Master I Livello in
“Terrorismo e Antiterrorismo Internazionale. Obiettivi, Piani e Mezzi”
“SPIONAGGIO E CONTROSPIONAGGIO DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE”
Analisi e considerazioni
Anno Accademico 2022 -2023
II CAPITOLO
Il triangolo “segreto”
a.
Papa Benedetto XV e lo Stato Italiano
La
Santa Sede e il Vaticano pensano alla storia ed alle relazioni internazionali
da sempre in ottica di lunga durata, cercando sempre di unire attività
pastorale e politica, diplomazia e fattore umano. Nella sua storia la Chiesa ha
affrontato minacce vere e concrete, ha affrontato imperi e repubbliche, sovrani
e movimenti sociali, affrontato cambiamenti e subito minacce alla sua unità. Ha
sempre fatto dell’utilizzo del potere informativo e cognitivo, di una vera e
propria abilità d’intelligence, un fattore chiave per predire e rispondere alle
minacce. Non a caso Iosif Stalin considerava il Vaticano “un centro
reazionario […] molti preti cattolici e missionari del Vaticano sono delle spie
matricolate di livello mondiale”[1]. Andò molto vicino il
dittatore sovietico, perché è stato scoperto che da quasi cinquecento anni,
grazie a una rete composta da semplici sacerdoti, alti prelati e comuni laici,
il Papa ha avuto a disposizione il servizio segreto più affidabile della
storia.
Ci
fu una fase delicata nella storia della Chiesa compresa tra l’inizio del
Novecento e il periodo tra le due guerre in cui il combinato disposto tra
attività sotto copertura e diplomazia fu messo in campo con discrezione. Privata
della statualità nel 1870, la Santa Sede mirava allora a perseguire una
politica di contenimento di quelle che erano ritenute tre minacce diverse ma
convergenti. In primo luogo, il modernismo diffusosi nel mondo episcopale; in
secondo luogo, l’arrivo sul suolo europeo del comunismo anti-cristiano e ateo; infine,
la perseveranza al potere in Europa delle potenze di cultura protestante. Per
reagire al timore della marginalizzazione, dunque, la Santa Sede agì per ricordare
la sua capacità di giocare un ruolo nel mondo. In questa grande instabilità
mondiale di inizio novecentesco, emerge la figura incompresa di Papa Benedetto
XV.
Nominato
a capo della chiesa nel settembre del 1914, con trentotto voti e non uno di più
(quanto bastava per l’elezione), non venne visto subito di buon occhio dalla
maggior parte degli Stati mondiali. Non aveva nulla del physique du rôle
dei predecessori. Gracile, affetto da una forte miopia, di statura assai basso.
“Con la sua figura non impressionante e il suo viso privo di espressione, in
lui non c’è né maestà spirituale né temporale”, commentava un giornalista
americano che l’aveva osservato durante la sobria incoronazione nella Cappella
Sistina.[2]
Benedetto
XV iniziò così i suoi otto anni di permanenza sul Soglio di Pietro. Anni di
bombe e trincee, del guerrone che Papa Pio X aveva previsto e temuto con orrore.
Anni in cui il mondo cambiò come forse mai si era visto prima: il conflitto di trincea
con i suoi milioni di morti, la dissoluzione di quattro imperi plurisecolari,
la rivoluzione bolscevica, l’esplosione del nazionalismo, l’insorgere della
questione mediorientale. Alla Segreteria di Stato, massimo incarico nel
Vaticano nominò il Cardinale Ferrata, segnale molto chiaro di un cambio di
politica. Ferrata era filofrancese ed era stato stretto collaboratore di Leone
XIII, e il suo compito principale sarebbe stato quello di riconquistare la
simpatia della Francia. Ma Ferrata morì nel giro di un mese e a questo punto
Benedetto ricorse ad un altro francofilo, il suo vecchio amico e collega Pietro
Gasparri, a cui affidare il massimo incarico del Vaticano. Insieme a Gasparri
nominò il Barone Carlo Monti, suo vecchio amico, quale suo “intermediario” non ufficiale
con il governo italiano. Monti aveva la collocazione ideale per svolgere questo
compito, essendo direttore generale dell'ufficio per gli Affari di culto del
Ministero della giustizia (in seguito Ministero degli interni). Gli Affari di
culto avevano a che fare praticamente con tutte le questioni che toccavano le
relazioni della Chiesa con lo Stato italiano, specialmente proprietà e finanze
della Chiesa sotto il controllo statale.
Benedetto
XV, Papa riservato, freddo e forse troppo intellettuale, definì la Grande
Guerra “inutile strage”, consapevole che essa poneva diversi problemi al mondo
cattolico. In primo luogo, la spaccatura tra le nazioni cattoliche del Vecchio
Continente. In secondo luogo, il rischio, poi avveratosi, di un collasso dell’ Impero
austro-ungarico, baluardo del cattolicesimo in Europa. In terzo luogo, la
percezione del suicidio dell’Europa di fronte all’egemonia potenze
“anti-papiste”, Regno Unito e Stati Uniti. La partita andava ribaltata rispetto
all’idea di Pio X. Non era più l’interno della Chiesa il fronte da presidiare,
o non solo. Bisognava portare avanti una strategia sistemica capace di unire
attività informativa e diplomazia nei “punti caldi” d’Europa. Delle vere e
proprie sentinelle avanzate capaci di monitorare la temperatura dei vari
scenari. È noto che fin dall'inizio del conflitto il Vaticano fu accusato di
simpatie nei confronti degli imperi centrali, Germania e Austria-Ungheria, al
punto che Benedetto era regolarmente descritto alla stampa francese come il Pape
boche. Le potenze dell'Intesa avevano già chiuso i rapporti con la Santa
Sede: la Gran Bretagna aveva ritirato la sua rappresentanza non ufficiale a
Roma quattro anni dopo il crollo finale del potere temporale dei papi nel 1870,
gli Stati Uniti avevano ritirato la loro rappresentanza nel 1867, e la Francia
naturalmente aveva rotto le relazioni con la Santa Sede nel 1905.
Sul
pontificato dell’aristocratico genovese c’è un grosso punto interrogativo che
ha un nome e cognome, Rudolph Gerlach. Nobile bavarese, arrivato al sacerdozio
dopo aver tentato invano la carriera di ufficiale nell’esercito tedesco, era
stato nominato maggiordomo segreto del papa nel 1914 e frequentava assiduamente
da allora l’appartamento pontificio. Nel 1916 fu accusato dal governo italiano di
spionaggio e di tradimento poiché sospettato d’essere il perno di un sistema di
spionaggio, messo in piedi da tedeschi e austroungarici, che portò al clamoroso
affondamento delle due corazzate Benedetto Brin e Leonardo Da Vinci, vanto della
nostra Marina Militare. Bilancio: oltre 700 marinai uccisi. L’imponente nave da
battaglia Benedetto Brin, lunga 130 metri e dotata di 44cannoni, cola a picco
il 27 settembre 1915 dopo essere esplosa nel porto di Brindisi, trasformandosi
in una tomba per 456 uomini, tra marinai e ufficiali. Il referto delle autorità
parlava di un semplice incidente, causato da uno scoppio nella santabarbara
stipata di munizioni. L’immancabile commissione d’inchiesta si affretta ad
escludere che l’affondamento della Brin sia dovuto a un attentato. La Marina Militare
rassicura il Ministero dell’Interno di non esserci stato alcun sabotaggio. Ma
il capo della Polizia, Giacomo Vigliani, non ci crede e infiltra agenti segreti
nelle reti dello spionaggio austriaco a Zurigo. Uno di questi è un avvocato
tarantino, Archita Valente: si dichiara “socialista rivoluzionario” ma in
realtà lavora per l’Ufficio Affari Riservati. L’altro infiltrato è un
fruttivendolo napoletano, Enea Vincenzi, esperto di controspionaggio con alle
spalle attività nell’intelligence della Marina Militare. In Svizzera, Vincenzi
farà il doppio gioco: verrà coperto di soldi e incaricato dagli austriaci di
sabotare la flotta italiana. Detto fatto: Vincenzi fa sapere ai tedeschi che
l’esplosivo sarà introdotto a bordo dell’altra corazzata, la Leonardo Da Vinci,
nascosto in un carico di frutta. La grande nave, lunga quasi 170 metri ed
armata con 52 cannoni, è in servizio da appena due anni quando salta in aria
nel Mare Piccolo di Taranto dove vi era ancorata. Altra catastrofe: 249
militari uccisi. Di nuovo, il governo minimizza il disastro e impone la censura
alla stampa. Nuova commissione d’inchiesta: le conclusioni sono “riservatissime”
e formulate solo nel 1917: «Un’azione delittuosa, favorita da un deplorevole
stato di abbandono in conseguenza del quale, a bordo, non si vegliava». Al che,
Polizia e servizi segreti italiani capiscono che Vincenzi ha fatto il doppio
gioco. Da allora, l’ex “fruttivendolo” sparisce: forse eliminato dagli italiani
come traditore, o liquidato dagli stessi tedeschi per non lasciare in vita un
testimone scomodo. Affondata anche la seconda corazzata, l’intelligence della
Marina Militare cambia politica e passa al contrattacco, impossessandosi della
cassaforte dei servizi austro-tedeschi a Zurigo.[3] Tale operazione verrà
trattata nel sotto capitolo successivo.
A
complicare l’intreccio, si inserisce la vicenda, parallela, dell’altra spia,
l’avvocato Archita Valente, «un avventuriero affamato di soldi», sul quale il
capo della Polizia puntava per scoprire il ruolo del Vaticano, tramite Rudolph
Gerlach, nell’organizzazione spionistica che aveva portato all’affondamento
delle due corazzate. Vigliani era convinto che le notizie sulla flotta italiana
arrivassero ai tedeschi tramite Gerlach, cioè il maggiordomo papale, l’uomo più
vicino al Papa. Quest’ultimo, non vuole la guerra tra l’Italia e Vienna e teme
che, crollando l’Impero Austro-Ungarico, baluardo del cattolicesimo in Europa e
grande finanziatore di un Vaticano ancora gelido col governo italiano dai tempi
della Breccia di Porta Pia, possa preludere all’ulteriore indebolimento del potere
cattolico. Monsignor Gerlach è il suo uomo di fiducia. Dalle quinte della città
leonina, l’affascinante monsignore bavarese può dirigere la rete di spionaggio
a favore degli Imperi centrali e contro l'Italia. Può agevolmente inviare
informazioni a Berna, in Svizzera, alla sede dell'Evidenzbureau, la regia
unificata dello spionaggio austro-germanico, perché per la Corte Papale contavano
i suoi eccellenti rapporti con le case imperiali di Vienna e Berlino, le cui
generose donazioni ripianavano i bilanci del Vaticano.[4] Secondo la Polizia
italiana, è “merito” di Gerlach se i servizi austro-germanici sono riusciti a
colare a picco le due ammiraglie della Marina Militare. Per fermare Gerlach la
Polizia italiana ha intenzione di usare l’avvocato Valente. Quest’ultimo viene
spedito a Lucerna per spiare i servizi tedeschi, ma anche lui – sempre a corto
di soldi – diventa un doppiogiochista, fino a rivelarsi un anello
importantissimo nel caso Gerlach. Archita Valente, dovrà sostenere politici e
giornalisti italiani con soldi tedeschi, per ammorbidire le loro posizioni
verso la Germania e l’Austria: e lo farà tramite i buoni uffici del
potentissimo Rudolph Gerlach, l’uomo del Papa, di fatto un decisivo operatore
dell’intelligence. Anche stavolta il capo della polizia, Vigliani, intuisce il
doppio gioco della spia italiana, ma lascia correre: spera di avvicinarsi il
più possibile a Gerlach, scoprendolo “cassiere occulto” di Archita Valente per
conto dei tedeschi. Poco tempo dopo Valente viene arrestato e il Vaticano teme
che si arrivi all’arresto di Gerlach. Per evitarlo, si avviano trattative
segrete con il Governo italiano per il tramite di Monti. Dinnanzi alle sue
dichiarazioni di innocenza e per evitare la sua condanna Benedetto XV, aiutato
sempre dal barone Monti, fornì al cameriere il passaporto per fuggire in
Svizzera, facendolo scortare fino al confine da un funzionario della Questura. Uno
scandalo capace di demolire il già fragile legame tra quel che all’epoca era la
Santa Sede e l’Italia, anche perché non di spia qualunque si parlava, bensì di
una delle persone più vicine al Papa. Nonostante l’impegno del Vaticano per
dimostrare la sua innocenza, Gerlach fu ritenuto colpevole con una sentenza
emessa il 3 luglio 1917 e condannato all'ergastolo in contumacia. Il Papa non
crederà mai alla colpevolezza del suo maggiordomo e in un affettuosa lettera di
conforto fattagli recapitare in Svizzera lo rassicurò dell'«antico, immutato
affetto». Resta il fatto che il legame tra i due generò un grande intrigo di
Stato, perché Gerlach, che era a capo di una potente rete di spionaggio al
servizio degli Imperi centrali in guerra contro il nostro Paese, per la sua
posizione e godendo della piena fiducia del Papa, era in grado di carpire i più
importanti segreti militari italiani, causando anche pesantissime perdite di
vite umane. Successivamente gli 007 italiani in Svizzera segnalarono che l’ex cameriere
pontificio conduceva a Davos “vita di secolare convivenza” con una contessa. Qualche
anno dopo Gerlach chiese di abbandonare l’abito talare, impegnandosi a restituire
alcuni documenti vaticani che aveva portato con sé, e venne accontentato. Morirà
in Gran Bretagna, nel 1945, dove viveva sotto falso nome collaborando con i servizi
segreti di Sua Maestà.[5]
[1] Enver Hoxha, Con Stalin. Ricordi,
Roma 1984, p. 160.
[2] Matzuzzi Matteo, “Un Papa mai
amato”, in sito web Il Foglio quotidiano, 15 settembre 2014.
[3] “Lo 007 del Papa che fece affondare
due corazzate italiane”, categoria Segnalazioni del sito web Libree.
Associazione di idee, 6 maggio 2018.
[4] Intervista ad Annibale Paloscia rilasciata
all’ADNKRONOS del suo nuovo libro “Benedetto fra le spie. Negli anni della
Grande Guerra un intrigo in Vaticano”.
[5] Tornielli Andrea, “Un secolo fa
l’ergastolo al cameriere infedele”, sezione Vaticano Insider Italia, 1
ottobre 2012 in sito web La Stampa.
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