommari/quadrosommari.htm, di una collana di volumi, di cui il sesto della serie “Salvare il salvabile” ha costituito il filo conduttore del seminario nonostante esso sia ancora in fase avanzata di pubblicazione, ma ancora in bozze di stampa e non in libreria.
La tesi sostenuta dal volume è fortemente innovativa, se pure non originale in assoluto come ipotesi, comunque sotto il profilo del “quadro indiziario” di fonti documentali ad essa convergenti appare articolata e ben argomentata, come mai in precedenza, nel delineare uno scenario in cui una fazione, se non il vertice politico militare del tempo nel suo complesso, aveva intrapreso le trattative armistiziali con il fine ultimo di adescare, in perfetto accordo con la Germania ancora alleata, gli angloamericani in una trappola, in un inganno strategico volto a sfruttare le informazioni scambiate in sede di trattative per ributtarli in mare e magari riconquistare la Sicilia che Hitler il 19 luglio a Feltre aveva descritto come la futura Stanlingrado della coalizione nemica.
Il piano ipotizzato nel volume di prossima pubblicazione e commercializzazione non avrebbe però funzionato all’atto pratico per il crollo del fronte interno che il regime aveva sottovalutato, nonostante a seguito dell’avvicendamento di Mussolini con Badoglio il 25 luglio avesse dovuto ricorrere al metodo del bastone (forti misure di ordine pubblico) e della carota, proclamando la caduta del fascismo, sia pure con l’instaurazione di un governo militare e non della democrazia pre regime.
Ai giovani studiosi (età media 30 anni) che hanno partecipato al seminario il direttore e coordinatore Massimo Coltrinari aveva solo fornito uno spunto di approfondimento, senza neppure fare loro leggere, per non influenzarli, il relativo capitolo del volume “Salvare il salvabile”. Il risultato delle loro ricerche è stato sorprendente, in particolare per quanto riguarda una delle argomentazioni a sostegno della tesi di “inganno strategico” secondo la quale la cosiddetta “fuga da Roma” fu un semplice trasferimento a Chieti, dove nel requisito Palazzo Mezzanotte si era cominciato a mettere in piedi una sorta di comando supremo prima che gli eventi, sfuggiti di mano, portassero ad un cambio di programma e l’imbarco sulla corvetta “Baionetta” per fare rotta verso Brindisi e formalizzare quella resa, che avrebbe dovuto invece, secondo l’ipotesi del libro, fungere da specchietto per le allodole. Numerosi gli elementi aggiuntivi frutto di una ricerca condotta in loco, rispetto quelli già riportati in “Salvare il salvabile”, nel senso del potere e delle istituzioni del tempo.
Perora non possiamo dire di più, se non che, in particolare le relazioni relative ai reparti italiani impiegati all’Estero e colti dall’armistizio oltremare, hanno disegnato uno scenario che è difficile immaginare.
Nel congedarci, Massimo Coltrinari ci informa che una analoga due giorni di più ampio respiro si terrà a Roma il 9 e 10 aprile prossimi. Non dispera in quei giorni di avere in mano le prime copie definitive del libro.
Giorgio Prinzi
sabato 16 gennaio 2010

mercoledì 6 gennaio 2010
Gli Italiani di fronte a se stessi: il momento delle scelte
La Componente etica e morale della Guerra di Liberazione
25 luglio 1943 – 8 settembre 1943
massimo coltrinari
(si riportano aalcuni temi che si dibatteranno a margine del Consiglio nazionale della Associazione Combattenti dela Guerra di Liberazione il prossimo 10 aprile (data provvisoria) nel seminario di studi organizzto dalla costituenda Sezione Studenti e Culturi delLA Materia della citata associazione)
Il crollo di un castello di carte. Perché gli esponenti fascisti non salvarono il Fascimo
L’origine della Guerra di Liberazione, come causa remota, è da ricercarsi nel sostanziale fallimento del fascismo sia come movimento che come regime, fallimento che venne a maturazione nella primavera del 1943. Alla luce di quello che poi accadde e che fu uno dei temi della Guerra di Liberazione, ovvero il “tradimento” da parte Italiana della Alleanza con la Germania, il ritorno del fascismo nelle forme e nella attività che diedero vita alla repubblica Sociale Italiana, è interessante e necessario capire il perché il fascisti, che avevano tutte le leve del potere e controllavano tutto lo Stato non difesero Mussolini ed il loro regime nel luglio 1943.
Occorre prendere atto che il fascismo, in tutte le sue manifestazioni, nella primavera ed ancor più all’inizio dell’estate 1943, aveva ormai raggiunto il punto più basso in termini di consenso e di fiducia presso il popolo italiano e nella considerazione internazionale, sia fra i nemici che fra gli alleati.
Aveva fallito tutti i suoi obbiettivi di guerra e la serie ininterrotta di sconfitte, oltre a provocare la perdita di prestigio internazionale, aveva anche alimentato la disistima dell’Alleato germanico e degli alleati minori.
Con l’invasione della Sicilia la guerra era arrivata in casa e nulla sembrava potesse arrestare tanto sfacelo.
Secondo Ruggero Zangrandi, “agli inizi del ’43 il fascismo era spacciato, in conseguenza di tre fattori per buona parte connessi.
Il primo ( che si deve riconoscere come determinante) fu la disfatta militare: la quale completò l’opera di discredito e di corrosione già compiuta dalla guerra, rilevando anche a tanti italiani che, illusi o ingannati, non avevano capito prima, la vera essenza del fascismo.
L’altro fattore che indicava prossimo il crollo del regime era, appunto, costituito dall’insofferenza e dall’opposizione popolari, pressoché generali ormai, non più dissimulate e ogni giorno più pressanti.
C’era infine la circostanza, forse più di tutte significativa, che non esistevano più, praticamente, fascisti. Anche se i vari gruppi di congiurati non se ne erano accorti e, anzi, misurassero i propri sforzi in vista di una temibile resistenza. In realtà, fatta eccezione per gli elementi troppo compromessi, qualche raro fanatico e una minoranza di giovanissimi e di combattenti che, nel clima di esaltazione e di disorientamento provocato dalla guerra, non riuscivano aprendere coscienza, non vi era, in campo fascista, neppure tra i massimi gerarchi, nessuno che avesse intenzione e volontà di difendere il regime. Il vecchio regime aveva, dunque, cessato di esistere di fatto già nella primavera del 1943; e coloro che ne rimossero il cadavere, con qualche anticipo rispetto alle ormai indifferibili esequie, ma con troppo ritardo per rendere l’operazione utile al popolo italiano, non ebbero altri meriti se non quelli che si sogliono riconoscere ai becchini. La loro azione, d’altro canto, fu esclusivamente ispirata a considerazioni di convenienza personale. Le forze che si rilevarono determinanti ebbero come unico stimoloquello di trovare una via di scampo al disastro in cui, insieme al fascismo, s trovarono coinvolte”[1]
E’ in questo clima di ampia sfiducia verso il fascismo che vanno cercate le cause e le motivazioni che, all’indomani della proclamazione dell’armistizio, saranno alla base delle scelte degli Italiani che daranno vita ai “fronti” della Guerra di Liberazione.
Tutti gli esponenti fascisti erano consci che da soli non avrebbero avuto la forza di salvare la situazione. E saranno proprio loro che provocheranno la caduta e l’arresto di Mussolini. L’occasione fu la seduta del Gran Cosiglio del Fascismo con la messa ai voti del cosiddetto “Ordine del Giorno Grandi”, con il quale si riaffidavano al Sovrano Vittorio Emanuele III tutte le sue prerogative; con ciò,in pratica, si esautorava Mussolini e si decretava la fine del regime fascista. Un passo grave, che poneva fine ad una ventennale dittatura di un solo partito, passo aveva motivazioni e ragioni complesse, ma che fu determinato, come elemento scatente la decisione, dall’esito infelice dell’incontro di Feltre del 19 luglio 1943 tra Mussolini e Hitler. In questo incontro l’alleato germanico, con sprezzante alterigia, non aveva concesso nulla a un Mussolini ormai impotente ed esausto. La delegazione italiana era andata a Feltre nella speranza che Mussolini, con il suo prestigio e la sua autorità, riuscisse di trovare il modo per strappare alla alleata Germania una sorta di consenso per uscire dignitosamente dalla guerra; queste speranze andarono deluse; il Duce del Fascismo ebbe un atteggiamento remissivo e succube, non riuscì nemmeno ad accennare la questione ad un Hitler deciso e sicuro di se, e Mussolini ne uscì con una netta sconfitta, ponendo le premesse reali della sua destituzione.
Il bombardamento dello scalo di San Lorenzo a Roma, il 19 luglio 1943 in contemporanea con l’incontor di Feltre, da parte Alleata, in cui si violava in modo quasi irrisorio le difese antiaere, mise a nudo ancor auna volta tutta l’impotenza dell’Italia, e fu visto come il preludio ad altri lutti e rovine, se non si fosse prese decisioni drastiche.
I quarantacinque giorni
Il 26 Luglio, dopo un colloquio a Villa Savoia con il Re, Mussolini fu arrestato e il governo affidato al Maresciallo Badoglio. Questi si affrettò a proclamare che la guerra sarebbe continuata affianco alla Germania, ma in pochi , compresi i tedeschi erano orientati a crederlo. Infatti iniziarono da più parti contatti con gli Alleati per negoziare l’uscita dell’Italia dalla guerra. Nei giorni che vanno dal 27 al 30 luglio, Gli Alleati si aspettavano una prima mossa da parte del Governo Badoglio, tesa a stabilire un primo contatto per avviare trattative per arrivare al meno a far cessare le ostilità. Questa era opinione diffusa, ed anche i Tedeschi, sopresi dalla caduta del Duce in modo cos’ repentino, erano sul chi va là in merito alle vicende italiane ed anche loro avevano ben chiaro che la mossa successiva di Roma sarebbe stata una iniziativa, nonostante tutte le manifestazioni di volontà in termini di “la guerra continua”, volta ad uscire dalla guerra.[2] Anglo-americani e Tedeschi, quindi, si erano messi in misura tale di essere pronti alla richiesta italiana di uscire dalla guerra, ed avevano entrabi le idee chiare sul come affrontare questo evento. Chi invece non aveva le idee chiare ed era molto lontano dalla realtà era il Governo Badoglio ed il suo capo. Ci si era posti il problema che oramai la situazione imponeva di uscire dalla guerra. Il primo passo era stato fatto, ovvero l’allontanamento di Mussolini, che la guerra aveva voluto. Ora si tratta di attuare il come uscirne, con il meno danno possibile.
Le ipotesi erano le seguenti: a) con una immediata richiesta di resa agli angloamericani e contemporanea denuncia della Alleanza con al germania; b) guadagnare qulahce settimana al fine di intavolare serie e dignitose trattative con gli anglo americani, e nelle stesso tempo intavolare serie e risolutive trattative con i tedeschi, venendo con loro ad una franca e defintiva spiegazione sulle reali condizioni dell’Italia non più in grado di condurre la guera. In entrambi i casi alto era il rischio di venire a combattere su due fronti, quello aperto con gli angloamericani e quello interno che sarebbe stato aperto dai tedeschi. Un fattore era determinante: occorrevano decisioni fulminee, precise ed efficaci, per non dare la possibilità ai nostri avversari di preparare le contromosse alla azione italiana.
Questo non fu attuato e si percosero strade, ed anche sentieri, così tortuosi che alla fine risucimmo screditati sia agli occhi dei Tedeschi[3], sia agli occhi degli Angloamericani.
In breve ripercorriamo le tappe di queste trattative, i cui protagonisti da una parte, quella italiana, furono il Re Vittorio Emanale III, Badoglio, Ambrosio, Capo dello Stato Maggiore generale ed Acquarone, ministro della Real Casa, e personaggi minori che a vario titolo entrarono nella vicenda, dall’altra gli Angloamericani. Queste trattative passano attraverso fasi, che sinteticamente possiamo individuare in un momento in cui Badoglio spervalutò la situazone italiana, avviando trattative da pari a apari e dettando anche condizioni, una seconda fase in cui dovette constatare che i margini di discussione erano quasi nulli ed una terza in cui si accettarono tutte le condizioni senza rendersi conto delle conseguenze immediate e reali. Tutto questo, mentre continuavamo a manifestare professioni di lealtà e cameratismo verso i tedeschi, nella speranza che non sospettassero che si stava trattando segretamente con gli Alleati.
Persa l’occasione di agire immediatamente, e contemporaneamente scarata senza un reale motivo la possibilità di utilizzare emissari accreditati presso gli Alleati e di prestigio come Dino Grandi[4] e il Maresciallo Caviglia, noto antifascista, e molto stimato per i suoi trascorsi militari presso i Comandi Alleati. Fu scarata anche la possibilità di utilizzare le ambiascuate statunitensi e britannica presso il Vaticano perche non si aveva fiducia nei Codici diplomatici che queste ambasciate utilizzavano e che si riteneva fossero stati penetrati dai tedeschi. Vi furono nel contempo anche altre iniziative minori, che si sono perse nell’blio del tempo. Vi era in atto l’iniziativa dell’industriale Alberto Pirelli, che fu mandato in Svizzera ia primi di agosto, ma la sua missione non sortì effetti. Si disse che Badoglio tentò anche la carta della Massoneria, per aver autorizzato l’emissione di passaporti di comomodo, elargizione di somme ed altro, con la collaborazione del ministro della guerra Sorice e con una parte attiva del figlio di Badoglio, Mario, ma anche questo canale su perse nelle nebbie degli avvenimenti successivi. Vi era anche il tentativo del banchiere Giorgio Schiff-Gorgini[5], ma anche questo si perse nel nulla. Vi era poi il contatto stabilito a seguito della cattura di un nostro agente del SIM da parte inglese a Bendasi; gli inglesi erano disposti a mandare in cifrario e aprire questo canale, ma anche questa opportunità fu fatta cadere.
Questi tentativi che possiamo definire minori contribuirono, con il passare dei girni, ad elevare la soglia di diffidenza da parte Alleata, che di giorni in giorni divennero sempre più guardinghi per timore di essere raggirati dagli Italiani.
Si preferì, quindi, utilizzare diplomatici di secnda schiera, assolutamente sconosciuti agli occhi degli Alleati, e sostanzialemente privi di quel carisma e profilo internazionale che la situazione richiedeva. Queste missioni diplomatiche, come se la situazione fosse normale, già compromesse proprio perché tali, paetivano dal presupposto di trattare da pari a pari con gli Alleati, con l’intento di chiedere aiuti agli Alleati, nella convinzione, del tutto irreale, che era nell’interesse angloamericnao portare l’Italia nel proprio campo e quindi abbreviare la guerra, ovvero gli angloamericani dovevano portare soccorso all’Italia che era in serie difficoltà con i Tedeschi[6]
Le missioni diplomatiche avviate erano quelle el Consigliere di Legazione Blasco D’Ajeta[7] e quella del Console Alberto Berio.
D’Ajeta si doveva presentare all’ambasciatore britannico a Lisbona, sir Ronald Campbell, e presentargli gli intendimenti del governo italiano. A premessa di questi si doveva prospettare 1) l’atteggiamento apparentemente tempreggiaotre della monarchia e del governo Badoglio non doveva essere frainteso dagli Alleati, poiché era determinato dalla pressione tedesca; 2) che tale pressione si concretizzava in una massiccia occupazione militare geermanica[8] 3) che Roma era praticamente minacciata di occupazione, 4) che le condizioni dell’Italia erano disastrose.
D’Ajeta quindi doveva, al fine di attuare lo sganciamento, chiedere l’aiutoangloamericano, in attesa del quale gli angloamericani dovevano sospendere i bombardamenti e porre fine la campagna diffamatoria radiofonica contro il governo Badoglio e l’Italia in genere. In pratica D’Ajetta doveva far comprendere agli anglo americani che l’uscita dell’Italia era nel comune interesse, che se attuata ( secondo le indicazioni italiane) avrebbe grandemente giovato a Londra e Waschington.[9] L’incontor ebbe luogo a Lisbona , il 4 agosto 1943, dalle 11,30 alle 13, ma i risultati furono praticamente nulli.
Il tentativo del Console Berio si tinge dei contorni del romando d’avventure. Berio[10] era latore delle seguenti proposte: 1) i tedeschi erano padroni dell’Italia, eal primo sospetto si sarebbero impadroniti di Roma, facendo prigionieri Re e Badoglio: 2) Gli Alleati dovevano attenuare se non sospendere i bombardamenti, per agevolare la tenuta del fronte interno 3) Gli Alleati dovevano affettuare uno sbarco nella Francia meridionale, nei Balcani onde attirare forze tedesche e alleggerire la pressione sull’Italia. Tutto questo per dare la possibilità al governo italiano di effetture con successo lo sganciamento dai tedeschi e l’uscita dalla guerra. Nel corso delle conversazioni Berio doveva anche chiedere che gli Alleati effettuassero uno sbarco il più possibile a nord di Roma, onde ulteriormente agevolare l’azione italiana.
Queste proposte furono presentate al console britannico aggiunto Watkinson ( il titolare era in ferie) il 5 agosto 1943
Vari furono i tentativi di avviare trattative di armistizio,molte velleitarie, altre maldestre, che in parte insospettirono gli Alleati. Alla fine, in situazioni che daranno la stura a polemiche ancora oggi non sopite, si arrivò alla firma a Cassibile il 3 settembre 1943 del cosiddetto “armistizio corto”. Sulla base di intese non controllate e sensazioni il Governo a Roma ritenne che la proclamazione dell’armistizio dovesse avvenire non prima del 12 settembre. In realtà gli Alleati lo fecero coincidere con lo sbarco a Salerno, programmato per il 9 settembre, nella convizione che la resa delle truppe italiane avrebbe favorito lo sbarco, come in effetti avvenne. Proclamato alle 18,30 dell’8 settembre da Algeri e alle 19,45 da Radio Roma con un messaggio del maresciallo Badoglio, l’armistizio aprì una delle pagie più controverse e buie della nostra storia recente.
La non reazione per oltre 48 ore da parte delle Forze Armate italiane, combinata dalla pronta e decisa azione tedesca, fece sì che tutto l’apparato statale italiano crollò immantinente. Il Re ed il Governo si trasferono, via Pescara, a Brindisi, aprendo una crisi costituzionale gravissima. Il fatto grave da parte del Sovrano e del Governo non fu che lasciarono la capitale e si trasferirono in altra parte del territorio dello Stato al sicuro della minaccia tedesca; il fatto grave fu che per oltre 48 ore non si diede ordini a chicessia, lasciando nella più totale incertezza Comandi e Ministeri e l’intero apparato statale. Venir meno a questi doveri da parte del Re e da parte del Capo di Governo, in momenti delicati e difficili come quelli armistiziali, è inammissibile e inaccettabile sapeva quello Il motivo di questo atteggiamento?. Viarie le ipotesi
Al di là di ogni considerazione venne per ogni italiano il momento delle scelte. Prima per i soldati, che si trovarono spianate davanti le armi dei tedeschi poi per ogni cittadino italiano fu l’inizio di quella stagione, in cui a fronte di assenza di ogni autorità nazionale, non era possibile non reagire e schierarsi, pena la sopravvivenza.
Per i soldati all’indomani della proclamazione dell’armistizio le scelte erano le seguenti:
. in presenza o in assensa di ordini precisi, lasciare la divisa e cercare di raggiungere le proprie case, sottraendosi alla cattura tedesca; in molti vi riuscirono; altri, furono catturati e internati in Germania.
. resistere, combattendo, ad ogni richiesta di cessione delle armi.
Coloro che si trovarono al Sud in territorio controllato dagli Alleati, ebbero la possibilità o di rimanere alle proprie case, oppure di entrare a far parte della Organizzazione Logistica Alleata, oppure di entrare nelle fila del Regio Esercito, che si andava formando tra mille difficoltà.
Coloro che si trovarono al Nord in territorio controllato dai Tedeschi, ebbero la possibilità di rimanere alle proprie case, ma con maggiori difficoltà in quanto minacciati dalle retate tedesche, dai rastrellamenti, e dalla continua ricerca di mano d’opera forzata. Oppure di entrare nella fila del movimento partigiano sia nelle formazioni di città che in quelle della montagna, sceltà che si cominciò a palesare verso la fine del 1943. Oppure per coloro che vollero essere fedeli alla vecchia alleanza, aderire alla Repubblica Sociale Italiana, entrando nelle fila delle sue Organizzazioni civili e militari.
Sia al nord che al sud vi fu una massa di italiani che cercarono di scegliere il più tardi possibile cercando di superare la situazione contingente; diedero vita all’”attendismo” ovvero che si delineasse un vincitore certo e sicuro per poi fare le proprie scelte. L’attendismo è la mafestazione più di basso profilo della Guerra di Liberazione, frutto della sconfitta e delle necessità materiali che divennero di giorno in giorno sempre più impellenti, nella convizione che erano gli “altri” che dovevano condurre e concludere la guerra.
Per le truppe all’estero la situazione fu ancora più dolorosa. Abbiamo varie categorie, tra i soldati, che operarono diverse scelte, che furono:
Quelli che si sottrassero alla cattura tedesca, e si nascosero e nel prosieguo della loro permanenza all’estero o rimasero sempre nascosti oppure entrarono nelle fila della resistenza locale;
Gli “internati”. ovvero quelli che direttamente o indirettamente caddero in mano ai tedeschi e furono Internati nei campi di concentramento in Germania o in Polonia.
I “combattenti”, ovvero quelli che, senza abbandonare le proprie armi, raggiunsero le formazioni esistenti della Resistenza locale ed iniziarono la lotta al nazifascismo.
I “fortunati”, coloro che riuscirono a rientrare in Italia (sia quella liberata che quella occupata dai tedeschi) usufruendo dei convogli o navi, mandate dal regio Governo o organizzate anche con il consenso dei tedeschi. A questi, con il passare dei mesi, si aggiunsero coloro che, datasi alla macchia in attesa degli eventi, organizzarono attraversate dell’Adriatico o a passare i confini con mezzi di fortuna o utilizzando mezzi della Regia Marina inviati appositamente.
I “fedeli alla vecchia alleanza”, cioè coloro che accettarono le offerte dei tedeschi e passarono, anche in virtù di scelte dovute al caso ed alle circostanze, nei loro ranghi in nome degli ideali fascisti seguendo le motivazioni che a suo tempo portarono alla guerra dell’Asse. Fra questi vi furono anche coloro che, inzialmente “Internati” aderrono alle proposte tedesche e della Repubblica Sociale di entrare nelle loro organizzazioni militari.
Se gli Italiani sono chiamati a scegliere come impegnarsi e come affrontare il presente, appare chiaro che essi sono in situazione subordinata di fronte ad Alleati e a Tedeschi. Sono, in sostanza, esponenti di un Paese sconfitto, che non può accampare, al momento, alcun diritto. Hanno perso totalmente la sovranità del loro territorio. Questa è in mano al Sud agli Anglo-Americani e loro alleati, al Nord alla Germania. Sobo gli Occupatori, che instaurono le loro Amministrazioni le quali saranno, fino alla fine delle ostilità, in varia misura, le padroni assolute e le gerenti della Sovranità su tutto il territorio italiano in senso assoluto
Ogni Italiano o organizzazione o formazione italiana di qualunque tipo è al servizio al Nord come al Sud degli Occupanti, a prescindere da ogni considerazione. L’ultima parola, in ogni problema, circostanza o altro non spetta agli Italiani ma ad Angloamericani a ai Tedeschi. In base alla loro benevolenza o non benevolenza ci sarà spazio di manovra per gli Italiani per la realizzazione dei loro desideri ed interessi.
Occorre tenere sempre presente, quindi, che nella Guerra di Liberazione sia a Nord che a Sud è l’Occupante sia esso Anglo-americano o Tedesco che decide tempi e modi di ogni azione. Non vi sarà spazio per gli Italiani per incidire in questo meccanismo. Ne discende uno dei corollari della Guerra di Liberazione: gli interessi Italiani, qualunque siano, sono e saranno sempre subordinati a quelli dell’Occupante. Sarà solo la benevolenza del medesimo se qualche cosa verrà accordato, ma solo in vista o in virtù di un preciso tornaconto di chi lo concede.
Occorre prendere atto di questo, e sgombare il campo da ogni altra considerazione. E’ tipico anche della storiografia trasformare alcuni aspetti sopra descritti in elementi a noi favorevoli. Il movimento partigiano non ebbe mai la forza di sostituirsi alle Armate Alleate e la sua azione dipese sempre dal sostegno materiale degli Alleati. Il proclama Alexander del novembre 1944 fu un vero e proprio trauma per tutto il movimento partigiano, che fu superato solo per la forza morale ed etica di coloro che avevano scelto di combattere in montagna. Asserire che “furono i partigiani” avincere la guerra, significa non conoscre o non voler riconoscre ciò che realmente accadde in quei anni di guerra. Altre sono le “versioni” che nel corso di questi decenni si sono via via affastellate, a giustificare questo o quello, ma sono versioni di comodo, al servizio delle esigenze del momento e di determinate forze politiche, che nulla hanno a che fare con la realtà della Guerra di Liberazione.
Se sul piano dei rapporti di forza e sul piano strettamente materiale la situazione è quella sopra descritta, ben diversa era quella sul piano morale e politico. Se è pur vero che molti italiani si rifugiarono nell’attendismo, se forze conservatrici come la Chiesa Cattolica, peraltro fortemente compromessa con il Fascismo, furono un freno ad ogni inziativa voltà ad avere una Italia futura diversa da quella passata, è pur vero che la Guerra di Liberazione vi è stata perché alimentata da una tensione morale ed etica senza pari. Si sperava, attraverso l’impegno ed il superamento dell’attendismo e degli interessi personali, in qualcosa di diverso per le future generazioni. Si combatteva e si affrontavano rischi e difficoltà in vista di un domani migliore che non fosse il presente. Si subivano e si sopportavano gli Occupatori, e al Nord che al Sud, nella convizione che presto tutto sarebbe finito e che ci sarebbe stata la possibilità di poter scegliere un modello di vita sociale diverso da quello avuto fino ad allora. Era la spinta ideale del movimento partigiano al Nord che raccolse nelle sue fila uomini di provenienza la più disparata, spesso antagonisti tra loro, come il dopoguerra stara a dimostrae, ma uniti nel combattere il nazifascismo; come i soldati del sud, che superando il “chi to fa fa”, seppero combattere e reagire a tanto disfattismo; come gli Internati in Germania che, cn una semplice firma avrebbero posto fine a tutte le loro sofferenze, ma che resistettero in nome di un qualcosa che sarebbe stato il tessuto connettivo dell’Italia del domani; come coloro che all’estero combatterono per la libertà di altri popoli nella speranza di averla anche in Italia al loro rientro ed infine come coloro che in prigionia aderirono e collaborarono allo sforzo contro il nazifascismo come cooperatori sempre nella speranza che qualcosa dovesse cambiare per il futuro. E’ il patrimonio della Guerra di Liberazione, che subordinata all’Occupante sul piano materiale, vincolata agli interessi altrui, fu scuila e terreno di impegno morale ed etico, un investimento per il futuro, una speranza in un futuro migliore.
Questo approccio alla Guerra di Liberazione, ben può far comprendere come essa sia stata il crogiuolo della nostra storia recente e che in essa siano confluite tutte le componeti della nostra società, dall’estrema destra all’estrema sinistra, che, grazie alla partecipazione di tutti, ha fatto si che l’Italia potesse risalire con brillantezza il baratro in cui era sprofondata a seguito di una guerra malamente condotta e ancor più malamente persa.
[1] Zangradni R., 1943: 25 luglio – 8 settembre, Milano, Feltrinelli editore, 1964, pag. 40.
[2] Scrive Goebels nel suo diaro , all’indomani dell’annuncio dell’Armistizio “9 settembre 1943. Si dalla caduta di Mussolini abbiao sempre pensato ed atteso qusta mossa. Non avremo da fare mutamenti sostanziali nelle nostre misure. Possiamo mettere in motociò che il Fuhre avrebbe voluto fare immediatamente dopo la caduta di Mussolini”.
[3] Rinverdimmo agli occhi tedeschi la fama di “traditori”, ricordando il “giro di valzer” della Prima Guerra Mondiale, quando aderimmo all’Intesa dopo decenni di militanza nella “Triplice”, anche se formalmente l’alleanza era scaduta. I Tedeschi manifesteranno questo loro sentimento di disprezzo con l’insulto “Badoghlio”. Non da meno gli Angloamericani insriranno nel loro vocabolario il bereto “To badogliate” come sinonimo di inganno, superficialità mista a stupidità, mistificazione e quant’altro di ignominioso si può aggiungere nelle relazioni tra esseri umani.
[4] Grandi era stato ambasciatore per otto anni a Londra e vantava soldie amicizie anche nella cerchia più intima di Cherchill; chiese a gran voce e con insistenza di essere incaricato di condurre trattative, ma invano. Lo fu a fine agosto quando ormai tutto era compromesso e la sua missione, per l’evidenza delle cose, non fu mai avviata ma serv’ allo stesso Grandi ed alla sua famiglia di porsi in salvo in Spagna.
[5] Questi ebbe un ruolo primario nel 1914 quanto riuscì a portare a termine la sovvenzione erogata dalla Francia al “Popolo d’Italia”, diretto da Mussolini, per portarlo definitivamente, data la somma di denaro consistente, sulla sponda interventista.
[6] E’ veramente difficile capire questo modo di porre la questione di uscire dalla guerra in quanto l’Europa era dal 1939 sotto occupazione tedesca. Gli Angloamericani dovevano andare a portare soccorso all’Italia ed agli Italiani, non si sa in nome di che cosa o in cambio di chissa che cosa, mentre nulla era stato fatto ed era possibile fare per norvegesi, greci, belgi, cecoslovacchi, danesi, polacchi, russi, jugoslavi, francesi ecc. tutti sotto il gico tedesco e senza nessuna colpa.
[7] D’Ajetta era un uomo legato ad Acquarone, anche per la loro amicizia consolidata. Fu D’Ajetta che introdusse nei circoli esclusivi, che sia Acquarone che D’Ajetta frequentavano e noti per quello che una volta si sarebbe definiti di “doce vita”, Galeazzo Ciano, cosa che fruttò al genero del Duce, oltre al rancore ed all’odio della suocera Rachele, la nota fama di dissolutezza e amoralità. Si evidenzia ancor di più che la scelta del nostro emissario da mandare a trattare un così grande problema come l’uscita dalla guerra, affidata a personaggio di tal fatta, non fu proprio felice.
[8] D’Ajetta era in grado di dare ampie notizie su questo aspetto; certment el’accusa di “traditori” avanzata agli Italiani da parte tedesca in questo segmento ha fondamenti consistenti.
[9] A questa proposta, il commento di Cherchill fu “ Dalla prima all’ultima parola, D’Ajeta non ha mai minimamente alluso a termini di pace e tutta la sua esposizione non è stata che la preghiera che noi si salvi l’Italia, dai tedeschi e da se stessa, e al più presto possibile.”
[10] La copertura era data dall’assunzione del Berio del posto di console generale italiano a Tangeri, lasciato scoperto da Mario Badoglio. Si doveva avvalere dell’aiuto dei vice-consoli groppello e Castronovo oltre che dei buoni uffici della consoerte di Mario Badoglio, Giuliana. Doveva con tutte le cautele del caso prendere contatto con il console britannio Gascoigne, e porgergli le richieste italiane. Assolutamente si doveva fare attenzione affinché nulla trapelasse, dato che Tangeri era piena di spie tedesche. E’ appena il caso di far notare che appena giunto Berio a Tangeri, alcuni giornali locali avevano pubblicato la notizia che un plenipotenziario italiano era giunto per prendere contatto con gli angloamericani e trattare l’uscita dalla guerra.
mercoledì 30 dicembre 2009
Negazione In Marcia

(partercipa a combattere la negazione dell'Olocausto)
nell’ordinare che fossero fatti

molti filmati e molte foto.
OLOCAUSTO
Esattamente, come è stato previsto circa 60 anni fa…
E’ una questione di Storia ricordare che,
quando il Supremo Comandante delle Forze alleate

(Stati Uniti, Inghilterra, Francia, etc.),
Generale Dwight D. Eisenhower,
incontrò le vittime dei campi di concentramento,
ha ordinato che fosse fatto il maggior numero di foto possibili,
e fece in modo che i tedeschi delle città vicine
fossero accompagnati fino a quei campi
e persino seppellissero i morti.
E il motivo, lui l’ha spiegato così:
'Che si tenga il massimo della documentazione
– che si facciano filmati – che si registrino i testimoni –
perchè, in qualche momento durante la storia,
qualche idiota potrebbe sostenere
che tutto questo non è mai successo'.

'Tutto ciò che è necessario per il trionfo del male,
è che gli uomini di bene non facciano nulla'.
(Edmund Burke)

RIcordiamo:
dai piani di studio scolastici
poichè “offendeva” la popolazione musulmana,
che afferma che l’Olocausto non è mai esistito...
Questo è un presagio spaventoso sulla paura

che si sta diffondendo nel mondo,
e che così facilmente ogni Paese
sta permettendo di far emergere.
Sono trascorsi più di 60 anni
dal termine della Seconda Guerra Mondiale.
Questa e-mail viene inviata come una catena,
in memoria dei 6 milioni di ebrei,
20 milioni di russi,
10 milioni di cristiani,
e 1900 preti cattolici
che sono stati assassinati, massacrati, violentati,
bruciati, morti di fame e umiliati,
nel mentre la Germania e la Russia

volgevano lo sguardo in altre direzioni.
Ora, più che mai, a fronte di qualcuno che sostiene
“L’Olocausto è un mito”,
è fondamentale fare in modo che
il mondo non dimentichi mai.
è che venga letta da, almeno, 40 milioni di persone in tutto il mondo.
e aiuta ad inviare l’e-mail in tutto il mondo.
Traducila in altre lingue se necessario!
Non cancellarla.
Sprecherai solamente un minuto del tuo tempo
nell’inviarla ad altre persone.
Per contatti ricerca23@libero.it
martedì 1 dicembre 2009
LA CARRIERA
domenica 1 novembre 2009
venerdì 31 luglio 2009
Napoleone e i principi dell’arte della guerra
Une armée n’est rien que par la tête
Napoleone a Sant’Elena affermò, conscio delle sue eccezionali qualità, che anche dopo la sconfitta di Waterloo di lui si sarebbe parlato in futuro mentre invece i suoi avversari sarebbero stati dimenticati. Anche in questo la sua intuizione è stata esatta: pare che su Napoleone Bonaparte siano state scritte più opere che su qualsiasi altro personaggio storico.
Napoleone aveva sicuramente assimilato la teoria dell’arte della guerra sin dai tempi della scuola di Brienne, alla quale l'aveva iscritto il padre e, soprattutto, alla scuola militare di Parigi, dove però i risultati negli studi non furono brillanti: diventò infatti sottotenente di artiglieria classificandosi tra gli ultimi del suo corso.
Ciò peraltro non deve stupire se si pensa che Napoleone era un piccolo nobile di una provincia d'oltremare, la Corsica, in mezzo ai più noti rampolli della grande nobiltà francese che lo prendevano in giro per la sua pelle olivastra e la scarsa conoscenza del francese. Anche allora probabilmente non era estraneo il principio della raccomandazione.
Inoltre, non si deve dimenticare che Napoleone Buonaparte (così si chiamava fino al marzo del 1796, quando francesizzò il proprio nome in Bonaparte) non padroneggiava la lingua francese come i suoi compagni di scuola ed eccelleva in matematica ma non nelle altre materie.
La teoria ha codificato i principi dell’arte della guerra sostenendo che essi sono immutabili nel tempo. Nella storia moderna i maestri in materia sono stati, come tutti sappiamo, Machiavelli e Clausewitz e nei testi didattici delle scuole militari moderne sono ormai consolidati alcuni principi fondamentali che tutti conosciamo, come la massa, la velocità, la sorpresa.
Machiavelli è stato sicuramente studiato da Napoleone ed è stata pubblicata anche un'edizione de "Il principe" annotata da Napoleone; il testo sarebbe stato ritrovato nella carrozza dell'imperatore al rientro dall'infausta campagna di Russia. Le annotazioni di Napoleone appaiono verosimili perché sostanzialmente confronta la figura del principe con se stesso, ma si ritiene che l’opera sia sostanzialmente apocrifa.
Clausewitz, invece, ha scritto la sua opera "Della guerra" avvalendosi delle esperienze e degli ammaestramenti tratti anche e soprattutto dalla strategia e dalla tattica napoleonica.
Il celebre aforisma di Clausewitz "La guerra non è soltanto un atto politico, ma un vero strumento politico: una prosecuzione dell'attività politica, una sua continuazione con altri mezzi" è una perspicace osservazione della vicenda napoleonica.
Bonaparte fu prevalentemente un autodidatta ed era notoriamente un grande lettore e conosceva approfonditamente i classici della storia e della strategia, da Tito Livio a Giulio Cesare e Machiavelli, per non citare che i più noti, e ne portava i testi con sé anche durante le campagne di guerra. Derivò però la sua vera cultura in tema di strategia e di tattica soprattutto dagli insegnamenti del Maresciallo Maillebois, un condottiero francese della metà del settecento che egli studiò e apprezzò in modo particolare.
Napoleone tuttavia non fu mai un teorico bensì un grande pragmatico. Le memorie che dettò a Sant'Elena possono apparire come una codificazione di principi dell'arte della guerra che egli aveva sperimentato e padroneggiato. Non è così: sono piuttosto un tentativo brillantemente riuscito di mettere in rilievo per la posterità le sue straordinarie capacità non solo di ingegno ma anche di lavoro, determinazione e soprattutto di ambizione.
Napoleone Bonaparte durante le sue campagne, sia come giovane generale, sia come Primo Console e anche come imperatore, ha applicato i principi dell'arte della guerra in maniera intuitiva e pragmatica; egli stesso sostiene, infatti, che nessuna battaglia è uguale alla successiva e che nessuna battaglia è condotta e terminata come era stata pianificata.
Il piano strategico-tattico preventivo è indubbiamente necessario ma è ancor più necessario, affermava, avere il coraggio e la capacità di adattarlo alla situazione del momento e all'evolvere del conflitto ().
L’immaginario collettivo è, ad esempio, affascinato dalla vittoria di Austerlitz nella campagna del 1805 contro la terza coalizione (Inghilterra, Austria e Russia) che si concluse appunto con quella celeberrima battaglia.
Ma quella campagna non fu caratterizzata solo dall’esito della giornata di Austerlitz ma, soprattutto, dalla determinazione e dalla capacità dell'Imperatore di spostare nel giro di un mese dalle coste della Manica un esercito di 300.000 uomini, con i quali si riprometteva di invadere l’Inghilterra, attraversare vittorioso tutta l'Europa per giungere oltre Vienna, ad Austerlitz appunto, concentrando nel momento e nel luogo più idoneo le forze per battere la coalizione avversaria ().
Ritengo che sia più interessante, piuttosto che analizzare sotto il profilo teorico la genialità di Napoleone, conoscerne le vicende più significative. In altri e più chiari termini s’impara di più la strategia e la tattica studiando l’evoluzione delle campagne dei grandi condottieri piuttosto che mandare a memoria il Clausewitz. Ho scelto a questo scopo le fasi iniziali delle due campagne d'Italia del 1796 e del 1800, dove egli, ancora giovanissimo (nel 1796 aveva solo 27 anni), seppe agire con quella genialità pratica che è l’essenza della sua arte della guerra.
Non a caso ho scelto queste due campagne, anche se altri eventi bellici successivi hanno un maggior valore nell'immaginario collettivo (mi riferisco alle battaglie di Austerlitz, Jiena o Wagram, per non citare che alcune delle 100 battaglie combattute da Napoleone).
Si tratta di operazioni belliche condotte su un territorio che noi italiani ben conosciamo ma soprattutto, più che nelle altre, da esse si può capire come Napoleone abbia armonizzato brillantemente movimento, massa e sorpresa e come esigenze politiche, esigenze strategiche ed esigenze tattiche siano state un insieme inscindibile nella sua mente.
La fase iniziale della prima campagna d’Italia ()
Nel 1796 durante la guerra contro la prima coalizione (Inghilterra, Austria, Piemonte) il Direttorio riteneva che il fronte principale fosse a nord delle Alpi e considerava le operazioni dell’Armata d’Italia secondarie e destinate solo a fare cassa nella ricca Italia.
L’offensiva di Bonaparte ribaltò la gravitazione degli sforzi e le sue brillanti vittorie furono la dimostrazione della bontà della sua strategia. Contravvenne anche alle direttive del Direttorio che intendeva salvaguardare il Piemonte dei Savoia mentre egli volle neutralizzarlo e costringerlo a una pace separata. Partendo da Nizza arrivò quasi alle porte di Vienna. La sua genialità rifulse nella prima parte della campagna, quando aveva di fronte ancora le due armate piemontese ed austriaca.
Contro due armate, una austriaca di 40.000 uomini al comando del feldmaresciallo Beaulieu e una piemontese di 42.000 uomini al comando del feldmaresciallo Colli, avendo a disposizione 47.000 uomini in pessime condizioni, facendo leva sulla disciplina ma anche sulla promessa di onori e di bottino, riuscì a galvanizzare una truppa sfiduciata, senza soldo, senza viveri e senza scarpe, a separare le due armate, battere la piemontese costringendola, dopo appena un mese dall’inizio delle ostilità, all’armistizio di Cherasco e proseguire poi contro gli austriaci. Fu certo aiutato in questo dalla mancanza di cooperazione tra gli avversari che fecero a gara per farlo vincere.
In sintesi, gli austriaci e i piemontesi commisero errori esiziali:
operarono con obiettivi divergenti (salvare Torino e salvare Milano) ed esclusivamente in difensiva;
non strinsero un patto di comando unico;
disseminarono le forze (doppie dei francesi);
non coordinarono operazioni di soccorso reciproco;
non sfruttarono successi locali, che pur ci furono.
Bonaparte non fece invece praticamente errori e l’offensiva che condusse all’armistizio di Cherasco fu una guerra lampo "ante litteram".
La fase iniziale della seconda campagna d’Italia ()
Anche nella seconda campagna risalta, prima ancora che l’aspetto tattico, la grande intuizione strategica. Bonaparte, Primo Console, costituì in brevissimo tempo un’armata di riserva a Digione, valicò le Alpi dove nessuno lo aveva immaginato possibile, aggirò l’intera armata austriaca protesa dal Piemonte verso la Provenza sull’onda dei successi ottenuti l’anno precedente, realizzando così la sorpresa non solo in campo tattico ma addirittura strategico. Battè infine l’armata austriaca al comando del feldmaresciallo von Melas a Marengo (14 giugno 1800).
Marengo non fu però il capolavoro di Bonaparte che egli si sforzò di far credere, in verità riuscendoci. Tanto fu brillante la manovra che condusse l’armata francese nella pianura padana alle spalle degli austriaci quanto la condotta dello scontro di Marengo fu miope. Napoleone errò nella valutazione delle intenzioni del nemico e disperse le forze. Il Corpo di Desaix solo fortunosamente ritornò in tempo sul campo di battaglia.
La battaglia di Marengo non consentì l’annientamento dell’Armata di von Melas, lasciò i contendenti alla sera del 14 giugno sulle stesse posizioni sulle quali si trovavano al mattino, indebolì quasi nella stessa misura austriaci e francesi. Fu vinta da Bonaparte solo perché il Comandante in capo austriaco non trovò di meglio che arrendersi spontaneamente. Marengo non pose termine alla guerra che sarebbe terminata solo a febbraio dell’anno successivo (Pace di Lunéville), dopo la vittoria, questa sì determinante, del Generale Moreau a Hohenlinden nel dicembre del 1800.
Il felmaresciallo von Melas accumulò sbagli su sbagli:
perse l’occasione di occupare la Provenza in primavera;
sottovalutò l’Armata di riserva e non averla bloccata sulle Alpi;
disseminò l’Armata in Piemonte e in Lombardia;
accettò lo scontro invece di portarsi verso Mantova o Genova;
suddivise la propria cavalleria, che era un punto di forza determinante;
non effettuò ricognizioni sul terreno, pur avendo preso l’iniziativa;
costituì colonne d’attacco "ad hoc" smembrando reparti organici;
informò scarsamente i Comandanti in sottordine sul piano d’operazioni;
non motivò i reparti alla vigilia della battaglia;
abbandonò al nemico il giorno 13 sera proprio l’area di Marengo che il giorno dopo fu costretto a riconquistare a caro prezzo.
A Marengo anche Bonaparte non fu però immune da errori:
non individuò a tempo le intenzioni offensive degli austriaci;
distaccò tre Divisioni (Desaix e Lapoype) in inutili esplorazioni;
non perseguì l’annientamento dell’Armata austriaca.
Conclusioni
Napoleone fu indubbiamente un grande tattico ma soprattutto fu un grande stratega. Si celebrano le sue battaglie ma si trascura il fatto che a quelle battaglie vinte Napoleone giunse attraverso concezioni strategiche ad amplissimo respiro, soprattutto per allora (). In entrambe le campagne d’Italia non furono solo importanti le singole battaglie ma grandioso e ardito disegno strategico che ne fu la premessa.
Le vicende della prima e della seconda campagna d’Italia () insegnano che tra i principi dell’arte della guerra sia da aggiungere "saper approfittare della fortuna" e non è un paradosso. Essa ha giocato un ruolo molto importante in queste due campagne e non solo in queste: a Marengo Desaix avverte il rombo del cannone e arriva in tempo mentre a Waterloo Grouschy, inviato da Napoleone fuori dell’area della battaglia, sente il rombo del cannone ma non rientra, ritenendo di dover eseguire il primitivo ordine dell’imperatore. Gli esiti furono ovviamente opposti.
Emblematica, sotto questo profilo, l’operazione Voltri nella prima campagna, voluta dal suo predecessore, da lui non condivisa ma utilizzata per distrarre forze nemiche dalla direttrice di gravitazione dello sforzo ().
Adottò sempre rapidi mutamenti degli schieramenti e delle direzioni d’attacco in funzione dell’evolvere delle situazioni () ().
Seppe con intelligenza suddividere i reparti sul territorio, mantenerli leggeri per muovere più agevolmente (), per sopravvivere con approvvigionamenti e saccheggi e per confondere il nemico sulla direzione dello sforzo principale, e concentrarli nel momento decisivo per realizzare la massa facendo leva sulla velocità di spostamento delle truppe ().
"L’Imperatore fa la guerra con le nostre gambe" dicevano i "grognard"(). I soldati francesi erano in prevalenza contadini di leva, che muovevano solo con l’armamento, il munizionamento e quei pochi viveri che venivano distribuiti, dormivano all’addiaccio al fuoco dei bivacchi quando non trovavano case coloniche dove rifugiarsi ().
Ciò, al contrario degli austriaci, militari di carriera i quali, come scrisse Napoleone a Sant’Elena, non si capiva come facessero a combattere così appesantiti.
Aveva un rapporto privilegiato con i soldati che a Lodi lo soprannominarono "il piccolo caporale" e che chiamava i miei figli, anche se poi non esitava a sacrificarli a migliaia, anziché con i generali che teneva piuttosto a distanza, e visitava i reparti con frequenza (a differenza degli austriaci) ().
Una sua costante preoccupazione fu la ricerca della sorpresa attraverso la scelta di linee d’operazione alternative e dovunque mantenendo il segreto sulle proprie intenzioni ().
Ebbe l’intuizione e sperimentò l’impiego delle artiglierie a massa anziché disperderle a supporto diretto dei singoli reparti (). Privilegiò anche l’impiego a massa della cavalleria; nell’Armata di riserva la cavalleria era tutta al comando di Murat, mentre gli austriaci, pur avendo reparti di cavalleria ben più efficienti ed equipaggiati dei francesi, non seppero impiegarla a massa, cosa che avrebbe cambiato l’esito della battaglia ().
Napoleone può essere considerato l’inventore delle unità complesse pluriarma (Divisioni e Corpi d’Armata) da utilizzare come pedine autonome, mentre gli austriaci consideravano il reggimento solo come unità organiche e non necessariamente operative, che in combattimento potevano essere scisse per ricostituire altri reparti "ad hoc".
Per quanto riguarda l’organizzazione di Stato maggiore, è’ noto che Berthier fu il Capo di Stato maggiore per eccellenza di Napoleone, bravo a tavolino, meno quale Comandante. Occorre però precisare che Bonaparte utilizzò gli Stati maggiori quasi esclusivamente come organi per la redazione e la diffusione delle sue direttive verbali, piuttosto che come organo di consulenza in senso moderno.
La consapevolezza della sua superiorità oppure l’urgenza gli faceva spesso scavalcare lo Stato maggiore e colloquiare direttamente con i Comandanti in sottordine. Inoltre, sovrapponeva più canali per far giungere lo stesso ordine, a causa del rischio che i corrieri a cavallo potessero essere intercettati.
La logistica e l’organica non dovevano costituire un ostacolo al perseguimento dei movimenti e delle operazioni: l’armata di riserva che scavalcò le Alpi fu completata e approvvigionata marcia durante e ancora quando era giunta di a sud dei passi alpini.
In sintesi, Bonaparte applicava i principi fondamentali della guerra in modo intuitivo con audacia e grande flessibilità, contro avversari lenti e metodici, che operavano con concezioni mutuate dai loro predecessori () (). Sostanzialmente nessun nuovo principio ma una determinata pragmatica e realistica applicazione degli stessi. Perseguiva i propri obiettivi con grande determinazione, senza mai darsi per vinto, costi quel che costi anche in vite umane.
Curiosamente ed inspiegabilmente, Napoleone non promosse l’innovazione nei mezzi e nei materiali: il fucile era quello del 1777 ad avancarica e laborioso da impiegare (Mod. Charleville), con una gittata utile di 100 metri, così come le artiglierie che risalivano alle realizzazioni di Gribeauval.
Voglio terminare con un’altra caratteristica di genialità di Bonaparte, la sua capacità di rappresentare gli eventi a proprio uso e consumo, con una maestria nell’arte della comunicazione che aveva già messo in luce nella prima campagna, modificando fatti, tempi e perdite, ad uso della fama delle sue truppe ma soprattutto sua (). Ciò che non gli riuscì sul campo gli riuscì nella propaganda.
Il resoconto francese della battaglia di Marengo (ma dovrei dire i resoconti perché ne esistono ben quattro, l’ultimo dei quali presentato a Napoleone Imperatore proprio a Marengo nell’anniversario della vittoria) fu via via addomesticato, stravolto e mistificato sin dal primo momento e negli anni successivi; furono redatte quattro relazioni successive francesi, nelle quali si volle dimostrare che l’esito della battaglia non fu dovuto al caso ma a una precisa decisione strategica del Primo Console. Lo scopo era evidente: si trattava di una provvidenziale vittoria che consentiva al Primo Console di consolidare il proprio potere in Francia, anche se non concludeva la guerra contro l’Austria.
Sotto il profilo della mitizzazione del Personaggio, è emblematica la rappresentazione del passaggio del Primo Console sul Gran San Bernardo: il famoso quadro di David con Napoleone su un cavallo bianco. La realtà è ben diversa: lo superò a dorso di mulo e rischiò pure di cadere in un burrone.
mercoledì 1 luglio 2009
NOVITA'
Sono disponibili le audioguide in italiano e in inglese a 1,50 euro; 2 euro insieme alla guida cartacea.
Insieme al museo sono visitabili: selezione di dipinti di Paolo Paschetto; le collezioni archeologiche; la mostra "Giovanni Calvino (1509-1564) Un progetto di società" e la mostra "Vent'anni al Centro" sui vent'anni di attività del Centro culturale valdese (info: www.fondazionevaldese.org)
lunedì 20 aprile 2009

EDIZIONE NUOVA CULTURA
RICOSTRUZIONE E LO STUDIO DI UN AVVENIMENTO
MILITARE
COLTRINARI M. - COLTRINARI L.
ISBN 978886134267
pagg. 292 - 2009 - € 18,50
f.to 17X24
Collana
finalità del Progetto "Storia in laboratorio" promosso dalla Associazione Combattenti
della Guerra di Liberazione volto a divulgare e far conoscere la Storia alle nuove
generazioni, uno strumento utile al fine di ricostruire e studiare, il più correttamente
possibile, un evento storico-militare (del passato) proponendo un metodo di analisi
consequenziale.Prendendo a riferimento il fenomeno "guerra", il volume propone
schemi attagliati, anche in combinazione tra loro, alla guerra classica, alla guerra
rivoluzionaria e/o sovversiva, con le più varie accezioni, ed alle recenti peace support
operations, ove, in questo caso, i soggetti protagonisti da due passano a tre (parti in
conflitto/ forze di interposizione o "di pace").Sono "note",suggerimenti che ognuno
dei destinatari può, anzi deve, interpretare secondo la sua creatività, nella più ampia
accezione della libertà di pensiero, rispettando solo i criteri di scientificità e di coerenza,
al solo fine della conoscenza, la più ampia, onesta e completa possibile.
Un volume che vuole essere uno strumento, più da consultare che da leggere.
Per ordinare il testo invia una e-mail all'indirizzo: ordini@nuovacultura.it
martedì 30 dicembre 2008
La caduta di un regime
L’origine della Guerra di Liberazione, come causa remota, è da ricercarsi nel sostanziale fallimento del fascismo sia come movimento che come regime, fallimento che venne a maturazione nella primavera del 1943. Alla luce di quello che poi accadde e che fu uno dei temi della Guerra di Liberazione, ovvero il “tradimento” da parte Italiana della Alleanza con la Germania, il ritorno del fascismo nelle forme e nella attività che diedero vita alla repubblica Sociale Italiana, è interessante e necessario capire il perché il fascisti, che avevano tutte le leve del potere e controllavano tutto lo Stato non difesero Mussolini ed il loro regime nel luglio 1943.
Occorre prendere atto che il fascismo, in tutte le sue manifestazioni, nella primavera ed ancor più all’inizio dell’estate 1943, aveva ormai raggiunto il punto più basso in termini di consenso e di fiducia presso il popolo italiano e nella considerazione internazionale, sia fra i nemici che fra gli alleati.
Aveva fallito tutti i suoi obbiettivi di guerra e la serie ininterrotta di sconfitte, oltre a provocare la perdita di prestigio internazionale, aveva anche alimentato la disistima dell’Alleato germanico e degli alleati minori.
Con l’invasione della Sicilia la guerra era arrivata in casa e nulla sembrava potesse arrestare tanto sfacelo.
Secondo Ruggero Zangrandi, “agli inizi del ’43 il fascismo era spacciato, in conseguenza di tre fattori per buona parte connessi.
Il primo ( che si deve riconoscere come determinante) fu la disfatta militare: la quale completò l’opera di discredito e di corrosione già compiuta dalla guerra, rilevando anche a tanti italiani che, illusi o ingannati, non avevano capito prima, la vera essenza del fascismo.
L’altro fattore che indicava prossimo il crollo del regime era, appunto, costituito dall’insofferenza e dall’opposizione popolari, pressoché generali ormai, non più dissimulate e ogni giorno più pressanti.
C’era infine la circostanza, forse più di tutte significativa, che non esistevano più, praticamente, fascisti. Anche se i vari gruppi di congiurati non se ne erano accorti e, anzi, misurassero i propri sforzi in vista di una temibile resistenza. In realtà, fatta eccezione per gli elementi troppo compromessi, qualche raro fanatico e una minoranza di giovanissimi e di combattenti che, nel clima di esaltazione e di disorientamento provocato dalla guerra, non riuscivano aprendere coscienza, non vi era, in campo fascista, neppure tra i massimi gerarchi, nessuno che avesse intenzione e volontà di difendere il regime. Il vecchio regime aveva, dunque, cessato di esistere di fatto già nella primavera del 1943; e coloro che ne rimossero il cadavere, con qualche anticipo rispetto alle ormai indifferibili esequie, ma con troppo ritardo per rendere l’operazione utile al popolo italiano, non ebbero altri meriti se non quelli che si sogliono riconoscere ai becchini. La loro azione, d’altro canto, fu esclusivamente ispirata a considerazioni di convenienza personale. Le forze che si rilevarono determinanti ebbero come unico stimoloquello di trovare una via di scampo al disastro in cui, insieme al fascismo, s trovarono coinvolte”[1]
E’ in questo clima di ampia sfiducia verso il fascismo che vanno cercate le cause e le motivazioni che, all’indomani della proclamazione dell’armistizio, saranno alla base delle scelte degli Italiani che daranno vita ai “fronti” della Guerra di Liberazione.
Tutti gli esponenti fascisti erano consci che da soli non avrebbero avuto la forza di salvare la situazione. E saranno proprio loro che provocheranno la caduta e l’arresto di Mussolini. L’occasione fu la seduta del Gran Cosiglio del Fascismo con la messa ai voti del cosiddetto “Ordine del Giorno Grandi”, con il quale si riaffidavano al Sovrano Vittorio Emanuele III tutte le sue prerogative; con ciò,in pratica, si esautorava Mussolini e si decretava la fine del regime fascista. Un passo grave, che poneva fine ad una ventennale dittatura di un solo partito, passo aveva motivazioni e ragioni complesse, ma che fu determinato, come elemento scatente la decisione, dall’esito infelice dell’incontro di Feltre del 19 luglio 1943 tra Mussolini e Hitler. In questo incontro l’alleato germanico, con sprezzante alterigia, non aveva concesso nulla a un Mussolini ormai impotente ed esausto. La delegazione italiana era andata a Feltre nella speranza che Mussolini, con il suo prestigio e la sua autorità, riuscisse di trovare il modo per strappare alla alleata Germania una sorta di consenso per uscire dignitosamente dalla guerra; queste speranze andarono deluse; il Duce del Fascismo ebbe un atteggiamento remissivo e succube, non riuscì nemmeno ad accennare la questione ad un Hitler deciso e sicuro di se, e Mussolini ne uscì con una netta sconfitta, ponendo le premesse reali della sua destituzione.
Il bombardamento dello scalo di San Lorenzo a Roma, il 19 luglio 1943 in contemporanea con l’incontor di Feltre, da parte Alleata, in cui si violava in modo quasi irrisorio le difese antiaere, mise a nudo ancor auna volta tutta l’impotenza dell’Italia, e fu visto come il preludio ad altri lutti e rovine, se non si fosse prese decisioni drastiche.
I quarantacinque giorni
Il 26 Luglio, dopo un colloquio a Villa Savoia con il Re, Mussolini fu arrestato e il governo affidato al Maresciallo Badoglio. Questi si affrettò a proclamare che la guerra sarebbe continuata affianco alla Germania, ma in pochi , compresi i tedeschi erano orientati a crederlo. Infatti iniziarono da più parti contatti con gli Alleati per negoziare l’uscita dell’Italia dalla guerra. Nei giorni che vanno dal 27 al 30 luglio, Gli Alleati si aspettavano una prima mossa da parte del Governo Badoglio, tesa a stabilire un primo contatto per avviare trattative per arrivare al meno a far cessare le ostilità. Questa era opinione diffusa, ed anche i Tedeschi, sopresi dalla caduta del Duce in modo cos’ repentino, erano sul chi va là in merito alle vicende italiane ed anche loro avevano ben chiaro che la mossa successiva di Roma sarebbe stata una iniziativa, nonostante tutte le manifestazioni di volontà in termini di “la guerra continua”, volta ad uscire dalla guerra.[2] Anglo-americani e Tedeschi, quindi, si erano messi in misura tale di essere pronti alla richiesta italiana di uscire dalla guerra, ed avevano entrabi le idee chiare sul come affrontare questo evento. Chi invece non aveva le idee chiare ed era molto lontano dalla realtà era il Governo Badoglio ed il suo capo. Ci si era posti il problema che oramai la situazione imponeva di uscire dalla guerra. Il primo passo era stato fatto, ovvero l’allontanamento di Mussolini, che la guerra aveva voluto. Ora si tratta di attuare il come uscirne, con il meno danno possibile.
Le ipotesi erano le seguenti: a) con una immediata richiesta di resa agli angloamericani e contemporanea denuncia della Alleanza con al germania; b) guadagnare qulahce settimana al fine di intavolare serie e dignitose trattative con gli anglo americani, e nelle stesso tempo intavolare serie e risolutive trattative con i tedeschi, venendo con loro ad una franca e defintiva spiegazione sulle reali condizioni dell’Italia non più in grado di condurre la guera. In entrambi i casi alto era il rischio di venire a combattere su due fronti, quello aperto con gli angloamericani e quello interno che sarebbe stato aperto dai tedeschi. Un fattore era determinante: occorrevano decisioni fulminee, precise ed efficaci, per non dare la possibilità ai nostri avversari di preparare le contromosse alla azione italiana.
Questo non fu attuato e si percosero strade, ed anche sentieri, così tortuosi che alla fine risucimmo screditati sia agli occhi dei Tedeschi[3], sia agli occhi degli Angloamericani.
In breve ripercorriamo le tappe di queste trattative, i cui protagonisti da una parte, quella italiana, furono il Re Vittorio Emanale III, Badoglio, Ambrosio, Capo dello Stato Maggiore generale ed Acquarone, ministro della Real Casa, e personaggi minori che a vario titolo entrarono nella vicenda, dall’altra gli Angloamericani. Queste trattative passano attraverso fasi, che sinteticamente possiamo individuare in un momento in cui Badoglio spervalutò la situazone italiana, avviando trattative da pari a apari e dettando anche condizioni, una seconda fase in cui dovette constatare che i margini di discussione erano quasi nulli ed una terza in cui si accettarono tutte le condizioni senza rendersi conto delle conseguenze immediate e reali. Tutto questo, mentre continuavamo a manifestare professioni di lealtà e cameratismo verso i tedeschi, nella speranza che non sospettassero che si stava trattando segretamente con gli Alleati.
Persa l’occasione di agire immediatamente, e contemporaneamente scarata senza un reale motivo la possibilità di utilizzare emissari accreditati presso gli Alleati e di prestigio come Dino Grandi[4] e il Maresciallo Caviglia, noto antifascista, e molto stimato per i suoi trascorsi militari presso i Comandi Alleati. Fu scarata anche la possibilità di utilizzare le ambiascuate statunitensi e britannica presso il Vaticano perche non si aveva fiducia nei Codici diplomatici che queste ambasciate utilizzavano e che si riteneva fossero stati penetrati dai tedeschi. Vi furono nel contempo anche altre iniziative minori, che si sono perse nell’blio del tempo. Vi era in atto l’iniziativa dell’industriale Alberto Pirelli, che fu mandato in Svizzera ia primi di agosto, ma la sua missione non sortì effetti. Si disse che Badoglio tentò anche la carta della Massoneria, per aver autorizzato l’emissione di passaporti di comomodo, elargizione di somme ed altro, con la collaborazione del ministro della guerra Sorice e con una parte attiva del figlio di Badoglio, Mario, ma anche questo canale su perse nelle nebbie degli avvenimenti successivi. Vi era anche il tentativo del banchiere Giorgio Schiff-Gorgini[5], ma anche questo si perse nel nulla. Vi era poi il contatto stabilito a seguito della cattura di un nostro agente del SIM da parte inglese a Bendasi; gli inglesi erano disposti a mandare in cifrario e aprire questo canale, ma anche questa opportunità fu fatta cadere.
Questi tentativi che possiamo definire minori contribuirono, con il passare dei girni, ad elevare la soglia di diffidenza da parte Alleata, che di giorni in giorni divennero sempre più guardinghi per timore di essere raggirati dagli Italiani.
Si preferì, quindi, utilizzare diplomatici di secnda schiera, assolutamente sconosciuti agli occhi degli Alleati, e sostanzialemente privi di quel carisma e profilo internazionale che la situazione richiedeva. Queste missioni diplomatiche, come se la situazione fosse normale, già compromesse proprio perché tali, paetivano dal presupposto di trattare da pari a pari con gli Alleati, con l’intento di chiedere aiuti agli Alleati, nella convinzione, del tutto irreale, che era nell’interesse angloamericnao portare l’Italia nel proprio campo e quindi abbreviare la guerra, ovvero gli angloamericani dovevano portare soccorso all’Italia che era in serie difficoltà con i Tedeschi[6]
Le missioni diplomatiche avviate erano quelle el Consigliere di Legazione Blasco D’Ajeta[7] e quella del Console Alberto Berio.
D’Ajeta si doveva presentare all’ambasciatore britannico a Lisbona, sir Ronald Campbell, e presentargli gli intendimenti del governo italiano. A premessa di questi si doveva prospettare 1) l’atteggiamento apparentemente tempreggiaotre della monarchia e del governo Badoglio non doveva essere frainteso dagli Alleati, poiché era determinato dalla pressione tedesca; 2) che tale pressione si concretizzava in una massiccia occupazione militare geermanica[8] 3) che Roma era praticamente minacciata di occupazione, 4) che le condizioni dell’Italia erano disastrose.
D’Ajeta quindi doveva, al fine di attuare lo sganciamento, chiedere l’aiutoangloamericano, in attesa del quale gli angloamericani dovevano sospendere i bombardamenti e porre fine la campagna diffamatoria radiofonica contro il governo Badoglio e l’Italia in genere. In pratica D’Ajetta doveva far comprendere agli anglo americani che l’uscita dell’Italia era nel comune interesse, che se attuata ( secondo le indicazioni italiane) avrebbe grandemente giovato a Londra e Waschington.[9] L’incontor ebbe luogo a Lisbona , il 4 agosto 1943, dalle 11,30 alle 13, ma i risultati furono praticamente nulli.
Il tentativo del Console Berio si tinge dei contorni del romando d’avventure. Berio[10] era latore delle seguenti proposte: 1) i tedeschi erano padroni dell’Italia, eal primo sospetto si sarebbero impadroniti di Roma, facendo prigionieri Re e Badoglio: 2) Gli Alleati dovevano attenuare se non sospendere i bombardamenti, per agevolare la tenuta del fronte interno 3) Gli Alleati dovevano affettuare uno sbarco nella Francia meridionale, nei Balcani onde attirare forze tedesche e alleggerire la pressione sull’Italia. Tutto questo per dare la possibilità al governo italiano di effetture con successo lo sganciamento dai tedeschi e l’uscita dalla guerra. Nel corso delle conversazioni Berio doveva anche chiedere che gli Alleati effettuassero uno sbarco il più possibile a nord di Roma, onde ulteriormente agevolare l’azione italiana.
Queste proposte furono presentate al console britannico aggiunto Watkinson ( il titolare era in ferie) il 5 agosto 1943
Vari furono i tentativi di avviare trattative di armistizio,molte velleitarie, altre maldestre, che in parte insospettirono gli Alleati. Alla fine, in situazioni che daranno la stura a polemiche ancora oggi non sopite, si arrivò alla firma a Cassibile il 3 settembre 1943 del cosiddetto “armistizio corto”. Sulla base di intese non controllate e sensazioni il Governo a Roma ritenne che la proclamazione dell’armistizio dovesse avvenire non prima del 12 settembre. In realtà gli Alleati lo fecero coincidere con lo sbarco a Salerno, programmato per il 9 settembre, nella convizione che la resa delle truppe italiane avrebbe favorito lo sbarco, come in effetti avvenne. Proclamato alle 18,30 dell’8 settembre da Algeri e alle 19,45 da Radio Roma con un messaggio del maresciallo Badoglio, l’armistizio aprì una delle pagie più controverse e buie della nostra storia recente.
La non reazione per oltre 48 ore da parte delle Forze Armate italiane, combinata dalla pronta e decisa azione tedesca, fece sì che tutto l’apparato statale italiano crollò immantinente. Il Re ed il Governo si trasferono, via Pescara, a Brindisi, aprendo una crisi costituzionale gravissima. Il fatto grave da parte del Sovrano e del Governo non fu che lasciarono la capitale e si trasferirono in altra parte del territorio dello Stato al sicuro della minaccia tedesca; il fatto grave fu che per oltre 48 ore non si diede ordini a chicessia, lasciando nella più totale incertezza Comandi e Ministeri e l’intero apparato statale. Venir meno a questi doveri da parte del Re e da parte del Capo di Governo, in momenti delicati e difficili come quelli armistiziali, è inammissibile e inaccettabile sapeva quello Il motivo di questo atteggiamento?. Viarie le ipotesi
Al di là di ogni considerazione venne per ogni italiano il momento delle scelte. Prima per i soldati, che si trovarono spianate davanti le armi dei tedeschi poi per ogni cittadino italiano fu l’inizio di quella stagione, in cui a fronte di assenza di ogni autorità nazionale, non era possibile non reagire e schierarsi, pena la sopravvivenza.
Per i soldati all’indomani della proclamazione dell’armistizio le scelte erano le seguenti:
. in presenza o in assensa di ordini precisi, lasciare la divisa e cercare di raggiungere le proprie case, sottraendosi alla cattura tedesca; in molti vi riuscirono; altri, furono catturati e internati in Germania.
. resistere, combattendo, ad ogni richiesta di cessione delle armi.
Coloro che si trovarono al Sud in territorio controllato dagli Alleati, ebbero la possibilità o di rimanere alle proprie case, oppure di entrare a far parte della Organizzazione Logistica Alleata, oppure di entrare nelle fila del Regio Esercito, che si andava formando tra mille difficoltà.
Coloro che si trovarono al Nord in territorio controllato dai Tedeschi, ebbero la possibilità di rimanere alle proprie case, ma con maggiori difficoltà in quanto minacciati dalle retate tedesche, dai rastrellamenti, e dalla continua ricerca di mano d’opera forzata. Oppure di entrare nella fila del movimento partigiano sia nelle formazioni di città che in quelle della montagna, sceltà che si cominciò a palesare verso la fine del 1943. Oppure per coloro che vollero essere fedeli alla vecchia alleanza, aderire alla Repubblica Sociale Italiana, entrando nelle fila delle sue Organizzazioni civili e militari.
Sia al nord che al sud vi fu una massa di italiani che cercarono di scegliere il più tardi possibile cercando di superare la situazione contingente; diedero vita all’”attendismo” ovvero che si delineasse un vincitore certo e sicuro per poi fare le proprie scelte. L’attendismo è la mafestazione più di basso profilo della Guerra di Liberazione, frutto della sconfitta e delle necessità materiali che divennero di giorno in giorno sempre più impellenti, nella convizione che erano gli “altri” che dovevano condurre e concludere la guerra.
Per le truppe all’estero la situazione fu ancora più dolorosa. Abbiamo varie categorie, tra i soldati, che operarono diverse scelte, che furono:
Quelli che si sottrassero alla cattura tedesca, e si nascosero e nel prosieguo della loro permanenza all’estero o rimasero sempre nascosti oppure entrarono nelle fila della resistenza locale;
Gli “internati”. ovvero quelli che direttamente o indirettamente caddero in mano ai tedeschi e furono Internati nei campi di concentramento in Germania o in Polonia.
I “combattenti”, ovvero quelli che, senza abbandonare le proprie armi, raggiunsero le formazioni esistenti della Resistenza locale ed iniziarono la lotta al nazifascismo.
I “fortunati”, coloro che riuscirono a rientrare in Italia (sia quella liberata che quella occupata dai tedeschi) usufruendo dei convogli o navi, mandate dal regio Governo o organizzate anche con il consenso dei tedeschi. A questi, con il passare dei mesi, si aggiunsero coloro che, datasi alla macchia in attesa degli eventi, organizzarono attraversate dell’Adriatico o a passare i confini con mezzi di fortuna o utilizzando mezzi della Regia Marina inviati appositamente.
I “fedeli alla vecchia alleanza”, cioè coloro che accettarono le offerte dei tedeschi e passarono, anche in virtù di scelte dovute al caso ed alle circostanze, nei loro ranghi in nome degli ideali fascisti seguendo le motivazioni che a suo tempo portarono alla guerra dell’Asse. Fra questi vi furono anche coloro che, inzialmente “Internati” aderrono alle proposte tedesche e della Repubblica Sociale di entrare nelle loro organizzazioni militari.
Se gli Italiani sono chiamati a scegliere come impegnarsi e come affrontare il presente, appare chiaro che essi sono in situazione subordinata di fronte ad Alleati e a Tedeschi. Sono, in sostanza, esponenti di un Paese sconfitto, che non può accampare, al momento, alcun diritto. Hanno perso totalmente la sovranità del loro territorio. Questa è in mano al Sud agli Anglo-Americani e loro alleati, al Nord alla Germania. Sobo gli Occupatori, che instaurono le loro Amministrazioni le quali saranno, fino alla fine delle ostilità, in varia misura, le padroni assolute e le gerenti della Sovranità su tutto il territorio italiano in senso assoluto
Ogni Italiano o organizzazione o formazione italiana di qualunque tipo è al servizio al Nord come al Sud degli Occupanti, a prescindere da ogni considerazione. L’ultima parola, in ogni problema, circostanza o altro non spetta agli Italiani ma ad Angloamericani a ai Tedeschi. In base alla loro benevolenza o non benevolenza ci sarà spazio di manovra per gli Italiani per la realizzazione dei loro desideri ed interessi.
Occorre tenere sempre presente, quindi, che nella Guerra di Liberazione sia a Nord che a Sud è l’Occupante sia esso Anglo-americano o Tedesco che decide tempi e modi di ogni azione. Non vi sarà spazio per gli Italiani per incidire in questo meccanismo. Ne discende uno dei corollari della Guerra di Liberazione: gli interessi Italiani, qualunque siano, sono e saranno sempre subordinati a quelli dell’Occupante. Sarà solo la benevolenza del medesimo se qualche cosa verrà accordato, ma solo in vista o in virtù di un preciso tornaconto di chi lo concede.
Occorre prendere atto di questo, e sgombare il campo da ogni altra considerazione. E’ tipico anche della storiografia trasformare alcuni aspetti sopra descritti in elementi a noi favorevoli. Il movimento partigiano non ebbe mai la forza di sostituirsi alle Armate Alleate e la sua azione dipese sempre dal sostegno materiale degli Alleati. Il proclama Alexander del novembre 1944 fu un vero e proprio trauma per tutto il movimento partigiano, che fu superato solo per la forza morale ed etica di coloro che avevano scelto di combattere in montagna. Asserire che “furono i partigiani” avincere la guerra, significa non conoscre o non voler riconoscre ciò che realmente accadde in quei anni di guerra. Altre sono le “versioni” che nel corso di questi decenni si sono via via affastellate, a giustificare questo o quello, ma sono versioni di comodo, al servizio delle esigenze del momento e di determinate forze politiche, che nulla hanno a che fare con la realtà della Guerra di Liberazione.
Se sul piano dei rapporti di forza e sul piano strettamente materiale la situazione è quella sopra descritta, ben diversa era quella sul piano morale e politico. Se è pur vero che molti italiani si rifugiarono nell’attendismo, se forze conservatrici come la Chiesa Cattolica, peraltro fortemente compromessa con il Fascismo, furono un freno ad ogni inziativa voltà ad avere una Italia futura diversa da quella passata, è pur vero che la Guerra di Liberazione vi è stata perché alimentata da una tensione morale ed etica senza pari. Si sperava, attraverso l’impegno ed il superamento dell’attendismo e degli interessi personali, in qualcosa di diverso per le future generazioni. Si combatteva e si affrontavano rischi e difficoltà in vista di un domani migliore che non fosse il presente. Si subivano e si sopportavano gli Occupatori, e al Nord che al Sud, nella convizione che presto tutto sarebbe finito e che ci sarebbe stata la possibilità di poter scegliere un modello di vita sociale diverso da quello avuto fino ad allora. Era la spinta ideale del movimento partigiano al Nord che raccolse nelle sue fila uomini di provenienza la più disparata, spesso antagonisti tra loro, come il dopoguerra stara a dimostrae, ma uniti nel combattere il nazifascismo; come i soldati del sud, che superando il “chi to fa fa”, seppero combattere e reagire a tanto disfattismo; come gli Internati in Germania che, cn una semplice firma avrebbero posto fine a tutte le loro sofferenze, ma che resistettero in nome di un qualcosa che sarebbe stato il tessuto connettivo dell’Italia del domani; come coloro che all’estero combatterono per la libertà di altri popoli nella speranza di averla anche in Italia al loro rientro ed infine come coloro che in prigionia aderirono e collaborarono allo sforzo contro il nazifascismo come cooperatori sempre nella speranza che qualcosa dovesse cambiare per il futuro. E’ il patrimonio della Guerra di Liberazione, che subordinata all’Occupante sul piano materiale, vincolata agli interessi altrui, fu scuila e terreno di impegno morale ed etico, un investimento per il futuro, una speranza in un futuro migliore.
Questo approccio alla Guerra di Liberazione, ben può far comprendere come essa sia stata il crogiuolo della nostra storia recente e che in essa siano confluite tutte le componeti della nostra società, dall’estrema destra all’estrema sinistra, che, grazie alla partecipazione di tutti, ha fatto si che l’Italia potesse risalire con brillantezza il baratro in cui era sprofondata a seguito di una guerra malamente condotta e ancor più malamente persa.
Note
[1] Zangradni R., 1943: 25 luglio – 8 settembre, Milano, Feltrinelli editore, 1964, pag. 40.
[2] Scrive Goebels nel suo diaro , all’indomani dell’annuncio dell’Armistizio “9 settembre 1943. Si dalla caduta di Mussolini abbiao sempre pensato ed atteso qusta mossa. Non avremo da fare mutamenti sostanziali nelle nostre misure. Possiamo mettere in motociò che il Fuhre avrebbe voluto fare immediatamente dopo la caduta di Mussolini”.
[3] Rinverdimmo agli occhi tedeschi la fama di “traditori”, ricordando il “giro di valzer” della Prima Guerra Mondiale, quando aderimmo all’Intesa dopo decenni di militanza nella “Triplice”, anche se formalmente l’alleanza era scaduta. I Tedeschi manifesteranno questo loro sentimento di disprezzo con l’insulto “Badoghlio”. Non da meno gli Angloamericani insriranno nel loro vocabolario il bereto “To badogliate” come sinonimo di inganno, superficialità mista a stupidità, mistificazione e quant’altro di ignominioso si può aggiungere nelle relazioni tra esseri umani.
[4] Grandi era stato ambasciatore per otto anni a Londra e vantava soldie amicizie anche nella cerchia più intima di Cherchill; chiese a gran voce e con insistenza di essere incaricato di condurre trattative, ma invano. Lo fu a fine agosto quando ormai tutto era compromesso e la sua missione, per l’evidenza delle cose, non fu mai avviata ma serv’ allo stesso Grandi ed alla sua famiglia di porsi in salvo in Spagna.
[5] Questi ebbe un ruolo primario nel 1914 quanto riuscì a portare a termine la sovvenzione erogata dalla Francia al “Popolo d’Italia”, diretto da Mussolini, per portarlo definitivamente, data la somma di denaro consistente, sulla sponda interventista.
[6] E’ veramente difficile capire questo modo di porre la questione di uscire dalla guerra in quanto l’Europa era dal 1939 sotto occupazione tedesca. Gli Angloamericani dovevano andare a portare soccorso all’Italia ed agli Italiani, non si sa in nome di che cosa o in cambio di chissa che cosa, mentre nulla era stato fatto ed era possibile fare per norvegesi, greci, belgi, cecoslovacchi, danesi, polacchi, russi, jugoslavi, francesi ecc. tutti sotto il gico tedesco e senza nessuna colpa.
[7] D’Ajetta era un uomo legato ad Acquarone, anche per la loro amicizia consolidata. Fu D’Ajetta che introdusse nei circoli esclusivi, che sia Acquarone che D’Ajetta frequentavano e noti per quello che una volta si sarebbe definiti di “doce vita”, Galeazzo Ciano, cosa che fruttò al genero del Duce, oltre al rancore ed all’odio della suocera Rachele, la nota fama di dissolutezza e amoralità. Si evidenzia ancor di più che la scelta del nostro emissario da mandare a trattare un così grande problema come l’uscita dalla guerra, affidata a personaggio di tal fatta, non fu proprio felice.
[8] D’Ajetta era in grado di dare ampie notizie su questo aspetto; certment el’accusa di “traditori” avanzata agli Italiani da parte tedesca in questo segmento ha fondamenti consistenti.
[9] A questa proposta, il commento di Cherchill fu “ Dalla prima all’ultima parola, D’Ajeta non ha mai minimamente alluso a termini di pace e tutta la sua esposizione non è stata che la preghiera che noi si salvi l’Italia, dai tedeschi e da se stessa, e al più presto possibile.”
[10] La copertura era data dall’assunzione del Berio del posto di console generale italiano a Tangeri, lasciato scoperto da Mario Badoglio. Si doveva avvalere dell’aiuto dei vice-consoli groppello e Castronovo oltre che dei buoni uffici della consoerte di Mario Badoglio, Giuliana. Doveva con tutte le cautele del caso prendere contatto con il console britannio Gascoigne, e porgergli le richieste italiane. Assolutamente si doveva fare attenzione affinché nulla trapelasse, dato che Tangeri era piena di spie tedesche. E’ appena il caso di far notare che appena giunto Berio a Tangeri, alcuni giornali locali avevano pubblicato la notizia che un plenipotenziario italiano era giunto per prendere contatto con gli angloamericani e trattare l’uscita dalla guerra.