mercoledì 8 gennaio 2014
Cefalonia. La situazione al 13 settembre
Circa alle ore 6 del mattino del 13, apparvero sul mare
due grosse motozattere tedesche con a bordo truppa e cannoni di medio calibro.
Esse, doppiata punta San Teodoro, si dirigevano su Argostoli.
Dice il capitano Apollonio: «All’alba, dalla prima e
quinta batteria del 33° venivano avvistati all’altezza di san Teodoro due
pontoni da sbarco tedeschi. Essi si dirigevano verso il porto di Argostoli con
l’evidente intenzione di rinforzare il presidio tedesco dislocato in città. Fui
chiamato al telefono dal capitano Pampaloni e dal tenente Ambrosini. Dopo un
colloquio brevissimo e concitato, considerata la gravità del caso e riaffermata
la nostra ferma volontà di portare la lotta fino in fondo, prendemmo la
decisione di aprire il fuoco. Intanto gli artiglieri, di loro iniziativa, erano
balzati ai pezzi, li avevano caricati e puntati. L’animazione era
irrefrenabile. Gli ufficiali di batteria ed i capi pezzo, fuori di sé,
chiedevano di poter sparare.
«Dal centralino della mia batteria gridai: prima, terza,
quinta batteria fuoco! Simultaneamente, le tre batteria, tra grande commozione,
aprivano il fuoco. Il mio ordine era la sintesi di tre volontà. Forse la
sezione da 20 della Marina (quella che dal dragamine era stata trasportata nel
caposaldo Pampaloni) precedette di qualche attimo il mio ordine. Tutte le
mitragliere della Marina entrarono in azione.
«La 208° batteria della Marina, sotto il comando dei
comandanti Mastrangelo e Barone, iniziava pure il suo tiro. La Marina aveva
mantenuto la sua parola!
«I pontoni tedeschi iniziavano subito la reazione con le
loro mitragliere. Nel contempo i semoventi tedeschi di Argostoli iniziarono un
ntrito fuoco contro le nostre batterie».
«Alle sei e quindici – informa il capitano Pampaloni – il
primo ferito italiano bagnò col suo sangue la terra di Cefalonia. Egli era
l’artigliere Cruciali Gino che nonostante quattro ferite alle braccia ed alle
gambe rifiutava di abbandonare il pezzo. In seguito gli venne amputato
l’avambraccio destro».
«I pontoni tedeschi – continua l’Apollonio – duramente
colpiti cercavano di sottrarsi al fuoco riparandosi dietro San Teodoro, ma qui
vennero a cedere sotto il tiro di una batteria da 152 della Marina in
postazione a Minies. Ben presto uno dei pontoni veniva affondato mentre
l’altro, fortemente avariato con feriti e morti a bordo, innalzava bandiera
bianca. Il tiro però veniva proseguito contro il comando tedesco in Argostoli e
contro il magazzino tedesco a San Teodoro».
«In città intanto – dice il capitano Pampaloni – soldati
italiani e patrioti greci fecero prigionieri dei tedeschi, ne ferirono altri ed
uccisero un ufficiale.
«Il mare si scomparse di naufraghi tedeschi, morti e
feriti.
«Notai però che i fanti si erano mantenuti estranei».
«I tedeschi – dice P. Formato – si difesero con violenti
tiri dei semoventi di Argostoli e dei cannoni di Lixuri. Morti e feriti da una
parte e dall’altra. Ma le due motozattere tedesche, colpite in pieno, divennero
tombe per la numerosa truppa che trasportavano.
«Invano il comando di divisione diramò ordini perentori
perché si cessasse immediatamente il fuoco. Alcuni comandanti di artiglieria si
rifiutarono apertamente di obbedire. Talune sezioni di artiglieria si
spostarono di propria iniziativa da diversi punti dell’isola verso la città».
«La fanteria – commenta il capitano Apollonio – non era
intervenuta nella misura stabilita. Perché? Quando ne chiesi i motivi, mi fu
risposto che l’azione era cominciata così all’improvviso che non vi era stato
tempo e modo di predisporre l’attacco. In un secondo tempo, poi, anche essa
aveva ricevuto l’ordine dal comando della divisione di non muoversi».
Il fuoco d’artiglieria contro le motozattere tedesche
durò circa mezz’ora.
«Ad un certo punto però – dichiara l’Apollonio – mi
perveniva un ordine scritto, firmato dal gen. Gandin, di cessare il fuoco
perché i tedeschi avevano chiesto di riprendere le trattative su altre basi.
Avvertii allora le batterie che non appena i semoventi tedeschi avessero
taciuto, anche noi dovevamo fare altrettanto. Dopo pochi minuti, infatti, il
fuoco cessò da entrambe le parti».
Pare che la proposta al comandante della divisione di
riprendere le trattative su nuove basi sia stata avanzata, dietro ordine del
ten. col. Barge, da un capitano tedesco residente in Argostoli quale
rappresentante del suo comando.
«Appena cessate la cannonate – testimonia il capitano
Bronzini – ammara nel golfo di Argostoli un idrovolante tedesco. Porta
l’inviato del comando superiore germanico. Infatti poco dopo si presenta al
comando di divisione un colonnello tedesco (di cui ignoro il nome) seguito da
alcuni altri ufficiali e dal ten. col. Barge. E’ con loro anche un capitano
italiano d’aeronautica. Questi si presenta a noi ufficiali, che in quel momento
ci trovavamo dinanzi all’ufficio del generale, e tendendoci la mano disse:
stringo la mano ad amici od a nemici? Nostro stupore. Già, - continua il
capitano – in Grecia l’armata ha dato le armi ai tedeschi, il generale
Vecchierelli è d’accordo con loro. Tutta l’aeronautica è passata ai tedeschi.
C’è rimasta la «Acqui» a fare tante storie e, se continua così, finirà per
commettere una pazzia.
«Non facciamo in tempo a rispondergli perché entra con i
tedeschi nella stanza del generale.
«Le sue parole suscitano in noi una sgradevole
impressione: come può un ufficiale italiano chiamare «pazzia» il fermo
proposito di un’intera divisione di salvaguardare il proprio onore?».
Nella mattinata stessa, mentre il terzo battaglione della
317° fanteria arretrava, come sappiamo, da Kardakata ad Argostoli, il secondo
battaglione dello stesso reggimento si doveva trasferire – per ordine del
comando della divisione – da Frankata a Razata.
Il secondo
spostamento, conseguenza del primo, aveva lo scopo di ricostituire, col grosso
del 317° fanteria ed in zona più arretrata, il fronte del settore nord.
Il comandante del 317° fanteria, col. Ricci, aveva perciò
ordinato che le munizioni del secondo battaglione fossero approntate sulla
rotabile di Razata per essere trasportate dagli autocarri sulle nuove
posizioni.
«Allorché – dice il capitano Apollonio – giunse l’ordine
di trasportare sulla strada le munizioni, i soldati si ribellarono. Un sottotenente
comandante di un plotone mortai si mise
a capo dei rivoltosi invitandoli ad agire d’iniziativa perché era ormai
evidente che si trattava di un inganno e che le munizioni erano state là
trasportate per essere versate ai tedeschi. Due mitragliatrici venivano puntate
sugli autocarri che dovevano effettuare il trasporto. Un soldato, poi, sparava,
ferendolo leggermente, contro il comandante del battaglione, maggiore Fanucchi,
che tentava in motocicletta di raggiungere Argostoli per riferire dell’accaduto.
Intervenne infine il col. Ricci, il quale, fatto adunare il battaglione, esortò
i soldati alla calma promettendo che «mai si sarebbero cedute le armi ai
tedeschi» e poi, indicando la Bandiera e singhiozzando, gridò: «manteniamoci
almeno degni, nella sventura, delle nostre tradizioni!».
Solo a tarda sera il battaglione, convinto del vero scopo
del movimento dall’azione persuasiva degli ufficiali, potè trasferirsi a
Razata.
Durante la stessa notte giunse al gen. Gandin una
comunicazione del comando superiore tedesco nella quale si chiedevano i nomi
degli ufficiali italiani comandanti delle batterie che la mattina avevano
aperto il fuoco contro le motozattere.
Il gen. Gandin rispose con un seco rifiuto.
«Nel colloquio tra il gen. Gandin e l’inviato tedesco –
scrive il capitano Bronzini – non so con precisione che cosa sia stato detto.
Ma è certo ormai che i tedeschi vogliono le nostre armi, i nostri magazzini ed
in cambio non garantiscono nulla».
Dice il capitano Apollonio: «Seppi molto tempo dopo che
il colonnello tedesco avrebbe avuto l’incarico di invitare il gen. Gandin ad
abbandonare la divisione per recarsi in Italia ad assumere la carica di Capo di
S. M. della costituenda armata repubblicana. Ma in seguito al fatto d’arme del
mattino, il colonnello tedesco non avrebbe ritenuto più opportuno avanzare tale
proposta. Furono iniziate invece nuove trattative».
«Al comando divisione – scrive il capitano Pampaloni –
continuavano le trattative. Era giunto in aeroplano un rappresentante del
comando tedesco di Atene. I tedeschi sembravano intransigenti: ma ora sembrava
che il comando della divisione fosse deciso a non cedere».
«Verso le ore 12 – dice il capitano Bronzini – l’inviato
tedesco col suo seguito ripartirono in aereo per Atene.
«Il comandante
della divisione si riservava una risposta definitiva per le ore 12 del giorno
14».
«Nel tardo pomeriggio – riferisce l’Apollonio –
trapelavano delle indiscrezioni circa il tenore delle nuove trattative.
«La «Acqui» si sarebbe dovuta concentrare nella zona di
Samos, Digaletu, Porto Poros.
«Essa avrebbe mantenuto tutte le armi con la possibilità di portarsele in Italia nel caso
ci fosse stato sufficiente tonnellaggio. Era ovvio che la divisione sarebbe
stata trasportata nell’Italia occupata dai tedeschi. Le batterie della Marina e
della contraerea dovevano invece rimanere in posto.
«In un primo momento, i soldati, al solo sentire la
parola Italia, cedettero che fosse questa la soluzione ideale».
Siamo, così, al tardo pomeriggio del giorno 13. Il gen.
Gandin, ritenendo soddisfacenti le conclusioni raggiunte nelle trattative col
colonnello tedesco, diramò ai reparti dipendenti l’ordine di iniziare il
trasferimento per il concentramento nella zona Samos, Digaletu, Porto Poros.
Il capitano Bronzini non fa cenno a questo ordine.
Ma P. Formato così scrive: «Il risultato delle trattative
parve distendere un po’ i nervi di tutti.
«Infatti il comando di divisione comunicò ufficialmente a
tutti i reparti che si era raggiunto un pieno accordo, mediante il quale la
divisione avrebbe raggiunto quanto prima la Patria portando seco tutte le armi
sia pesanti che leggere.
«Si invitava quindi alla serenità e alla calma essendo
stato tutelato in pieno – diceva il comunicato – l’onore della divisione e
dell’esercito.
«Seguivano gli ordini di spostamento di tutti i reparti
verso la regione di Samos, dove si sarebbe raccolta la divisione in attesa
dell’imbarco».
Dice il capitano Pampaloni: «A sera tardi il colonnello
Romagnoli mi telefonò per avvertirmi, con mio stupore, che i tedeschi avevano accordato
di riunire tutti gli italiani in un’ampia zona nei pressi di Samos in attesa
dell’imbarco per l’Italia: ci sarebbero state lasciate tutte le armi. Il colonnello Romagnoli insistette per convincermi
che non potevamo pretendere di più dato che non tutti gli Italiani erano decisi
ad una azione energica.
«Infatti nella nottata stessa mi recai in autocarretta al
comando di reggimento, al comando di divisione, ai comandi di tre battaglioni
di fanteria, mi incontrai con molti ufficiali e mi resi conto che la
maggioranza accettava questa decisione.
«A malincuore, ritornato nel mio caposaldo, detti gli
ordini per preparare il trasferimento».
«Durante la notte però –continua P. Formato – tanto
presso il comando di divisione che presso tutti gli ambienti militari si venne
a sapere che il comando superiore tedesco si rifiutava, per il momento, di
caricare insieme con le truppe anche le armi pesanti, a causa, diceva, della
scarsezza dei mezzi navali da trasporto.
«Codeste armi, dunque, avrebbero dovuto essere depositate
a Samos, in attesa di poterle far proseguire appena possibile.
«Da parte di tutti si vide, in questo nuovo contrattempo,
unanimamente ritenuto un pretesto, l’inizio di un tranello e di un inganno.
«Frattanto durante la notte, erano giunti glia artiglieri
delle due batterie catturate dai tedeschi
nel settore di Lixuri. Sparsisi far la truppa
raccontarono ai compagni che, sebbene si fossero arresi senza combattere, una
volta disarmati, erano stati tenuti per mezza giornata al muro con le
mitragliatrici puntate contro, svillaneggiati e maltrattati, in tutti i modi,
anche alla presenza della popolazione locale.
«Queste ed altre notizie fecero divampare ovunque un
incontenibile odio che si esternava, in tutti, con feroci propositi di
vendetta.
«In conseguenza di ciò alcuni reparti cominciarono a
rifiutarsi di obbedire all’ordine di trasferimento.
«Molti comandanti telefonarono che le loro truppe
rifiutavano di muoversi in alcun modo e che anzi diventavano sempre più
minacciose».
«Verso sera – scrive il capitano Apollonio – il
turbamento fra ufficiali e soldati per l’ordine di movimento diveniva sempre
più manifesto. Si diffondeva fa i soldati la voce che il generale Gandin
volesse tradire. Da più parti accorrevano volontari che reclamavano di far
prigioniero il generale o addirittura ucciderlo.
«Senonchè, verso le ore 1,30 del 14 – continua il
capitano Apollonio – giungeva dal gen. Gherzi ai comandanti di battaglione del
17° fanteria un fonogramma urgentissimo con l’ordine di invitare i soldati ad
esprimere il proprio parere sui tre punti: contro i tedeschi, con i tedeschi,
cessione delle armi».
«Contemporaneamente – dice P. Formato – ufficiali,
espressamente a ciò incaricati dal gen. Gandin, fecero oralmente conoscere a
tutti i reparti che l’intenzione del generale era orientata verso un’azione
decisa contro i tedeschi».
Che cosa era avvenuto nel frattempo presso il comando
della «Acqui» per determinare un così brusco ed immediato cambiamento?
Dice il capitano Apollonio:«E ciò (ossia l’intenzione
tedesca di far lasciare a Samos le armi pesanti) doveva rispondere a verità
perché il generale, fidandosi orami poco delle assicurazioni fornitegli dal
comando germanico circa l’osservanza delle clausole dell’accordo, cominciò ad
orientarsi verso l’idea di un’azione decisa».
E P. Formato: «Il generale stesso, accortosi che le
clausole non sarebbero state mantenute, incominciò ad orientarsi verso l’idea
di un’azione decisa».
Senza dubbio, le riserve tedesche circa l’imbraco delle
armi pesanti avevano influito sull’animo del generale. Come pure avevano
influito le notizie dell’agitazione tra le truppe in seguito all’ordine di
concentramento nella zona di Samos.
Ma un riferimento più sicuro è dato dal capitano
Bronzini.
«Giungeva intanto – questi dice – la risposta del Comando
Supremo italiano al radiogramma inviato dal generale Gandin la notte tra l’11
ed il 12 attraverso il radioponte di Corfù. Era un cifrato a firma «generale
Francesco Rossi» che ordinava di resistere alle richieste tedesche confermava l’ordine governativo dell’8
settembre.
«La divisione della «Acqui» - prosegue il capitano
Bronzini – è ormai chiara: l’ordine del Comando Supremo elimina ogni dubbio. La
situazione generale appare evidente: nel continente l’11° armata si è lasciata
ingannare dai tedeschi ed ha ceduto alle loro richieste. Nelle Jonie, Santa
Maura e Zante sono nelle mani tedesche. Soltanto Cefalonia e Corfù ancora
resistono.
«La lotta è impari, ma l’onore militare non ammette che
una via: la lotta aperta e leale, come
disse il 9 il tenente Fauth; lotta fra soldati che obbediscono entrambi agli
ordini della patria».
Nella notte stessa – informa lo stesso capitano – il gen.
Gandin diramava il primo ordine inteso a fare assumere alle truppe uno
schieramento intonato alla nuova situazione.
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