Un nuovo indirizzo per questo blog

Dal 2019 questo blog ha riportato la collaborazione del CESVAM con la Sezione UNUCI di Spoleto. Con la presidenza del Gen Di Spirito la Sezione ha adottato un indirizzo di ampio respiro che si sovrappone a molti indirizzi del CESVAM stesso. pertanto si è deciso di restringere i temi del blog al settore delle Informazioni in senso più ampio possibile, e quindi all'Intelligence in tutti i suoi aspetti con note anche sui Servizi Segreti come storia, funzioni, ordinamenti. Questo per un contributo alla cultura della Sicurezza, aspetto essenziale del nostro vivere collettivo

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Contro tutti e tutto. I soldati Italiani nei Balcani nel 1943

Il Volume "La Divisione "Perugia" Dalla Tragedia all'Oblio" è disponibile in tutte le librerie. ISBN 886134305-8, Roma, 2010, Euro 20,00 pag. 329.



Ordini: ordini@nuovacultura.it, http://www.nuovacultura.it/ Collana storia in laboratorio;

Un Triste destino per la Divisione "Perugia"

Un Triste destino per la Divisione "Perugia"
La Divisione "Perugia" avrebbe avuto miglior sorte se Informazioni ed Intelligence avessero trovato più ascolto presso i Comandi Superiori

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venerdì 24 marzo 2017

La prima Guerra Mondiale

I Volumi che sono stati oggetto della conferenza di ieri presso la Sede sono disponibili per tutti i Soci presso la Presidenza della Sezione.
 chi desidera acquistarli può farlo direttamente alla 
casa editrice
ordini@nuovacultura.it
 o
contattando l'autore alla email
direttore.cesvam@istitutonastroazzurro.org

mercoledì 22 marzo 2017

22 marzo 2017 ore 16,30. Incontro con i Soci


CONFERENZA
 "I PRIMI DUE ANNI DI GUERRA"

L’Italia, l’entrata in guerra ed il tradimento degli Imperi Centrali” 1914-1916

di Massimo Coltrinari






La conferenza ha lo scopo di illustrare gli avvenimenti diplomatico-politici-militari nel  momento della rottura degli equilibri europei a seguito dell’attentato di Sarajevo; saranno illustrate le ripercussioni all’interno della Triplice Alleanza, l’esclusione dell’Italia dalla applicazione della Convenzione militare del marzo 1914, l’attacco alla Francia ed alla Russia, ed alla Serbia. La conseguenza di tutto questo fu la forzata neutralità italiana che acuì un problema strategico generatosi nel 1866 e che fu uno degli argomenti centrali nel problema della difesa del confine orientale.

La III Guerra di indipendenza aveva messo in gravissima difficoltà l’Italia. Al di là della condotta tattica della Guerra, l’Austria aveva preventivamente messo in bilancio di perdere il  Veneto, sia per carenza di forze sia perché il teatro principale era la Prussia, in quanto la pianura veneta non è difendibile se non si ha il possesso o del quadrilatero di fortezze allo sbocco della valle dell’Adige sull’asse Innsbruck – Verona, oppure Trieste, con l’Hermada e la basse valle dell’Isonzo. Altre difese non sono praticabile se non sotto dominio tattico dell’avversario.
Il dibattico svoltosi tra i componenti il vertice militare italiano di fine ottocento su dove occorreva difendersi o sulla linea el Piace o sulla linea dell’Adige durò fra gli strateghi italiani per oltre 40 anni. I Piani di difesa del confine orientale furono redatti dai Capi di Stato Maggiore: dal piano Ricotti Magnani (1873) a Cosenz (1883), da Tancredi Saletta (1904) ad Alberto Pollio (1914) a Luigi Cadorna. Si sono espoti, quindi, questi vari piani in una sintesi espositiva.

Anche per questo l’Italia, in contrasto con la Francia e la Gran Bretagna, non può che aderire alla alleanza con Germania ed Austria nel 1882, una sorta di Alleanza preventiva, quasi di una assicurazione sulla esistenza del giovane stato unitario italiano. La Triplice Alleanza venne rinnovata di cinque anni in cinque anni fino al 1914.

Accanto alla Triplice, venne firmata una Convenzione Militare che fu rinnovata nel marzo 1914, in cui l’Italia era partecipe all’attacco alla Francia, con oltre 150.000 uomini,con previsto anche un attacco alla neutrale Svizzera.

La esclusione da parte della Germania e dell’Austria dell’Italia, al momento della rottura degli equilibri europei nel 1914, in quanto entrambi si ritenevano sufficiente forti per conseguire una vittoria che non volevano dividere con l’Italia. Da qui dalla Triplice alleanza alla neutralità da parte di un Italia che nel 1914, allo scoppio della guerra europa non aveva ne amici ne alleati..

La figura del von Konrand e di parte del consiglio aulico di Vienna che voleva la guerra all’Italia, decisamente ostile all’Italia, èemblematica. Progetti portati a punto per la guerra preventiva nel 1908 ( terremoto di Messina) nel 1912 ( guerra di Libia) con l’intento di rioccupare non solo il Vento ma anche la Lombardia, riaprendo la questione risorgimentale erano nel 1910-1915 all’ordine del giorno a Vienna.

Dal momento della dichiarazione della neutralità, il 2 agosto 1914, l’Italia, come detto, non ha più ne alleati ne amici e si deve inventare tutta una nuova politica estera. Fino agli inzi del 1915 non viene presa nessuna decisione. Poi Sonnino e Salandra, rispettivamente Ministro degli Esteri e Presidente del Consiglio con l’accordo del Re, in contrasto con la maggioranza giolittina, decidono di fare il grande salto con la discussione e la firma del Patto di Londra (febbraio-marzo 1915). In Italia scoppia lo scontro tra la maggioranza neutralista, composta da giolittiani, cattolici e socialisti, ed interventista, repubblicani, sia storici che risorgimentali e nazionalisti, con figure di rilievo come D’Annunzio, Mussolini, Filippo Corridoni. Prevalgono gli interventisti, ma le belle parole non risolvono il problema prinicipale: la impreparazione delle Esercito, depauperato dalla guerra di Libia, e non pronto per una guerra all’Austria.

La dichiarazione di guerra fu prematura e la prima offensiva Cadorna la lancia il 23 giugno 1915, un mese dopo la dichiarazione di guerra.

In tutto questo gli Austriaci, che con i Tedeschi fecero di tutto per tenerci fuori dalla guerra offrendoci ogni cosa meno dandoci l’unica cosa che contava, Trieste, videro aprirsi un nuovo fronte e subito ci accusarono di tradimento.
Ma il vero tradimento fu quello di Berlino e Vienna del 1914, che poi fu mascherato da una campagna di propaganda ignobile che sarebbe ora di contrastare e respingere.
  
I Contenuti della Conferenza,  possono essere approfondi nei volumi qui riprodotti:


Richidibili alla Casa Editrice Nuova Cultura
all’Autore  
(studentiecultori2009@libero.it)






giovedì 23 febbraio 2017

Mercoledi del Nastro Azzurro. 1 marzo 2017 ore 17

ISTITUTO DEL NASTRO AZZURRO

FRA COMBATTENTI DECORATI AL V.M.

(Ente Morale R.D. 31 maggio 1928 n. 1308)
Piazza Galeno, 1 - 00162 ROMA


Federazione Provinciale di Roma 
Roma, 22 febbraio 2017


Comunicato Stampa



Mercoledì 1 marzo 2017
presso la Sala Convegni dell'Istituto del Nastro Azzurro Piazza Galeno,1 – Roma
dalle ore 17,00 alle ore 19,00
si terrà il 6° incontro del 2° ciclo
de "I Mercoledì del Nastro Azzurro"


verranno presentati i volumi
'Caschi Blu Italiani'

'ReportagEsercito'

a cura di 'Informazioni della Difesa'
rivista dello Stato Maggiore della Difesa

Interverranno:
Stefano Pighini, Tommaso Gramiccia, Massimo Coltrinari, Mario Renna, Giuseppe Tarantino.

info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org



venerdì 10 febbraio 2017

giovedì 26 gennaio 2017

Immigrazione e Strategie

Immigrazione
I limiti della strategia Minniti 
Bianca Benvenuti
18/01/2017
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Intensificare i controlli e aumentare la stretta sui migranti irregolari presenti nel territorio italiano. È questo l’obiettivo centrale della nuova strategia del ministro degli Interni Marco Minniti, che ha tra i suoi ingredienti la riapertura di un Centro di identificazione ed espulsione, Cie, per ogni regione e la conclusione di vari accordi di riammissione con i Paesi di origine e di transito.

L’obiettivo è di radoppiare le espulsioni portandole dalle attuali 5mila a 10mila unità. Un programma che ricalca le intenzioni del ministro dell’Interno tedesco Thomas de Maiziere che, in un’intervista al quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha dichiarato di voler aprire centri di deportazione delocalizzati e facilitare la firma di accordi di riammissione anche attraverso un “ammorbidimento” del principio del “paese terzo sicuro” che vieta rimpatri in paesi dove la sicurezza dei migranti è a rischio.

Anno nuovo, strategia nuova? La ricetta di Minniti per contrastare la migrazione irregolare sa più dell’ennesimo tentativo di far funzionare un sistema che ha già in passato dimostrato la sua inefficacia.

La detenzione amministrativa che non funziona
Il ministro Minniti promette una nuova politica sull’immigrazione che abbia come cardine l’aumento delle espulsioni e la diminuzione dei migranti irregolari presenti sul territorio italiano. Insomma, un rilancio della politica dei rimpatri che di nuovo ha poco o nulla. Ingrediente imprescindibile di questa “nuova” strategia, che verrà delineata con più precisione nelle prossime settimane, è la riapertura di un Cie per ogni regione.

I Cie, istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco-Napolitano, sono strutture detentive in cui vengono reclusi i cittadini stranieri colpevoli di reati amministrativi, cioè di aver soggiornato irregolarmente nel territorio italiano. Il periodo di detenzione può durare al massimo 18 mesi, periodo nel quale le autorità italiane dovrebbero provvedere alla identificazione e al rimpatrio del migrante nel suo Paese o nel Paese terzo dal quale ha transitato per arrivare in Italia.

Ma il “sistema Cie” non ha mai realmente funzionato. I dati dell’ultimo anno lo dimostrano: a fronte di 30 mila provvedimenti di espulsione firmati, solo 5 mila persone sono state effettivamente rimpatriate. Le difficoltà riguardano l’identificazione dei migranti, spesso sprovvisti di documenti, i costi del rimpatrio, ma soprattutto le resistenze di vari Paesi di provenienza a concedere il nulla osta.

Ne risulta che, dopo mesi di detenzione senza aver commesso un reato, ma solo un illecito amministrativo, il migrante si trovava di nuovo irregolare sul territorio italiano senza possibilità di legalizzare la propria posizione. Né le nuove misure previste da Minniti sembrano tali da ovviare a questi problemi.

Inoltre, l’approccio Cie risulterebbe inadeguato a fronteggiare i numeri di migranti irregolari presenti sul territorio italiano, considerando che si stima la presenza di 70mila solo tra coloro che hanno visto rigettata la propria domanda d’asilo. Molte associazioni hanno anche denunciato condizioni di vita disumane all’interno dei Cie, spesso ribatezzati “moderni lager”.

Accordo Italia-Libia
Il secondo e forse più importante elemento della “strategia-Minniti” è proprio il tentativo di stringere nuovi accordi di riammissione con i Paesi di origine e di transito. Secondo l’Agenzia Onu per i Rifugiati, più dell’80% dei barconi arrivati in Italia nello scorso anno proveniva dalle coste libiche e trasportava per lo più migranti provenienti da altri paesi, transitati attraverso la Libia.

La Libia è un Paese chiave per la gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo centrale: per questa ragione il ministro vi si è recato ad inizio anno, per stringere un accordo con il governo di Fayez el-Serraj al fine di fronteggiare il flusso irregolare di migranti e individuare le reti di trafficanti.

L’accordo con la Libia è chiave perché permetterebbe il rimpatrio in quel Paese non solo di migranti di nazionalistà libica, ma soprattutto di cittadini di Paesi terzi, transitati in Libia con i quali l’Italia non ha ancora accordi di riammissione. La vera domanda è se questo accordo funzionerà.

La situazione libica è il primo nodo da sciogliere. Precedenti governi italiani avevano già stretto accordi simili con Tripoli: nell’agosto 2008, l’allora Primo Ministro italiano Silvio Berlusconi aveva sottoscritto con il colonnello Gheddafi un accordo per la collaborazione tra i due Paesi nella lotta alla “immigrazione clandestina”. Con l’inizio della guerra civile e la destituzione di Muammar Gheddafi, presto saltò anche l’accordo tra i due paesi, dando inizio alla cosidetta “emergenza nord-Africa” in Italia.

Oggi, l’interlocutore scelto è l’esecutivo di Fayez al-Serraj, ovvero il governo riconosciuto dalle Nazioni Unite, che ha però il controllo solo di parte del Paese. Vaste aree del sud e della costa sono in mano a jihadisti e altre milizie, mentre il generale Khalifa Haftar mantiene il controllo dell’area di Tobruk e l’ex premier Khalifa Ghewell di Tripoli.

Resta poi aperta la questione delle condizioni di vita dei migranti in Libia; secondo recenti rapporti di Medici Senza Frontiere, i migranti vengono spesso detenuti in condizioni antigeniche e disumane. L’Italia sembra quindi disposta a derogare anche dal principio del Paese terzo sicuro, che ha suscitato tanta opposizione all’accordo Ue-Turchia.

Il fallimento del nuovo accordo con la Libia sarebbe un brutto colpo nella politica di Minniti di rinvigorire la stipula di trattati di riammissione con paesi di origine e di transito. Senza questo tassello, inoltre, anche la creazione dei Cie non avrebbe più senso, perché la reclusione amministrativa è inutile se non si può assicurare il rimpatrio dei migranti reclusi.

Manca ancora, non solo in Italia, ma anche in Europa, la consapevolezza del fatto che l’unico modo per contenere i flussi irregolari di migranti è l’apertura di canali migratori legali e di passaggi sicuri per chi cerca protezione.

Bianca Benvenuti è stata visiting researcher, Istanbul Policy Centre (IPC). Durante il suo periodo di ricerca presso lo IAI, si è occupata di relazioni Ue-Turchia e di crisi migratorie.
 
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Vedi anche
Italia, l’accordo con la Libia non decolla, Enza Roberta Petrillo
La ricollocazione non decolla … e c’è chi torna indietro, Bianca Benvenuti

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lunedì 16 gennaio 2017

Casa Bianca: l'arrivo del nuovo Presidente

L’America di Trump
Una squadra di generali, razzisti, miliardari
Giampiero Gramaglia
06/12/2016
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Dal giorno che Donald Trump ha conquistato la Casa Bianca, pur avendo ottenuto oltre due milioni di voti popolari in meno di Hillary Clinton, l’1,5% dei suffragi espressi, il tam-tam dei media batte lo stesso annuncio: “Il presidente sarà diverso dal candidato”.

Ora, a parte che non si capisce come un uomo di 70 anni possa cambiare la sua indole da un giorno all’altro, specie dopo essere stato premiato per i suoi atteggiamenti aggressivi, sessisti, grossolani, è un fatto che tutte le scelte finora fatte inducono a pensare esattamente l’opposto.

Prendiamo la composizione della squadra di governo, le cui caselle Trump riempie più celermente di tutti i suoi predecessori, almeno a partire da Ronald Reagan.

Il magnate e showman snocciola nomine, che vanno (quasi) tutte nello stesso senso: pare di stare in uno di quei film sul razzismo dell’aristocrazia del denaro del Profondo Sud, l’Alabama di ‘A spasso con Daisy’, o il Mississippi di ‘The Help’. Ma Steve Bannon, il super-consigliere, megafono mediatico dei suprematisti bianchi, sarebbe a suo agio nel Texas de ‘La Caccia’.

Le scelte cadono su ex generali e miliardari in servizio permanente effettivo. Pochi invece i politici.

La ricerca del segretario di Stato: ridda di nomi
Trump è ancora alla ricerca di un segretario di Stato potabile, che gli dia credibilità internazionale e che accetti d’entrare nella sua Amministrazione. Nelle quotazioni della stampa, i favoriti sono tre: Mitt Romney, candidato repubblicano alla Casa Bianca nel 2012, mai in sintonia con la campagna del magnate; Rudolph Giuliani, sindaco di New York l’11 Settembre 2001, il leader repubblicano più vicino a Trump; e David Petraeus, generale in congedo ed ex direttore della Cia.

Nessuno dei tre ha un profilo ideale: Romney è l’anti-Trump per antonomasia fra i repubblicani; Giuliani è stato indebolito da rivelazioni dei media su rapporti d’affari con Paesi terzi, che configurano conflitti d’interesse; Petraeus uscì di scena nel 2012 per uno scandalo che ne offuscò l’immagine (e l’affidabilità).

Così, la rosa dei nomi s’allarga. Il New York Times rimette in pista l’ex ambasciatore degli Usa all’Onu, John R. Bolton, un diplomatico competente, ma rigido e scostante nell’approccio: e cita pure Jon M. Huntsman, ex governatore dello Utah, ex ambasciatore in Cina e candidato nel 2012 alla nomination repubblicana;Joe Manchin III, un senatore democratico della West Virginia; e, infine, Rex W. Timmerson il presidente e ceo di Exxon Mobil.

Il presidente eletto ha anche sondato il senatore del Tennessee Bob Corker e il generale dei marines John Kelly - il figlio maggiore cadde in Afghanistan nel 2010 -, nomi apparentemente deboli per quel ruolo.

L’eterogeneità delle ipotesi indica che la ricerca del segretario di Stato è complessa: non è facile trovare un candidato preparato e affidabile che accetti di lavorare al fianco di un presidente capace di creare, in ogni momento, più o meno consapevolmente, un incidente diplomatico.

Trump rimette in discussione la distensione con Cuba, al momento stesso della morte di Fidel Castro; intende ripristinare l’uso della tortura nella lotta contro il terrorismo, nonostante le reticenze delle agenzie di sicurezza che ci sono già passate; infiamma le relazioni con la Cina, rispondendo alla telefonata della presidente di Taiwan Tsai Ing-wen (“Che male c’è?, mi ha chiamato lei”).

La sicurezza in mano ai militari: il nodo dell’Iran
Il segretario alla Difesa è James N. Mattis, 66 anni, generale in congedo che comandò una divisione dei Marines a Baghdad durante l’invasione dell’Iraq nel 2003: avido lettore di storia militare, ha nomignoli come ‘il monaco guerriero’, per il suo carattere ascetico - non è mai stato sposato -, oppure ‘cane pazzo’. Ai suoi soldati, impone di studiare usi e costumi delle terre dove sono mandati in missione.

Mattis guarda con preoccupazione all’Iran, ma non è favorevole a stracciare l’accordo nucleare definito con Teheran. In merito, John Brennan, direttore della Cia uscente, ha lanciato un monito alla futura Amministrazione: denunciare l’intesa sarebbe “disastroso” e potrebbe aprire una corsa agli armamenti in Medio Oriente.

Ma il successore di Brennan sarà Mike Pompeo, 59 anni, deputato del Kansas, origini italiane, un Tea Party vicino al vice-presidente Mike Pence: per lui, la priorità è l’abolizione dell’accordo con l’Iran, perché fatto “con lo Stato principale sostenitore del terrorismo al Mondo”.

Il consigliere per la Sicurezza nazionale sarà il generale Michael T. Flynn, 57 anni, un democratico uscito dall’Amministrazione Obama ed entrato nelle fila repubblicane in campagna elettorale.

Come ambasciatrice all’Onu, altra figura importante della politica estera e di sicurezza, Trump ha scelto Nikki Haley, 44 anni, governatrice della South Carolina, origini indiane, che non lo aveva sostenuto nella campagna. Mentre il capo dello staff alla Casa Bianca sarà un repubblicano ‘doc’, fra i pochi ad essergli stato vicino: Reince Priebus, 44 anni.

Tesoro, Giustizia e altre nomine
Alcune delle nomine finora fatte vanno esattamente in senso opposto alle promesse più improbabili del Trump candidato, a dimostrazione che la coerenza non è una caratteristica del presidente eletto: s’era presentato come l’incubo di Wall Street e della finanza protetta da Hillary Clinton e sceglie due finanzieri miliardari, Steven Mnuchin e Wilbur L. Ross, al Tesoro e al Commercio.

Mnuchin, 54 anni, ha gestito gli aspetti finanziari della campagna presidenziale, ha legami con Hollywood e con Wall Street, ma non ha esperienza di gestione della cosa pubblica.

Ross, 79 anni, fa l’investitore ed entra in squadra, come molti altri, perché è un grande finanziatore del partito repubblicano - suo vice è Todd Ricketts, 46 anni, proprietario dei Chicago Cubs che hanno appena vinto il campionato di baseball e figlio del fondatore di Ameritrade: nessuno di questi appare in sintonia con i minatori degli Appalachi e il metallurgici della Pennsylvania che hanno consegnato a Trump la Casa Bianca con i loro voti.

Il senatore dell’Alabama Jeff Sessions, 69 anni, sarà segretario alla Giustizia: è favorevole all’espulsione degli immigrati irregolari ed è contrario all’aborto ed ai matrimoni fra omosessuali. Nel suo CV, venature razziste, costategli il posto di giudice federale, e una battuta sul Ku Klux Klan: “Mi piacevano, ma poi ho saputo che fumano marijuana”.

Trump ha pure nominato uno dei suoi rivali per la nomination repubblicana, Ben Carson, 65 anni, neurochirurgo nero, all’Edilizia pubblica - va già bene che un creazionista come lui non sia finito altrove; Tom Price, 62 anni, deputato della Georgia, fra i critici più radicali dell’Obamacare, andrà alla Sanità; Elaine Chao, 63 anni, origini asiatiche, già ministro con George W. Bush, ai Trasporti; e Betsy DeVos, 58 anni, altra miliardaria, donatrice repubblicana, all’Istruzione - vuole dare i soldi dei contribuenti alle famiglie perché possano mandare i loro figli alle scuole private.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.

sabato 31 dicembre 2016

mercoledì 21 dicembre 2016

SCenari e minacce al termine di un anno

Difesa europea
Arriva l’inverno: è bene coprirsi
Stefano Silvestri
29/11/2016
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Le linee programmatiche volte ad attuare la Strategia Globale (SG) della Politica estera, di sicurezza e difesa europea (Pesd) approvate dal Consiglio affari esteri nei giorni scorsi confermano il carattere limitato, e per dir così sussidiario, di tale politica, ma potrebbero rivelarsi rapidamente obsolete.

Quali sono le minacce?
Tutto ruota attorno alla individuazione delle minacce alla sicurezza dell’Europa e al ruolo che potrà o vorrà giocare la Nato (in questo caso essenzialmente gli americani) per contrarle e dissuaderle.

Da sempre la costruzione europea si è sviluppata in un quadro di sicurezza garantito dalla Nato e dalle forze convenzionali e nucleari che gli Stati Uniti hanno dedicato alla difesa del vecchio continente. Ciò era vero quando si pensava di istituire la Comunità europea di difesa (Ced) negli anni ’50, ed è rimasto a maggior ragione vero negli anni successivi quando la costruzione europea si è indirizzata in campo politico-economico.

Ora si riparla di difesa europea, ma in sostanza si parte ancora dai limitati “compiti di Petersberg” identificati dall’Unione europea occidentale nel 1992, poi incorporati, dal 1997, nei Trattati dell’Unione europea (Ue). Allargati e approfonditi, essi riguardano essenzialmente le missioni di gestione delle crisi al di fuori dell’Europa e lasciano la difesa vera e propria alla competenza della Nato.

Naturalmente l’Ue contribuisce alla difesa: alcune sue politiche (sorveglianza delle frontiere, compiti di addestramento e di intelligence, missioni di sicurezza interna e di sicurezza cibernetica, eccetera) svolgono importanti funzioni di supporto. Inoltre l’Unione sta progressivamente sviluppando una sua politica industriale, di ricerca e sviluppo e di integrazione dei mercati europei che potrà contribuire a mantenere l’importante vantaggio tecnologico occidentale nei confronti del resto del mondo.

Guardiamo bene agli scenari
Tuttavia queste politiche devono ora fare i conti con l’arrivo dell’inverno. Gli sviluppi in Russia e nei paesi dell’ex-Unione Sovietica possono mettere a rischio la stabilità strategica europea. L’importante riarmo nucleare e convenzionale della Russia si accompagna ad una politica espansionista, dal Mediterraneo ai territori ex-sovietici, e forse anche in Asia, se ad esempio venisse confermata l’intenzione russa di riaprire una base navale in Vietnam.

A questo aggiungiamo gli equilibri asiatici già sottoposti a forti stress dal riarmo nucleare della Corea del Nord, dalle rivendicazioni marittime della Cina e dalla confusissima situazione in Medio Oriente, dove si delinea un confronto a quattro tra Turchia, Iran, Arabia Saudita e Israele (con impliciti rischi di proliferazione nucleare).

L’Europa ha sinora guardato a questi scenari con un certo distacco, ritenendosi garantita dal baluardo dissuasivo della Nato. È possibile che il nuovo Presidente americano confermi la solidità di questo impianto (pagato per circa ¾ degli stessi americani), ma è anche possibile che la Nato cominci a mostrare crepe pericolose.

Che farà la Russia?
Sinora Vladimir Putin si è limitato a piccole punture di spillo (come i sorvoli non autorizzati da parte di aerei militari), ma non ha esercitato significative pressioni militari contro l’Alleanza, ma in compenso è più volte caduto nella tentazione della escalation retorica e soprattutto ha abbracciato con entusiasmo la politica di liquidazione degli accordi di disarmo e controllo degli armamenti, improvvidamente iniziata da Washington con la denuncia del Trattato sui sistemi antimissile (Abm) e l’introduzione di nuove tecnologie destabilizzanti.

Ora egli annuncia che considera decaduto anche il Trattato che bandiva i missili a medio raggio (Inf), che preoccupano in primo luogo l’Europa, e non rimpiange certo la perdita, dal 2007, del Trattato che regolava le dislocazioni e i livelli delle forze militari convenzionali in Europa.

Egli sta conducendo un processo unilaterale di riarmo, che l’Europa sembra guardare con un eccesso di compiacenza, senza reagire, anche se in ballo ci sono paesi partner di una certa importanza come la Georgia e l’Ucraina, e l’equilibrio di aree strategicamente significative, dal Caucaso all’Asia centrale.

Ciò non servirà certo ad influenzare positivamente il nuovo Presidente americano: al contrario lo confermerà nella sua convinzione che, in questo campo, gli europei siano sostanzialmente dei saprofiti.

Una svolta positiva, ma incompleta
La svolta che l’Unione sta dando alla Pesd è certamente positiva e potrà contribuire, se ben sviluppata, sia alla sua buona salute che a quella della Nato. Tuttavia le sue limitazioni, che un tempo erano state concepite anche per renderla più accettabile agli occhi dell’Alleanza Atlantica (per non entrare in competizione e duplicazione con la Nato) ora delineano uno scenario del tutto insufficiente e rischiano di apparire come l’ennesimo tentativo di sfuggire alle proprie responsabilità parlando d’altro. Non possiamo ignorare la minaccia più importante che esiste ai nostri confini, e sperare di essere presi sul serio.

Certamente la questione della Russia non è solo militare, ma anche politica. È mancata una strategia coerente e lungimirante nei confronti di Mosca che aprisse la strada ad una reale partnership continentale. Ma un simile sviluppo non potrà basarsi sulla debolezza militare e sulla crisi della dissuasione. Il rischio che corriamo è quello di un progressivo indebolirsi della credibilità dell’Alleanza che potrebbe incoraggiare sia pericolose scelte avventuriste russe sia reazioni improvvisate e caotiche in Europa.

Come ad esempio quando, nel commentare l’elezione di Donald Trump e la possibilità di un ritiro americano dall’Europa, il portavoce dei Cristiano-democratici tedeschi, Roderich Kiesewetter, ha dichiarato che al limite lo scudo nucleare americano avrebbe potuto essere sostituito da uno scudo nucleare anglo-francese.

Non è la prima volta che queste idee sono state fatte circolare (anche se in genere riguardano più la Francia che il Regno Unito, le cui forze nucleari sono quasi integralmente dipendenti da quelle americane), ma non hanno mai dato frutti, soprattutto perché i paesi nucleari europei sono inerentemente più vulnerabili degli Usa, e hanno molte meno opzioni operative.

Ciò non significa che un deterrente europeo, nazionale o collettivo, sia impossibile, ma che per avere una credibilità sufficiente a coprire gli attuali paesi membri dell’Unione, richiederebbe importanti investimenti e soprattutto un livello di coesione e solidarietà oggi tutt’altro che evidente.

Prima di tentare disperate fughe in avanti è dunque opportuno che l’Europa mostri, con urgenza, la sua volontà di essere all’altezza delle sfide reali, e che accetti di dimensionare il suo sforzo militare ai livelli della minaccia (e non di sottolineare solo quelle minacce che il suo attuale livello di impegno le permette di contrare).

Qualcosa si muove, ma è una grave debolezza il fatto che, nella strategia globale e nelle sue linee programmatiche, questo punto non venga affrontato di petto. Possiamo capire le ragioni politiche e di opportunità che hanno portato a questo, ma non possiamo accettarle.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.

venerdì 9 dicembre 2016

Lanzarotto Malocello

PonentevazzinoNews
Varazze, 12.12.2016.                     Home page
Tradotto e pubblicato in lingua spagnola il libro di Licata su Lanzarotto Malocello
http://www.ponentevarazzino.com/wp-content/uploads/2016/12/Pubblicato-in-spagnolo-il-libro-di-Licata-su-Lanzarotto-Malocello-300x224.jpgIl “Comitato Promotore per le Celebrazioni del VII centenario della scoperta di Lanzarote e delle Isole Canarie da parte del navigatore italiano Lanzarotto Malocello (1312-2012)“, nel confermare il prosieguo delle attività celebrative per il prossimo 2017 in Italia e all’estero, rende noto che il libro di Alfonso Licata dal titolo “Lanzarotto Malocello, dall’Italia alle Canarie“, già ristampato in edizione bilingue italiano/inglese (“Lanzarotto Malocello, from Italy to the Canarian Islands“), è appena stato tradotto e pubblicato in lingua spagnola con il titolo “Lanzarotto Malocello, de Italia a Canarias“, a cura del Cabildo di Lanzarote (Governo Insulare di Lanzarote).
Il volume sarà presente e potrà essere consultato in tutte le biblioteche pubbliche delle Isole Canarie nonché diffuso, attraverso i canali  istituzionali, in tutta la penisola Iberica.
http://www.ponentevarazzino.com/wp-content/uploads/2016/12/Roma.11.02.2017-Cerimonia-internazionale-di-Gemellaggio-Hermanamiento-tra-Distretti-Lions-300x212.jpgIl libro, che ricordiamo vanta la prefazione dei medievalisti di fama internazionale Franco Cardini e Francesco Surdich, tratteggia, pur nella scarsità dei documenti e di dati precisi sulla vita del grande navigatore, gli orizzonti di una Genova che già aveva toccato l’acme della propria storia quale prima potenza marittima del Mediterraneo e che stava spostando la propria curiosità mercantile ed economica e le proprie navigazioni verso il quadrante occidentale del Mediterraneo, verso il varco di Gibilterra, puntando verso navigazioni atlantiche che miravano tanto a settentrione quanto lungo le coste africane.
Nell’opera, compendio, sono riportate le fonti documentali genovesi che parlano di un Lanzarotto Malocello già defunto, nel più ampio quadro di una rassegna delle fonti storiografiche italiane assieme a quelle straniere, soprattutto francesi, anglosassoni ed ispaniche.
Un ampio spazio viene riservato alla trattazione delle prime esplorazioni atlantiche da parte di navigatori liguri, ossia italiani, alla relazione di Giovanni Boccaccio sulla navigazione, questa con data certa, lungo la medesima rotta verso le Canarie, e forse Madera e le Azzorre, di Nicoloso da Recco e sul trattato De insulis di Domenico Silvestri, non dimenticando il quadro di riferimento mitico che faceva delle Canarie le Insulae Fortunatae.
L’opera, arricchita da numerose illustrazioni, non tralascia di tratteggiare lo stato delle Isole  Canarie al momento del primo impatto con una civiltà che arrivava da lontano e si conclude con un doveroso omaggio alle ricerche archeologiche, tuttora in corso, che mirano a mettere in chiaro eventuali residue tracce del passaggio di Lanzarotto Malocello sull’isola di Lanzarote, indissolubilmente legata con il proprio nome al navigatore ligure-varazzino.
Il volume, come è noto, non è in commercio ed è riservato alle Istituzioni, alle Università, agli accademici, docenti, studenti e appassionati di storia medievale e delle scoperte geografiche i quali, ove vogliano consultarlo nella originaria versione in italiano, potranno farlo on line sul sito del “Ministero della Difesa” oppure, entro il limite delle copie disponibili, richiederlo al “Comitato per le Celebrazioni del VII Centenario“, o all’Ufficio Storico dello Stato Maggiore della Difesa: quinto.segrstorico@smd.difesa.it.
L’iniziativa di tradurre il testo del libro in varie lingue è finalizzata alla più ampia diffusione, divulgazione e valorizzazione dell’eccezionale impresa del navigatore varazzino ben oltre i confini nazionali.
A tal proposito, l’edizione in lingua spagnola del volume , che era stata preannunciata dall’autore  nel corso di una conferenza al Parlamento Europeo lo scorso 31 maggio 2016, sarà presentata l’11 febbraio 2017 a Roma, presso la sede della Casa dell’Aviatore (Viale dell’Università n.20), in occasione della Cerimonia internazionale di Gemellaggio/Hermanamiento tra il Distretto Lions 108L d’Italia (Lazio, Umbria e Sardegna) e il Distretto Lions 116B di Spagna (Andalusia, Extremadura, Ceuta e Melilla, Isole Canarie) nel corso della quale alla Delegazione lionistica spagnola ed alle Autorità presenti sarà fatto omaggio dell’opera editoriale.

lunedì 14 novembre 2016

Mercoled' ' 16 Novembre ore 16,30. Conferenza.


   Titolo

"L'Ultima difesa Pontificia - 1860"

di Massimo Coltrinari

La descriverà gli avvenimenti che sottrassero le Marche e l'Umbria nel 1860 al Potere Temporale dei papi e quindi annesse al regno d'Italia

In particolare il settembre 1860, con particolare riguardo alle vicende a Spoleto






Sintesi dei volumi qui presentati

Carlo d’Angiò è il cavaliere che campeggia al centro dello stemma d’Ancona. Lo sostiene, senza porre dubbi, l’ultimo governatore pontificio di Ancona, conte de Quatrebarbes. Dopo giorni di lotte accanite, con suo grande rammarico, lo stemma pontificio, il 29 settembre 1860 doveva essere abbassato per far posto allo stemma sabaudo, significando la fine del potere temporale dei Papi nelle Marche. La descrizione degli avvenimenti di parte pontificia per la difesa di questo potere è il filo conduttore del presente volume, che pone Ancona al centro degli avvenimenti del 1860. Avvenimenti che sono descritti nell’ottica di coloro, i legittimisti cattolici, che volevano difendere questo potere, perdurante da oltre tre secoli, che ritenevano indispensabile per l’esercizio della missione del Papa e della Chiesa Cattolica.
Nel adottare il principio che è con la geografia che qualsiasi storia deve iniziare, caro all’Autore, il volume dedica ampio spazio ad Ancona come città e come piazzaforte. Ne esce un quadro di come Ancona era nel 1860, un quadro che si può considerare come il punto di partenza dello sviluppo, non solo urbanistico, della Dorica negli ultimi 150 anni.
Nella prima parte del volume, che è questo Tomo I, viene presentata Ancona come era nel 1860, ovvero dopo oltre tre secoli di dominio papale. Ancona nella sua struttura urbanistica, tutta racchiusa entro le mura, in cui le opere militari di difesa, forti, bastioni, portelle, mura si alternano con i simboli e i luoghi della Chiesa, in particolare chiese e conventi. Ad Ancona accorsero per la difesa dei diritti della Chiesa la gran massa dei legittimisti di tutta Europa, escludendo o emarginato l’elemento “italiano” chiamato con una parola estremamente significativa “indigeno” o romano; aspetto questo che sottolinea come la Chiesa della seconda metà dell’ottocento era contraria al processo unitario italiano e sosteneva con tutte le sue forze i suoi diritti temporali; una convinzione che oggi appare non solo superata, ma aberrante nella visione della Chiesa universale, riferimento di tutti i popoli di buona volontà. Questo Tomo I è la fotografia, quindi, di Ancona, nel 1860; Ancona dentro le sue mura in una visione conservatrice e rivolta al passato di una città dalla vocazione cosmopolita e marinara. Gli avvenimenti come sono descritti fanno emergere una azione, da parte dei responsabili pontifici, piena di errori politici, sociali, economici, diplomatici e, soprattutto militari, che agevolò non poco l’affermarsi della temuta quanto odiata “rivoluzione”, tanto che le vittorie dei Sardi, ovvero degli Italiani, ottenute in questo modo, per la facilità con cui sono state conseguite, oggi non vengono considerate importanti, come in realtà sono, ma sostanzialmente disconosciute. Un oblio che coinvolge anche Ancona, nella Storia nazionale, che in questo passaggio, per lei fondamentale dallo Stato preunitario allo Stato nazionale perdette uno dei suoi monumenti più qualificanti e rappresentativi; la Lanterna, simbolo della essenzialità della sua vocazione commerciale e marittima. Un volume che vuole sottolineare che il nostro Risorgimento, in questa appena passata data anniversaria del 2011, più che celebrarlo va conosciuto e, possibilmente, studiato. Così come la Storia di Ancona.

Massimo Coltrinari, generale, analista militare, giornalista, è contitolare della Cattedra di Dottrine Strategiche e Storia Militare all’Istituto Superiore di Stato Maggiore Interforze, e ricercatore del Centro di Studi Strategici al Centro Alti Studi per la Difesa. È Cultore della Materia alla Cattedra di Geografia Politica ed Economica alla Facoltà di Scienze Politiche della Università “La Sapienza” di Roma. È direttore della Rivista “Il Secondo Risorgimento d’Italia” e collabora a giornali e riviste specializzate. Medaglia Mauriziana per i dieci lustri di servizio continuativo, è Cavaliere Ufficiale al merito della Repubblica.

domenica 23 ottobre 2016

Mercoledì 16 novembre 2016 Ore 16,30 Conferenza Alla Sezione UNUCI

 Il Volumi qui rappresentati descrivo gli eventi del 1860 dalla parte dei Vincitori
La Conferenza sarà incentrata sulla descrizione degli avvenimenti dalla parte dei Vinti, ovvero i ontifici

lunedì 10 ottobre 2016

UN problema da affrontare

Disarmo
Onu, possibile evoluzione sul nucleare
Carlo Trezza
06/10/2016
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Da molti anni nulla di significativo si è registrato sul fronte degli accordi multerali nel campo del disarmo nucleare. L'ultima intesa risale al 1996 con la conclusione delComprehensive test ban treaty, Ctbt, che proibisce gli esperimenti atomici.

Da allora la Conferenza del Disarmo di Ginevra, l'organo istituzionalmente competente per condurre tali negoziati, è rimasta paralizzata. È deprecabile che per oltre un ventennio non si sia riusciti a sfruttare le occasioni offerte dall'allentamento della tensione post-guerra fredda il quale va oggi tramontando.

Una novità per la messa al bando dell’arma atomica
La frustrazione si riscontra in particolare in seno alla Prima Commissione dell'Assemblea Generale dell'Onu che si riunisce ogni anno a New York nel mese di ottobre e che segue i temi del disarmo e della sicurezza internazionale.

Quest'anno si prevede un elemento di novità: verrà infatti discussa e votata una nuova risoluzione in cui un gruppo di Paesi capeggiati da Austria, Brasile, Irlanda, Messico e Nigeria, propone la celebrazione nel 2017 di una Conferenza per negoziare uno "strumento legalmente vincolante per proibire le armi nucleari che conduca alla loro totale eliminazione". Si tratterebbe in sostanza di perseguire "in un solo colpo" l'ambizioso obiettivo della messa al bando dell'arma atomica.

È la prima volta che in Prima Commissione viene proposto un testo così perentorio in cui vengono già individuati i partecipanti, la data,il luogo e la durata della prevista Conferenza. Ad aprire la strada è stata in realtà la Conferenza di Riesame del Trattato di Non proliferazione nucleare, Tnp, tenutasi nel 2010 a New York dove si convenne sull'obiettivo di un mondo privo di armi nucleari e si giunse ad affermare il principio degli effetti catastrofici dell'uso di tali armi.

Per approfondire questo ultimo tema si sono tenute successivamente, sotto gli auspici dei Paesi citati, tre conferenze internazionali che hanno affinato gli argomenti a favore di un'eliminazione delle armi nucleari ed allargato la piattaforma dei Paesi che condividono tale obiettivo.

La resistenza delle potenze nucleari
Le cinque potenze nucleari riconosciute dal Tnp (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti) che pure avevano aderito ai principi enunciati nel 2010, si trovano ora a resistere a questa iniziativa che giudicano irrealistica. Ad essi si affiancano i quattro Paesi (India, Israele,Pakistan e Corea del Nord) che si sono dotati unilateralmente dell'arma nucleare e che restano al di fuori del Tnp.

Non si trova a proprio agio neppure la Nato, la cui dottrina si fonda sul principio della deterrenza nucleare. Vista l'eterogeneità delle posizioni dei suoi membri sulla questione nucleare, l'Unione europea, Ue, incontrerà difficoltà a trovare un orientamento comune su tale spinoso argomento.

Gli ostacoli procedurali che gli agguerriti oppositori potranno frapporre sono molteplici. Le parti possono chiedere una votazione sui singoli paragrafi del testo ed esercitare ogni tipo di pressione. Le risoluzioni dell'Assemblea non sono comunque giuridicamente vincolanti e un'analoga conferenza sulla proibizione delle armi di distruzione di massa in Medio Oriente, fissata per il 2012, non ha mai visto la luce.

Ciononostante, è assai probabile che la risoluzione finisca per ottenere la maggioranza dei consensi e che quindi si inneschi a New York (e non nella sede istituzionale ginevrina) un effettivo meccanismo negoziale.

Probabilmente molti degli oppositori opteranno per non partecipare all'incontro e per dichiararsi non vincolati dai suoi esiti. Ma dall'esterno gli assenti avranno minori possibilità di influire sui negoziati i cui risultati rischiano in tal modo di essere ancora più contrari a quella che è la loro percezione dei propri interessi.

Molti si domandano se abbia un senso avviare una trattativa sulle armi nucleari se saranno assenti i principali detentori di tali armi. È quanto è già avvenuto allorché,mutatis mutandis, vennero concluse, rispettivamente nel 1997 e nel 2008, le convenzioni sulla proibizione delle mine anti persona e quella sulle munizioni a grappolo dalle quali rimasero estranei paesi importanti come Stati Uniti, Russia, Cina e India. Tali convenzioni furono adottate e vengono ora applicate senza la partecipazione dei "major players" che si sono trovarono relegati in un angolo.

Due sentieri negoziali da tenere insieme
Nel valutare i pro e i contro dell’iniziativa nucleare, che è però ben diversa da quella delle mine e delle munizioni a grappolo, occorre tener conto che va lentamente maturando il convincimento di un tramonto del dogma della bomba atomica come arma egemonica ed assoluta.

Il Presidente Usa Barack Obama se ne è reso primo interprete attraverso la sua dichiarata propensione a ridurre il ruolo dell'arma nucleare nella strategia di difesa statunitense. I tempi di Hiroshima e Nagasaki sono in effetti superati da nuove tecnologie che permettono a mezzi convenzionali più sofisticati e precisi di svolgere un ruolo strategico analogo a quello del nucleare senza averne gli effetti catastrofici.

Un piccolo e disastrato Paese come la Corea del Nord, con le poche risorse di cui dispone, è riuscito a procurarsi l'arma atomica. Qust'ultima, lungi dall'assicurare l'egemonia dei grandi, può permettere a stati fuorilegge ed eventualmente a gruppi terroristici di sfidare anche le maggiori potenze nonostante la loro schiacciante superiorità militare.

Attraverso il Trattato di non Proliferazione si è riusciti sinora a contenere la cerchia degli stati nucleari ma India, Israele, Pakistan e ora la Corea del Nord sono già riusciti a sfuggire dalle maglie di questo meccanismo. Altri paesi li potrebbero seguire. Le tecnologie nucleari si diffondono ormai anche via internet ed i costi delle apparecchiature più sofisticate sono sempre più alla portata anche dei paesi meno abbienti.

In queste circostanze viene da domandarsi se, in aggiunta alle sacrosante considerazioni di umanità e di civiltà, non militino a favore di questo negoziato anche motivi di convenienza strategica delle stesse grandi potenze.

Occorre mettere in conto tuttavia che il processo dall'esito incerto che si va profilando a New York rischia di richiedere anni di trattative. Sarebbe quindi prematuro gettare alle ortiche l'approccio alternativo al negoziato "in un solo colpo": quello che mira a perseguire una proibizione, come si è fatto sinora purtroppo con risultati deludenti, attraverso un processo per tappe successive.I due sentieri non si escludono tra loro, possono convivere e rafforzarsi vicendevolmente.

L'Ambasciatore Carlo Trezza è Presidente uscente del Missile Technology Control Regime. Ha presieduto la Conferenza del Disarmo ed il Advisory Board del Segretario Generale dell'Onu per le questioni del Disarmo. È stato Ambasciatore d'Italia a Seoul e presso la Conferenza del Disarmo a Ginevra.

giovedì 15 settembre 2016

Terrorismo: come affrontarlo

Reagire al terrorismo
Trovare le parole giuste
Cesare Merlini
02/08/2016
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La paura sta pervadendo le nostre società relativamente benestanti, aperte e mobili, dunque vulnerabili. I cittadini inermi, bambini compresi, sono sempre più il target primario della cosiddetta “guerra ibrida”, cioè terroristica e informatica oltre che militare e civile, anziché esserne il “danno collaterale”, come si usava dire.

Una barbarie che investe innanzitutto gli “stati falliti” di Iraq, Libia e Siria, ma che da lì si riflette a casa nostra. Queste forme arretrate di violenza beneficiano paradossalmente di social media avanzati quali veicoli principali di rivendicazione, propaganda e mobilitazione. Attraverso essi vengono fatte filtrare e amplificare motivazioni, che vanno dai fanatismi islamisti ai rigurgiti neo-nazisti e che permeano una gamma di patologie mentali e frustrazioni sociali, dando loro collocazioni religiose o politiche spesso solo pretestuose.

Il linguaggio dei deboli: paura e violenza
Ma la violenza sta anche inquinando il linguaggio e la pratica della lotta politica nei nostri paesi che si dicono democratici. Durante la Convention repubblicana alcuni sostenitori di Trump agitavano cartelli che chiedevano la morte per impiccagione della Clinton. Si dirà che l’America non è nuova a slogan politici estremi: Dallas era tappezzata di manifesti con il ritratto di Kennedy e la scritta “ricercato per tradimento”in quel giorno del novembre 1963 in cui il Presidente visitò la città texana e vi fu assassinato.

Ma la pratica di insultare gli avversari per delegittimarli e additarli al disprezzo, quando non all’odio, della gente si è molto accentuata nell’ultimo decennio o due. Le argomentazioni e la terminologia di reti televisive come la Fox hanno di fatto preparato nel tempo la retorica dell’antagonismo e della rabbia,che è divenuta dominante nella campagna del preteso magnate newyorkese dai capelli a nuvola gialla.

Si dirà anche che l’America non è sola. Il dibattito britannico sull’uscita dall’Unione europea è stato fortemente influenzato dai media popolari e scandalistici, che hanno sistematicamente propalato storture e falsità sul ruolo e le pratiche delle istituzioni di Bruxelles.

E che hanno spesso esaltato la paura degli immigrati: il polacco che sottraeva il lavoro agli idraulici francesi, secondo una bufala corrente nella campagna che portò al fallimento del Trattato dell’Unione nel referendum tenutosi oltr’Alpe nel 2005, è diventato potenziale stupratore di donne inglesi,quando ci si accingeva a votare per la Brexit. Qui alla durezza delle parole è di fatto seguita quella dei fatti con l’assassinio della deputata Jo Cox, socialmente impegnata e politicamente europeista, da parte di un fanatico del “Britain first”.

La retorica delle vittime e della guerra
La casistica potrebbe essere estesa ad altri paesi, in alcuni dei quali, come il nostro, la dialettica politica si sta indurendo e involgarendo così da rendere plausibili derive di imbarbarimento. Ma qui ci si vuole soffermare sull’uso delle parole, a cominciare da quello, appunto dilagante, di “paura” e “rabbia”, che sono indicative del fatto che viviamo in società insieme deboli e violente.

Sembrano contribuirvi ancora una volta i media, compresi quelli che intendono essere obiettivi, indipendenti e moderati, siano essi su carta o in onda. L’insistenza sulle immagini delle vittime innocenti, a Nizza come Monaco di Baviera, o della gente che fugge in preda al panico, all’aeroporto di Bruxelles come al museo di Tunisi, spesso riproposte ossessivamente, aiutano il diffondersi della paura e perciò stesso costituiscono un successo per i perpetratori, tanto più se organizzati, e uno stimolo all’emulazione per gli aspiranti terroristi, tanto più se isolati nei loro problemi di psiche e/o di collocazione sociale.

È dubbio che il diffuso ricorso alla retorica della guerra, ancor più se colorita di religione, ci aiuti ad uscire dal quasi ossimoro della debolezza cum violenza. A meno che non si indulga al libero uso delle armi da parte dei semplici cittadini, come vuole certa destra americana, grande sostenitrice di Trump, il monopolio dell’uso della forza resta ai poteri pubblici secondo le regole di civiltà ereditate dall’Illuminismo.

È solo all’esterno che, nella misura necessaria e nelle modalità adatte al carattere ibrido del guerreggiare, l’impiego dello strumento armato può assumere carattere bellico, mentre spetta ai vari corpi di polizia e militari riconvertiti, nonché a quelli di intelligence, difendere la sicurezza interna e ridurre la paura.

Parole diverse, come coraggio, o ragione
Ma anche il linguaggio può contribuire, riscoprendo parole quasi desuete come il “coraggio”che serve a vincere la paura e la “ragione” da contrapporre alla rabbia. L’uno e l’altra coinvolgono i semplici cittadini, come quel francese che cercò di fermare la corsa del Tir sulla Promenade des Anglais, o gli uomini e donne in uniforme, che abbiamo visto rischiare la vita nel loro operare spesso in condizioni di manifesta impreparazione e disorganizzazione.

Il coraggio e il raziocinio sono requisiti da esaltare nella vasta gamma di interventi che si rendono necessari. Ne tengano ben conto, innanzitutto nei nostri contesti europei e occidentali, sia la politica, reggitrice dei poteri pubblici, sia i media, formatori di opinioni con parole e immagini. Saper “parlare alla pancia” della gente, più che stimolare la ragione, aiutare le scelte e suscitare i valori, sembra invece essere diventato un merito, fonte di potere e di audience. Donde il successo dei partiti e movimenti populisti, nazionalisti e xenofobi, che nella paura e nella rabbia dei cittadini ci sguazzano.

Cesare Merlini è Presidente del Comitato dei Garanti dello IAI.
 

lunedì 12 settembre 2016

Caporal Maggiore Massimo Di Legge



NOI NON DIMENTICHIAMO CHI è CADUTO IN MISSIONI DI PACE




Caporal Maggiore Massimo Di Legge 

( Vds post in data 12 settembre 2016 su
www.secondorisorgimento.blogspot.com)

mercoledì 31 agosto 2016

.Italia. Affrontare l'emeergenza


Terremoto centro Italia
Sisma: come rispondere all’emergenza 
Alessandro Marrone
30/08/2016
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Il terremoto nel centro Italia ha attivato il sistema di sicurezza civile che affronta emergenze quali i disastri naturali, con una serie di misure che riguardano i soccorsi, gli alloggi e l’organizzazione delle attività per superare la crisi.

La Protezione civile e l’organizzazione dei soccorsi
Un cataclisma del genere (292 vittime, circa 400 feriti e oltre 2.900 sfollati) ha attivato il sistema di sicurezza civile che in Italia si occupa di affrontare disastri naturali o causati non intenzionalmente dall’uomo. Sistema che conta sul doppio pilastro del Servizio nazionale di protezione civile, coordinato dal Dipartimento omonimo in seno alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, e del Dipartimento dei Vigili del fuoco parte del Ministero dell’Interno.

Nei casi più gravi intervengono anche le Forze armate, ed infatti nei giorni successivi al sisma sono stati 1.250 i militari impegnati a fianco dei Vigili del fuoco (circa 1.200) e del personale della protezione civile. Quest’ultimo è composto prevalentemente da volontari, inquadrati nelle strutture locali, provinciali e regionali coordinate dal Dipartimento a Roma. Nel complesso si tratta di un sistema articolato con diversi attori coinvolti, incluse altre amministrazioni pubbliche e organizzazioni di volontariato come la Croce Rossa Italiana.

Il sistema è organizzato secondo il principio di sussidiarietà: in caso di crisi risponde per primo il livello locale, ed in base ad estensione ed intensità del disastro la gestione dell’emergenza passa al livello superiore. Quando si verificano calamità come quella dello scorso 24 agosto, la responsabilità passa immediatamente al livello nazionale, ed in particolare alla Presidenza del Consiglio dove il Dipartimento della protezione civile interagisce con i ministeri dell’Interno e della Difesa e gli altri attori coinvolti.

Ovviamente nel momento del disastro, come alle 3.36 della notte del 24 agosto, le “colonne mobili” costituite dai volontari della protezione civile, piuttosto che le unità dei vigili del fuoco o i militari della caserma di Rieti, partono autonomamente e appena possibile dalle province vicine – e meno vicine – per raggiungere e soccorrere le persone rimaste sotto le macerie. Con loro, la scorsa settimana c’erano anche molti semplici cittadini accorsi per dare una mano.

La fase attuale è quella della “risposta” all’emergenza, che dovrebbe essere subito seguita dalla fase della “ripresa” – ed in teoria preceduta da quelle di “prevenzione” e “preparazione” rispetto a disastri naturali ed antropici.

L’istituzione, il 28 agosto, a Rieti della Direzione di comando e controllo (DiComaC) della Protezione civile, assume le funzioni svolte nei giorni successivi al sisma dal Comitato operativo del Dipartimento a Roma, è un passaggio importante per l’organizzazione di attività più legate all'assistenza alla popolazione e al ripristino delle normali condizioni di vita.

Il confine tra “risposta” e “ripresa” dall’emergenza varia a seconda della gravità della crisi: nel caso del terremoto a L’Aquila del 2009, che ha visto circa 64.400 sfollati da assistere, la Protezione civile ha tenuto per otto mesi la guida del complesso delle attività in loco prima di passare il testimone alle autorità locali.

Casette e scuole per superare l’emergenza
Le attività ora in corso nelle zone del sisma riguardano in primo luogo gli alloggi per gli sfollati, anche considerando che l’inverno arriva rapidamente sull’Appennino. Aldilà delle tendopoli, per loro natura provvisorie, quattro sono le soluzioni possibili: l’alloggio in strutture alberghiere spesato dallo stato; i container, utilizzati l’ultima volta per il terremoto del 1997 in Umbria; i Moduli abitativi provvisori (Map) ovvero piccole case di legno ad un piano; i Complessi abitativi sismicamente ecocompatibili (Case), veri e propri edifici di tre-quattro piani poggiati su ampie piastre anti-sismiche.

I Map e le Case sono stati utilizzati estensivamente a L’Aquila, tanto che a dicembre 2009 – poco dopo la chiusura delle ultime tendopoli – ospitavano rispettivamente circa 7.000 e 17.000 sfollati, mentre gli altri erano alloggiati in strutture alberghiere, oppure erano in affitto finanziati tramite i Contributi di autonoma sistemazione (Cas) fino a 600 mensili. Considerando il numero attuale di sfollati, inferiore a 3.000, governo e sindaci si stanno orientando verso i Map e l’utilizzo di alberghi e residence per chiudere entro pochi mesi le tendopoli, mentre l’ordinanza della Protezione civile dello scorso 26 agosto ha già istituito Cas mensili fino a 600 euro.

Altra attività in corso consiste nella verifica dell’agibilità delle strutture scolastiche, per capire quali possono essere utilizzate e quali soluzioni trovare per quelle inagibili. La possibilità di mandare i propri figli a scuola è un elemento fondamentale nella decisione da parte delle famiglie se abbandonare definitivamente le zone terremotate, oppure se resistere al lungo periodo di ripresa dall’emergenza, nei Map piuttosto che negli alberghi.

A L’Aquila furono realizzati una serie di Moduli ad uso scolastico provvisorio (Musp), facendo sì che a settembre 2009 tornasse nelle scuole il 99% degli studenti dei comuni del “cratere” – il territorio che ha ricevuto il maggior danno e a cui si applicano le misure di risposta e ripresa dalla crisi – e questa soluzione è allo studio anche per l’emergenza odierna.

Altre misure adottate riguardano gli aspetti economici, altrettanto importanti per evitare lo spopolamento delle zone colpite dal terremoto: nei 16 comuni del “cratere”, dal 25 agosto è stato sospeso il pagamento dei mutui e delle bollette relative agli edifici distrutti o inagibili, e delle tasse statali – misura quest’ultima che a L’Aquila è durata due anni.

Ricostruzione: sicurezza, identità e comunità
Sebbene pochi giorni siano passati dal sisma e dal lutto, è importante pensare subito alla strada per la ricostruzione e all’idea, condivisa dal livello nazionale a quello locale, di come dovranno essere i centri abitati ricostruiti nelle zone terremotate. Dal punto di vista della sicurezza, è imperativo ricostruire gli edifici secondo i più alti standard anti-sismici per prevenire lutti e danni in caso di ulteriori terremoti, come fatto a Norcia dopo il sisma del 1997.

Dal punto di vista sociale e identitario, il principio “dov’era e com’era” per gli edifici storici, al fine di ricostruire rispettando l’impianto urbano pre-sisma, è oggi richiesto da più parti per Amatrice e gli altri borghi antichi – come fu chiesto e ottenuto a L’Aquila per il centro cittadino.

Dal punto di vista psicologico ed emotivo, tutte le suddette misure sono assolutamente necessarie – primum vivere – ma forse non sufficienti senza idee, simboli e attività che tengano vivo quel tessuto di relazioni umane che rende un paese o una città diversi da un cantiere e da un presepe – che li rende una comunità.

Alessandro Marrone è responsabile di ricerca del Programma sicurezza e difesa dello IAI (Twitter @Alessandro__Ma).