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Contro tutti e tutto. I soldati Italiani nei Balcani nel 1943

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Un Triste destino per la Divisione "Perugia"

Un Triste destino per la Divisione "Perugia"
La Divisione "Perugia" avrebbe avuto miglior sorte se Informazioni ed Intelligence avessero trovato più ascolto presso i Comandi Superiori

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venerdì 22 novembre 2013

Cefalonia VIII. L'azione delle forze armate germaniche


 (oontinuazione della ricostruzione dei fatti di Cefalonia secondo una ricostruzione del 1945)

L’AGGRESSIONE TEDESCA NEL SETTORE LIXURI

 «Il mattino del 12 settembre, domenica,- dice P. Formato- ebbi modo di visitare, per la celebrazione della Messa, le batterie del mio reggimento. Non le riconobbi più. Gli artiglieri, sempre bravi, sereni, disciplinati mi apparvero in preda alla più preoccupante agitazione. Chi sa in che modo fra essi, e ormai fra tutte le truppe, si era sparsa la voce che il generale volesse «vigliaccamente» disarmare la divisione di fronte ad uno sparuto numero di tedeschi, Il generale era ormai tacciato di «tedoscofilo», di «vigliacco», di «traditore» e peggio. Con gli occhi di fuori, lividi di indignazione, ufficiali e artiglieri mi urlavano di riferire che essi non avrebbero mai obbedito a chi avesse ordinato il disonore, che essi non avrebbero consegnato le armi a nessuno. L’eccitazione era impressionante ed andava sviluppandosi con la rapidità di un incendio».
Quanto accadeva fra gli artiglieri del 33° reggimento, accadeva pure, in misura forse minore ma sempre rilevante, in tutti i reparti dell’isola; ed in special modo fra quelli stanziati in Argostoli e vicinanze.
L’ordine o comunque un preavviso ufficiale sulla cessione delle armi non era stato peò ancora diramato.
Si trattava quindi, come dice P. Formato, di voci,
Ed anche il capitano Bronzini annota: «il diffondersi della voce che il generale stesse per concludere la cessione delle armi agitava la truppa».
Ma il fermento fra le truppe, anche senza ordini veri e propri, pur proveniva da qualche cosa di fondato.
Come sappiamo, nel rapporto del mattino precedente presso il comandante della divisione, non si era addivenuti ad «una chiara conclusione» : la maggior parte dei comandanti si era però pronunciata a favore della cessione delle armi.
E’ dunque più che verosimile che questi comandanti, ritornati presso i loro reparti, abbiano ritenuto di non dover nascondere ai propri collaboratori più vicini, e forse alle truppe stesse, lo stato delle trattative in corso e le stesse loro opinioni. Ne è da escludere che essi abbiano anche dato il via a qualche provvedimento preventivo per il caso, ritenuto ormai probabile ed imminente, che alla cessione delle armi si dovesse addivenire.
Comunque, la situazione del presidio di Cefalonia, il mattino del 12, aveva assunto aspetti che si prestano ormai ad una definizione.
Il comandante della divisione, col consenso della maggior parte dei comandanti in sottordine, persisteva nell’idea che la miglior soluzione consistesse nella cessione «onorevole» delle armi.
Egli aveva ancora fiducia in una conclusione, in tal senso, delle trattative.
Anzi, pur di giungere a tanto, sembra che non abbia dato rilievo ad incidenti relativamente minimi ma tuttavia sintomatici: il disarmo, da parte tedesca, di due nostri soldati e del drappello inviato ad Ankonas per recuperare i due moschetti; le cannonate contro il «tre alberi» nella rada di Argostoli (c’è però chi asserisce che il veliero tentasse veramente la fuga); la presa di posizione del semovente tedesco contro il dragamine armato di mitragliere.
E nemmeno, sembra, dette peso a quanto avevano riferito i militari di Santa Maura : che cioè il presidio di quell’isola, una volta arresosi, era stato, contrariamente ai patti, internato a Missolungi.
Aveva infine ceduto ai tedeschi ( e dato l’ordine, che fu eseguito nel pomeriggio del 12) l’importante posizione di Kardakata.
Nei reparti, il fenomeno era grande più specialmente fra le t, far i sottufficiali, fra gli ufficiali giovani, subalterni e capitani.
Il 33° artiglieria, come s’è già detto, era in testa a tutti: ma qui però anche il comandante, col. Romagnoli, anche se non esplicitamente, aveva aderito al movimento.
Negli altri reparti, invece, anche di artiglieria, gli ufficiali superiori avevano assunto un atteggiamento temporeggiatore manifestando apertamente l’intenzione di non voler contrastare alle decisioni che stava per prendere il comandante della divisione.
Alla testa del movimento, il 33° artiglieria.
In questo reggimento si distinguevano particolarmente il capitano Apollonio, il capitano Pampaloni, il capitano Longoni ed il tenente Ambrosini.
L’Apollonio, triestino di nascita – suo padre fervente irredentista, aveva subito trentanove processi politici da parte dell’Austria – è così giudicato dal sottotenente Boni: «di vivace intelligenza capace di dominare le più impensate situazioni, egli trovò campo fecondo per poter mettere in evidenza le sue qualità negli avvenimenti del settembre 1943».
E dal cappellano don Luigi Ghilardini: «le sue qualità sono molte, operanti sotto una viva intelligenza. I suoi soldati si specchiavano nel viso ed a lui guardavano e gioivano; lo chiamavano «la prova dell’onestà». E da P. Formato: «militare in tutta l’estensione della parola ha sempre nutrito rigidissimo senso del dovere e dell’onor militare. Qualche volta, per questo motivo, potè essere giudicato dai suoi artiglieri come troppo severo. Tuttavia fu sempre circondato dalla loro illimitata stima e dal più affettuoso attaccamento». E dal sottotenente Elio Esposito: «La sua figura spiccava fra tutti per la volontà inflessibile, per una serietà e dignità che veramente si imponevano».
La mattina del giorno 12, dunque, i capitani Apollonio, Pampaloni, Longoni, i tenenti Ambrosini, Boni e Cei erano far coloro che maggiormente propugnavano la lotta contro  tedeschi.
Dice il sottotenente Boni:«il capitano Apollonio assumeva la direzione di tutto il movimento anche per il fatto che, trovandosi la sua batteria all’ingresso della città, gli riuscivano facili i collegamenti con i comandi, con i reparti di fanteria e di artiglieria dislocati in Argostoli, con la Marina e con i patrioti greci. Disponeva inoltre di una  buona rete di informazioni che gli permetteva di controllare il benché minimo movimento di truppe tedesche».
Un altro aspetto della situazione, anch’esso chiaro, era determinato dall’ormai aperta fraternizzazione, a fine antitedesco, della popolazione greca dell’isola con i nostri soldati.
«La popolazione greca – dice P. Formato- era in gran fermento. Molti ex-ufficiali greci si presentavano ai vari comandi chiedendo armi e pregando di essere tenuti a disposizione nella lotta contro i tedeschi. Dal comando artiglieria furono allontanato con durezza; altrove – e soprattutto nei reparti minori – uomini e donne ottennero armi e munizioni in abbondanza».
Dichiara il capitano Apollonio: «verso le 10 ebbi degli interessanti colloqui con gli ufficiali greci Migliaressi e Kavadias. Poco dopo facevo intervenire al colloquio con le stesse persone il col. Romagnoli, il quale accettava in linea di massima l’offerta di collaborazione dei patrioti stessi. Il loro compito doveva consistere nel cooperare alle informazioni, nell’eseguire colpi di mano contro nuclei tedeschi isolati, tener sotto controllo con una compagnia il caposaldo tedesco isolato di Capo Munta, mentre altre due compagnie, dislocate lungo la strada Argostoli-Kardakata, dovevano intercettare, con guerriglia partigiana, autocolonne tedesche che eventualmente tentassero di raggiungere Argostoli. Subito dopo l’accordo, consegnai al ten. col. Kavadias ed al ten. Migliaressi gran numero di armi e munizioni per armare i patrioti greci che numerosi affluivano nelle file dell’ELAS. Presso di me veniva lasciato il sottotenente Gheorgopulo quale ufficiale di collegamento tra il mio ed il comanda partigiano greco di Cefalonia».
I patrioti greci, tentarono di porsi in relazione con lo stesso comandante della divisione.
«Si presentò al comando – informa il capitano Bronzini – un ex capitano dell’esercito greco. Egli dichiarò al generale che per la lotta contro i tedeschi erano già pronti nell’isola cinquecento uomini. Dal continente ne sarebbero potuti venie, entro due o tre giorni, circa duemila. Chiedeva di poter mettere le proprie forze al servizio della divisione e faceva presente la necessità di esser fornito di armi e munizioni. Il generale rispose che prendeva in considerazione la cosa e che si riservava pertanto di fargli conoscere la sua decisione appena possibile».
Qual’era lo stato d’animo dei tedeschi, ufficiali e truppa, in sì tempestose circostanze?
Non si può dare una risposta documentata. Ma è da ritenere per certo che essi, pochi di fronte a molti, tenessero gi occhi ben aperti su quanto stava succedendo nell’isola dalla sera dell’8 settembre. Non sarà pertanto loro sfuggito che l’intento conciliatore del comando della «Acqui» era infirmato dal comune e travolgente odio contro di loro delle truppe italiane. Come non sarà sfuggita l’intesa, ormai aperta ed operante, delle truppe italiane con la popolazione ed i partigiani greci. E’ quindi quasi certo che essi, intimoriti dal rumore della valanga che stava per precipitarsi su di loro, siano corsi ai ripari ed abbiano fra l ’altro riferito dello stato delle cose – senza neppure aver bisogno di esagerarlo – al comando superiore tedesco.
Questi glia spetti della situazione di Cefalonia nei riguardi del comando della «Acqui», delle truppe italiane, del rapporto fra italiani e greci, dello stato d’animo del presidio tedesco.
Non rimane che un quinto ed ultimo aspetto: il contegno del gen. Gandin di fronte alle intemperanze indisciplinari delle proprie truppe.
Il generale era al corrente di quanto avveniva nei diversi presidi dell’isola; sapeva inoltre di avere consenzienti al suo operato gli ufficiali superiori e grandissima parte di quelli inferiori, i quali tutti, pur contrari ad una cessione qualunque delle armi ai tedeschi, avevano apertamente dichiarato che avrebbero eseguito i suoi ordini.
«In più di un comando – ha dichiarato verbalmente P. Formato – gli elementi più accesi, ufficiali e soldati, venivano respinti con queste parole: non c’è bisogno di uscire dai termini disciplinari; qui ci sono soldati che conoscono i loro doveri ed uomini che non intendono abbandonare la via dell’onore».
Perché, dunque, così stando le cose, non risulta che il gen. Gandin abbia preso alcun provvedimento di rigore, sia pur formale, di fronte agli evidenti straripamenti disciplinari delle sue truppe?
L’assoluta assenza di segnalazioni a tal riguardo pone in luce un altro aspetto dell’animo generale.
Egli era nell’intimo solidale – pur nella contentezza delle gravi responsabilità umane e militari che pesavano su di lui – col sentimento dei suoi soldati.
Non poteva perciò avere alcun interesse di smorzare il furore delle sue truppe; sia per ricavarne maggiore consistenza alle trattative in corso per servirsene, in caso di fallimento delle trattative, quale miglior lievito per la lotta.
Nelle prime ore del pomeriggio del 12, per iniziativa d3el capitano Apollonio, venivano posti in libertà i prigionieri politici greci che si trovavano nelle carceri di Argostoli sotto custodia italiana.
Verso le 17, si diffuse la voce – risultata poi vera –che i tedeschi, nel settore di Lixuri, avevano sopraffatto le stazioni di carabinieri e di guardie di finanza dislocate nella cittadina di Lixuri e le due nostre batterie in posizione a San Giorgio e a Kavriata.
«Gli incidenti non si contavano ormai più; - dice P. Formato – ovunque si sentivano spari, detonazioni, di bombe  amano, farsi provocanti  e minacciose. Nessun ufficiale poteva più permettersi di pronunciare parole esortanti alla serenità ed alla disciplina senza essere all’istante tacciato di ».
aditore e di vigliacco. Il generale lavorava febbrilmente per giungere ad un accordo onorevole: l’andirivieni dei parlamentari al comando della divisione faceva però intravedere la difficoltà delle trattative».
« Il gen. Gandin – testimonia il capitano Bronzini – era indignato. Subito dopo, essendosi a lui presentato il ten. col. Barge, il generale gli chiese duramente spiegazione dei fatti di Lixuri. Il colonnello tedesco, con la consueta cortesia, si scusò dicendo che lui non aveva dato ordini, ma che erano stati i suoi soldati che avevano agito di iniziativa. Prometteva però che sarebbero stati senz’altro posti in libertà gli uomini. Per quanto riguardava le artiglierie, invece, si riservava di restituirle appena possibile».
Il ten col. Barge, però, appena terminata la discussione su questo argomento, fece la seguente dichiarazione: il comando superiore tedesco gli aveva tolto i poteri di trattare con il comando della «Acqui» e pertanto erano da considerarsi nulle le trattative fino ad allora svolte. Il comando superiore tedesco non intendeva più discutere: voleva soltanto sapere dal gen. Gandin se la «Acqui» era contro i tedeschi oppure si decideva a cedere le armi.
«Fu un colpo di scena – testimonia il capitano Bronzini – che rovesciò interamente la situazione».
Mentre al comando si svolgevano questi fatti un nuova voce corse come un baleno fra le truppe: il gen. Gandin aveva deciso ed «ordinato» la cessione delle armi ai tedeschi.
Dice il capitano Apollonio: «Appena diffusasi la notizia, mi recai presso il col. Romagnoli il quale me la confermò aggiungendo che egli era stato il solo ad opporsi e che si sarebbe fatto rilasciare dal generale una dichiarazione scritta che attestasse la sua opposizione. Io allora gli chiesi di essere messo a rapporto col generale Gandin. Mi recai infatti presso il capo di stato maggiore della divisione ed espressi il mio desiderio. Fui invitato a ripresentarmi col colonnello Romagnoli. Nell’attraversare in macchina la città, io e il mio colonnello, fummo fatti segno ad una entusiastica manifestazione di simpatia da parte della popolazione greca. Ormai si era diffusa la voce che l’artiglieria non intendeva consegnare la armi ma voleva combattere. In attesa di essere ricevuti dal generale, telefonai al capitano Pampaloni ed al tenente Ambrosini perché mi raggiungessero immediatamente al comando assieme a tutti gli altri ufficiali di fanteria che volessero appoggiarmi nel tentativo che stavo per compiere. Dopo pochi minuti parecchi ufficiali giungevano al comando della divisione. Nei corridoi del comando alcuni ufficiali subalterni e gli scrittuali si stringevano attorno a noi scongiurandoci di tentare l’impossibile pur di non cedere le armi».
«Io ed il capitano Apollonio – testimonia il capitano Pampaloni – entrammo in una stanza dove si trovavano il generale Gherzi, comandante la fanteria divisionale, il col. Romagnoli ed i colonnelli dei reggimenti di fanteria Cesari e Ricci. Apollonio ed io esprimemmo la nostra indignazione contro un «ordine» che ci imponeva la cessione delle armi. Tale ordine, aggiunsi io, non poteva essere dato perché sarebbe stato giudicato un «tradimento». A questa parola, il generale Gherzi mi richiamò duramente all’ordine e mi proibì di continuare su quel tono. Il col. Romagnoli, seduto in un angolo, sopra un tavolo, con al testa fra le mani, faceva segni di assenso a quanto io ed Apollonio dicevamo».
«Fummo introdotti alla presenza del generale – continua il capitano Apollonio – io, il col. Romagnoli, il capitano Pampaloni ed un ufficiale del 317° fanteria di cui non ricordo il nome».
Il colloquio, pur contenuto nei limiti della rigidità militare, fu drammatico.
Il generale fece presente che, esclusi senz’altro il primo ed il terzo dei punti imposti dai tedeschi, l’adozione del secondo non avrebbe avuto per gli italiani un risultato positivo perchè i tedeschi sarebbero stati subito soccorsi dalle forze nel continente greco e la loro aviazione avrebbe imperversato senza contrasto su tutta l’isola. Aveva perciò, sino ad allora, tentato l’impossibile per venire ad un accordo «onorevole».
Gli ufficiali presenti – e più specialmente i capitani Apollonio e Pampaloni – ribatterono le argomentazioni del generale riaffermando che, secondo loro, non vi erano che due vie: a andare con i tedeschi o andare contro. La cessione delle armi era fuori del loro sentimento dell’onore militare e poiché questo sentimento era condiviso da «tutte» le truppe del presidio, essi desideravano che il generale venisse incontro alla loro unanime volontà di combattere contro i tedeschi.
«Durante il colloquio, - dice il capitano Apollonio – il generale Gandin stava ritto dietro al tavolo con le mani ad esso poggiate. Il suo volto bianco ed imperlato di freddo sudore rivelava una indicibile interna sofferenza. Il suo atteggiamento e le sue parole rivelavano un uomo sovraccarico del peso delle sue responsabilità.
«Il generale Gandin, sebbene comandasse da poco tempo la divisione, era molto conosciuto. Non passava giorno senza che visitasse i reparti, senza che scendesse paternamente fra i suoi soldati portando loro doni di ogni genere. Amava troppo i suoi dipendenti e questo amore, soprattutto, l’indusse a temporeggiare».
A conclusione della discussione, il generale si riservava libertà d’azione e pregava gli astanti di non prendere, frattanto, alcuna iniziativa.
«Nel rientrare alle nostre batterie – dice il capitano Apollonio – fummo accolti da altre grida di giubilo da parte dei nostri artiglieri, i quali, ritenendo che fossimo stati arrestati, avevano già puntato i pezzi carichi sul comando della divisione ed avevano già preparato un plotone fortemente armato per andare ad arrestare il generale».
Era dunque vera o falsa la voce secondo cui il generale aveva già dato l’ordine per la cessione delle armi? E, se non proprio l’ordine, un preavviso o qualche cosa di simile?
Non è possibile una risposta esauriente a tali interrogativi.
Resta il fatto che un tale ordine – per quanto abbiamo visto e vedremo in seguito – non trova giustapposizione logica nel minuto sviluppo dei fatti qui descritto. Ed è anche certo che dei testimoni finora interrogati nessuno asserisce di aver visto l’ordine con i propri occhi.
Il generale, intanto, sulla base del nuovo dato di fatto rappresentato dall’aggressione tedesca nel settore di Lixuri, convocò per le ore 20 un consiglio di guerra nella sede del comando artiglieria divisionale.
Nel recarsi, qualche minuto prima, alla riunione, una bomba a mano fu lanciata contro la sua automobile; ma esplose senza conseguenze. Gruppi di soldati circondarono la macchina gridandogli «traditore»; uno più audace strappò dal cofano il guidoncino di comando urlando che il generale era indegno di portarlo.
Al consiglio di guerra intervennero: il capo di stato maggiore della divisione ten. col. Fioretti, il col. Romagnoli, comandante l’artiglieria divisionale, il ten. col. Cessari, comandante del 17° fanteria, il col. Ricci, comandante del 317° fanteria, il maggiore Filippini, comandante del genio divisionale, il capitano di fregata Mastrangelo, comandante «Marina Argostoli», il capitano CC. RR. Gasco, comandante la 2ª compagnia carabinieri.
Non abbiamo notizia di quanto nella riunione fu discusso.
Alla fine di essa però – secondo la testimonianza del capitano Bronzini – furono prese le seguenti decisioni: - il gen. Gandin, offeso per il modo di procedere da parte del comando superiore tedesco, si rifiutava d’ora in avanti di trattare un ufficiali tedeschi che non fossero suoi pari gardo e che non si rivolgessero a lui con garantite funzioni plenipotenziarie; - gli ufficiali tedeschi che fossero venuti d’ora in avanti a trattare dovevano essere accompagnati da un ufficiale del comando dell’11ª armata conosciuto dal gen. Gandin; - si intimava ai tedeschi di non effettuare invii di rinforzi dal continente né movimenti nell’interno di Cefalonia prima delle conclusioni delle trattative; - si garantiva infine, da parte italiana, di non compiere atti ostili qualora i tedeschi avessero rispettato gli impegni di cui sopra.
La lettera con queste decisioni venne direttamente indirizzata al comando superiore tedesco e consegnata al ten. col. Barge perché la trasmettesse con la sua stazione radio.
«A mezzanotte – informa il capitano Bronzini – ecco finalmente che il presidio di Corfù si fa vivo. Il colonnello Lusignani, comandante del 18° fanteria e comandante militare dell’isola, ci informa di avere reagito alle richieste tedesche di cedere le armi. A Corfù il battaglione tedesco è stato battuto e fatto prigioniero. Durante la lotta sono stati abbattuti anche tre aerei. L’isola è ora sotto la completa sovranità delle forze italiane.
«La notizia è accolta con un’esplosione di giubilo al comando della divisione. Il generale però, dato il forte stato di eccitazione delle truppe, ordina di procrastinare la comunicazione della gesta di Corfù ai reparti di Cefalonia».
Dice il capitano Apollonio:«tutta la notte fra il 12 ed il 13 di settembre la impiegai a coordianre quanto già era stato fatto con la propaganda dei giorni precedenti.
«Intanto giungevano nella mia tenda altri ufficiali per segnalarmi nuove adesioni.
«Fino a mezzanotte lavorai quasi esclusivamente con patrioti greci ed insieme al capitano Lazaratos ed al sottotenente Gheorgopulo andai a passare segretamente in rivista un’intera compagnia di patrioti greci perfettamente armata ed alla quale portai gran quantità di viveri e di munizioni.
«Mi misi poi in contatto con vari comandanti di fanteria.
«Questi ufficiali, con altri di artiglieria, furono convocati nella mia tenda.
«La riunione si protrasse fino alle 5 del mattino e si concluse con le seguenti decisioni: salvo gravi imprevisti, si sarebbe mantenuta la calma per dare al generale tutte le possibilità di continuare le trattative; ordini della divisione di deporre le armi o di eseguire movimenti verso zone di concentramento indicate dai tedeschi non sarebbero stati eseguiti senza preventivo accordo; impegno da parte di tutti che se l’artiglieria avesse aperto il fuoco i reparti di fanteria di Argostoli avrebbero fatto prigioniere le truppe tedesche di stanza nella città. Dopo di che il secondo battaglione del 17° fanteria ed il terzo del 317°, autocarrati e scortati dalla terza e quinta batteria, del 33°, anch’esse autocarrate, si sarebbero avviati alla volta di Lixuri per costringere alla resa i due battaglioni tedeschi colà dislocati. Realizzato, infine, tale piano, le truppe avrebbero dovuto rioccupare le posizioni costiere precedentemente tenute contro il tentativo tedesco di impossessarsi dell’isola».
Analoga opera svolgeva il capitano Pampaloni, il quale però segnala un significativo episodio. «Verso le ore 2 di notte – egli scrive – venne nel mio caposaldo il tenente del 317° fanteria, a riferirmi che aveva ricevuto l’ordine della divisione di spostare il suo battaglione dall’attuale posizione, il cimitero di Argostoli. Poiché tale spostamento veniva a scoprire le spalle della mia batteria, mi recai, col ten. col. Siervo, dal col. Romagnoli. Fui introdotto nella camera del colonnello, che misi al corrente dell’ordine pregandolo con le lagrime agli occhi di farlo revocare. Il colonnello, mentre si alzava e si vestiva, mi disse che mentre era sicuro degli artiglieri non lo era dei fanti. Fu pertanto introdotto il ten. col. Siervo, a cui il col. Romagnoli chiese: - se la rompiamo con i tedeschi ed i tuoi fanti saranno sottoposti, indifesi, ad un intenso bombardamento aereo, sei sicuro che non sbanderanno? – No assolutamente; non sono sicuro, rispose il ten. col. Siervo.
«Dopo di che, il col. Romagnoli, rivoltosi a me, disse: come vuoi, benedetto figlio, che io mi assuma questa terribile responsabilità?».


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