giovedì 30 luglio 2015
martedì 14 luglio 2015
Un Combattente del 51° Reggimento Fanteria della Divisione Cacciatori delle Ali
Almerino Leonardi
Ricordi
A cura di Maurizio Balestra
e di
Valentina Fantini, Jessica Gabanini (Liceo
scientifico “A: Righi”)
Giulia Giordano (Liceo
classico “V. Monti”)
Giuseppe Setzi (ITC “R.
Serra”)
Introduzione
Chiamato alle armi il 29
gennaio del 1942 e il 18 agosto dello stesso anno, partito per i Balcani,
Almerino Leonardi si trova, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, a dover
tornare in patria senza mezzi di trasporto.
Il viaggio, di 47 giorni,
segna profondamente sia a livello psichico che fisico il protagonista, che,
attraverso questo diario, dà libero sfogo al suo stato d’animo.
Nonostante i rastrellamenti
tedeschi, la cattura da parte di partigiani e le fughe repentine, Almerino
arriva infine vicino a Mantova dove ritrova la nonna felicemente incredula per
il suo ritorno.
Ricordi
Nel 1940 scoppiò la seconda
guerra mondiale ed anch’io dovetti servire la Patria.essendo della classe del
1922.
Il 29 Gennaio 1942 fui
chiamato alle armi, prima al distretto di Forlì poi a Perugia. Al 51° Reg. Fant. Divisione Cacciatori delle
Alpi (Garibaldi)[1] e
dopo sette mesi di duro addestramento il 18.08.1942 fui mandato in zona di
guerra nei Balcani.
La mia divisione presidiava
la Slovenia e parte della Croazia. Passammo nei pressi di Lubiana, Novo Mesto,
Bazovizza[2],
Ribniza, e spesso facevano rastrellamenti con furibonde battaglie.
La fortuna mia mi ha sempre
assistito, e così sono arrivato fino all’8 settembre del 1943 e da qui inizia
il mio rocambolesco viaggio………
Santa Lucia (Mantova), 18 Ottobre 1943
Nel mio breve racconto io
narro il mio avventuroso viaggio che ho percorso, del piccolo paese di Ribniza
situato a 60 Km. Sud da Lubiana presso il confine Croato fino a casa. Un
indelebile viaggio che durò dall’8 Settembre al 25 Ottobre.
* * *
Dopo una lunga ed indefinita
marcia fatta tutta a piedi, piena di sacrifici e di pericoli, dopo aver
attraversato gli immensi boschi della Slovenia e le altissime montagne
dell’Istria e del Carso, poi giù nell’infinita pianura Padana dal Friuli al
Veneto fino alle porte di Mantova dopo aver percorso oltre 500 Km. Sotto la
continua insidia dei tedeschi.
Ma con indomito coraggio a
costo della cosa più cara, cioè la vita, ho portato a termine questo drammatico
e avventuroso viaggio ed ancora una volta ho potuto riabbracciare i miei cari
che come una stella hanno fatto luce nei momenti più difficili.
Dopo tre mesi di
rastrellamento sulle alte montagne e negli abissi degli immensi boschi della
Slovenia e della Croazia, sotto il peso delle lunghe marce, al calore del sole
dell’estate, sotto le piogge e dopo molti pericolosi
combattimenti, il giorno 6 Settembre rientrammo alla base, in un bel paesetto
Ribniza dove c’era il nostro deposito.
Appena arrivati alla base
già si parlava di una nuova uscita e all’alba dell’8 Settembre ripartimmo.
Inabissati nel bosco per una decina di chilometri, ad un certo momento cominciò
una furibonda sparatoria, per fortuna durò poche ore; infatti alle sei di sera
rientrammo.
Nonostante la stanchezza la
sera andai al cinema, era da tanto che non ci andavo. Il film era molto bello e
mi stavo divertendo, ma ad un tratto la porta si aprì e si udirono urla e
grida, non comprendemmo cosa stesse accadendo. Io presi la rivoltella che
portavo con me perché temevo fosse un attacco dei partigiani. A forza di urlare
accesero le luci ed io infilai la finestra sottostante dalla quale provenivano
canti e urla, erano tutti soldati che annunciavano l’armistizio[3].
In un primo momento eravamo tutti felici, ma quando
pensammo che eravamo in territorio nemico[4]e
che i nostri erano a centinaia e centinaia di chilometri, ci assalì la
preoccupazione e dentro di noi calò la tristezza.
Rientrammo in caserma ed
andammo in branda con gli occhi lucidi e col cuore gonfio al pensiero di quella
amara realtà.
Poco dopo arrivò l’ordine di allarme, affardellammo
in fretta lo zaino e ci preparammo in assetto di guerra. Fortunatamente verso
mezzanotte arrivò l’ordine di riposare.
All’alba del 9 preparammo
tutto per partire, caricammo quanto possibile sullo zaino, nonostante ciò
rimasero i magazzini pieni di viveri; era una cosa impressionante dover
lasciare tutto quel ben di Dio in mano al nemico!
Verso
le 11 partimmo, eravamo oltre duemila soldati. Dopo tre ore di cammino eravamo
fuori dal paese, quando improvvisamente arrivò un contrordine: dovevamo
rientrare.
Non riuscimmo a rientrare alla base in quanto fummo
sorpresi da una sparatoria, erano partigiani. Noi rispondemmo con tutte le armi
fino alle cinque del pomeriggio.
Poco dopo le paese arrivò una delegazione di
partigiani per un colloquio coi nostri superiori. Dopo un’ora sembrava fosse
stato raggiunto un accordo, ma la notizia si rivelò falsa, infatti poco dopo il
tutto fù smentito ufficialmente.
Intanto arrivarono un centinaio di anticomunisti
chiamati Cetnici[5],
nostri alleati che occuparono il paese e la nostra caserma. Di conseguenza noi fummo
costretti a spostarci al centro del paese, dove si sapeva che dovevamo
aspettare il 1° Battaglione del nostro reggimento, il quale doveva arrivare da
un momento all’altro.
Si sapeva che Lubiana era occupata dai tedeschi e
che il comando e una nostra mezza divisione venne fatta prigioniera.
Arrivò sera. Mentre circolavano le voci che una
colonna di tedeschi da Lubiana sarebbe partita nella nostra direzione. A seguito
di questa situazione iniziò ancora qualche sparatoria, i partigiani a tutti i
costi volevano venire dentro. In lontananza si sentiva combattere il primo
battaglione che non voleva arrendersi ai partigiani. La resistenza infatti durò
tutta la notte eroicamente, ma all’alba dovette cedere: i soldati arrivarono
quasi tutti disarmati e pallidi per la lunga battaglia, anche con qualche morto
e ferito.
Verso le dieci arrivarono
due giovani partigiani, si diceva che erano due alti ufficiali. Ripartirono dopo
pochi minuti e si seppe che era stato raggiunto un accordo con il nostro
Colonnello con il quale erano stati a colloquio.
Ci preparammo a partire, ma
il Comandante dei Cetnici si dichiarò contrario alla nostra idea e così dovemmo
abbandonare il nostro deposito, dal momento che tra loro c’era una nostra
compagnia alla quale fù impedito di partire.
Nel frattempo, a squadre di 6-7 uomini, arrivarono i
partigiani[6],
fra di loro c’erano anche alcune donne, ed occuparono il paese. Io li guardai
bene perché in tredici mesi di combattimento non li avevano ancora visti.
Sfilarono tutti disciplinati senza dire una parola
mentre la folla gettava loro tanti fiori, segno della loro amicizia. Finita la
sfilata occuparono tutto il paese all’infuori della caserma occupata dai
Cetnici. Ci venne ordinato di ritirarci nelle case, loro avrebbero pensato ai
Cetnici.
Intanto in direzione di
Lubiana si vedevano segnali gialli e rossi e si diceva che di lì a poco
sarebbero arrivati i tedeschi all’interno del nostro appostamento. Così ci
trovammo in strada, i partigiani dentro la città, i Cetnici in caserma ed i
tedeschi in arrivo: credo che siano state le ore più brutte della mia vita.
All’improvviso passarono
davanti a noi i Cetnici in silenzio diretti verso la montagna; i partigiani li
guardarono senza la benché minima parola.
Intanto in un’osteria ci
trovammo a tu per tu coi partigiani, qualcuno di loro parlava bene l’italiano e
così cominciammo a ricordare le nostre avventure avute nelle battaglie, quando
all’improvviso riconobbi fra di loro un giovane chiamato Giovanni che pochi
mesi prima era con noi a fare da guida quando facevamo i rastrellamenti. Ci
salutammo cordialmente in quanto in caserma eravamo buoni amici.
Loro erano molto calmi e
cortesi, mentre dentro di noi la paura era grande. Ci dissero che il loro
comando avrebbe fatto un accordo e che avrebbero lasciato prendere tutto quello
che potevamo, mentre il rimanente l’avrebbero preso loro.
Ormai la partenza era
imminente. La sera del 10 Settembre[7]stava
calzando lentamente ed il sole si nascondeva fra le aguzze montagne: così ebbe
inizio questo lungo ed avventuroso viaggio.
* * *
Partimmo tutti in fila,
l’uno dietro l’altro, eravamo quasi 5000 soldati perché se ne erano aggregati
altri di tanti paesi. Dietro alla colonna c’erano oltre 100 camions, centinaia
di cavalli, il 1° Battaglione Artiglierie Autoblinde al completo ed armi di
tutte le specie.
Si fece buio e ci fermammo.
Ad un tratto ci ordinarono di stare ai lati della strada. Passarono i
partigiani con i camions, si fermarono, ci perquisirono e sequestrarono tutte
le armi.
Finalmente alle 3 di notte se ne andarono. Era una
notte gelida e così disarmati eravamo ancora più tristi e sconsolati.
Il cielo era illuminato da tanti segnali e se per
disgrazia fossero arrivati i tedeschi noi saremmo stati presi fra due fuochi
senza poi tener conto che eravamo disarmati, ma forse quella notte un Santo
avrà pregato per noi.
Ad un tratto passò
un’autoblinda partigiana con un portavoce il quale ci disse che dovevamo
restare calmi perché avrebbero pensato loro a condurci fino al confine ed anche
oltre, se lo avessimo voluto.
Le parole erano tanto belle ma noi stentavamo a
crederci in quanto poche ore prima non avevano mantenuto la parola e ci avevano
disarmato.
Ma ecco che alle 4 del
mattino ripartimmo con 100 partigiani in testa armati di fucili e mitraglie,
c’era anche qualche soldato italiano ed alcune ambulanze per trasportare e
feriti, il resto tutti a piedi e disarmati all’infuori del colonnello che
portava la rivoltella.
Si fece l’alba e la marcia
continuò tutto il giorno fino alle nove di sera. Arrivammo in un paese chiamato
Nuova Vàs, mangiammo un po’ e poi dormimmo alla meglio sotto delle piante ed
ogni tanto venivamo svegliati a suon di raffiche di fucilate.
* * *
Pensate, questo fù appena il
primo giorno di viaggio!!!
* * *
All’alba del giorno seguente
ripartimmo, tutto sembrava cambiato, c’era un po’ più di tranquillità, il sole
era già alto e ci riscaldava togliendoci l’umidità che avevamo accumulato nella
notte.
Ma eccoci un’altra volta
fermi davanti ad un piccolo paese presidiato dai Cetnici dove non ci volevano
lasciar passare; ci gridavano “traditori”. Io li guardavo in faccia e mi
facevano pena. Le donne piangevano, forse sapevano che se noi fossimo andati
via, loro avrebbero fatto una brutta fine.
Finalmente, dopo tante
discussioni i Partigiani dissero che se avessero subito depositato le armi, li
avrebbero lasciati in pace e così noi potemmo ripartire.
Fatti pochi chilometri ci fermammo ancora.
Nella nostra colonna c’erano un centinaio per lo più
fidanzate di soldati ma assieme a loro c’era qualche spia. I partigiani
fiutarono l’inganno e le passarono in rassegna; molte furono scoperte e furono
mandate via. Altre si erano tagliate i capelli e vestite da militare con
l’elmetto in testa la fecero franca.
Ripartimmo, il peso dello
zaino si faceva insopportabile, in quanto all’interno avevamo messo quanta più
roba possibile.
Improvvisamente risalendo una montagna vidi un mulo,
gli caricai lo zaino sulla schiena e diventò il mio compagno di viaggio.
Ci fermammo a sera tarda. Riposammo sotto ad alcune
piante, io non riusci a chiudere occhio in quanto ogni tanto si sentiva
sparare.
Dopo mezzanotte corse voce che saremmo stati
attaccati dai Cetnici, i quali, secondo le solite voci, non avrebbero voluto
che noi avessimo attraversato il confine che ormai distava solo pochi
chilometri.
Nonostante queste notizie, all’alba eravamo già in
marcia e verso le dieci eravamo prossimi al confine.
Ci fermammo nuovamente. All’improvviso arrivò un
aereo e noi temendo di essere attaccati ci nascondemmo sotto ad alcuni alberi,
ma per fortuna fù un falso allarme e presto tornò la calma.
Passò qualche autocarro di partigiani, gli stessi
che ci accompagnarono al confine e una volta compiuta la loro missione
ritornarono indietro.
Correva voce che fino
all’Isonzo comandavano i partigiani, ma girando una montagna non ci sarebbe
stato nessun pericolo, infatti i partigiani slavi non assalivano, al contrario
dei tedeschi, i soldati che rientravano in Italia, purché non creassero loro
dei problemi.
Attraversato il confine, trovammo un posto di blocco
partigiano dove davano da mangiare e dei vestiti, naturalmente ne davano a chi
non ne aveva in quanto c’erano molti soldati bisognosi che arrivavano da molto
lontano affamati e malmessi.
I primi che incontrammo furono le Guardie di
Finanza, ma anche loro erano privi di notizie e così continuammo la marcia;
faceva molto caldo e la sete ci tormentava. Ad un tratto vidi un piccolo
laghetto, ed anche se era molto lontano non resistetti ed andai a vedere, il
fondo era nero con appena un filo d’acqua, ma presi ugualmente la gavetta e
misi nel fazzoletto quel pantano putrido e succhiai fino a che non mi dissetai.
Continuammo la marcia. Arrivammo ad un incrocio, distavamo
12 chilometri da S. Pietro del Carso, ma la colonna invece di marciare verso
Trieste, prese la direzione di Fiume.
Con me non c’era nessun paesano, ma c’era un soldato
di Modena che conoscevo da tempo.
Dopo una lunga discussione
decidemmo di lasciare la colonna, ci infilammo fra le piante e marciammo verso
Trieste.
Appena fatte due ore di cammino al mio compagno gli
si gonfiò la faccia in modo impressionante. Lui avvilito mi disse che voleva
rientrare nella colonna e ci sarebbe andato da solo, ma a me fece pena e
temendo che da solo non ci arrivasse, lo accompagnai.
Raggiungemmo gli altri verso
sera. All’alba mangiammo un po’ e ripartimmo.
* * * * * *
Risalimmo la parete Nord del
Monte Nevoso[8]fino
oltre i mille metri di altezza, poi scendemmo la strada, la quale era
abbastanza buona, vidi i pali che segnalavano i chilometri e controllando con
l’orologio, calcolai che si marciava a 5 chilometri l’ora.
Percorremmo molti
chilometri, ma non vedemmo altro che montagne, roccie e boschi, molti caddero
dalla stanchezza , un ferito morì, facemmo una fossa per seppellirlo e poi
continuammo la nostra marcia fino a quando arrivammo ad un fortino della
Guardia di Frontiera.
Mi fermai e domandai se c’era qualche romagnolo, mi
risposero che c’era uno di Cesena, e così mi fermai. C’era anche una persona di
Meldola, mi diedero da mangiare una buona minestra calda e quasi un litro di
vino.
Li ringraziai e partì come una freccia, mi sentivo
in piene forze. Percorsi alcuni chilometri, raggiunsi i miei compagni che erano
fermi a pochi chilometri da Erinsburgo.
Finalmente si vedeva il
primo palmo di pianura e le prime case italiane.
Eravamo vicino ad una grande caserma, ci adattammo
alla meglio e così ha fine la prima parte del lungo viaggio.
* * * * *
In questa zona ci fermammo
due giorni. I comandanti fecero l’appello, tanti se ne erano andati. Il
colonnello disse che dovevamo armarci prendendo le armi nei fortini della
guardia di finanza, ma loro ci minacciavano, comunque riuscimmo a prendere un
centinaio di mitragliatrici.
Verso sera la situazione
diventò piuttosto tesa, correvano voci poco rassicuranti, alcuni scapparono.
Arrivò l’ordine di partire. Ritornammo al fortino
dove mangiai il giorno prima, ma non trovammo più nessuno, e così verso le due
potemmo riposare fino alla mattina seguente.
Nel pomeriggio, dopo aver
preparato un bel po’ d’armi, ritornammo ad Erinsbugo. Anche qui tutti i soldati
della Guardia di Finanza se ne erano andati ed anche tanti dei nostri.
Dopo poco, arrivò una staffetta, si diceva che portasse
buone notizie, altri invece dicevano che ci avrebbero portati a Fiume dove
c’erano i fascisti e ci avrebbero fatti prigionieri.
Io nel sentire ciò sarei
voluto partire, ma nessuno volle seguirmi e così rimasi ma sempre di guardia.
Il giorno passò tranquillo.
Alla sera dormimmo poche ore, perché sembrava che i tedeschi fossero poco
distanti e si sentiva spesso sparare.
All’alba del giorno 15 facemmo i preparativi, io
rifornì il mio zaino pieno di pasta, sale, olio e qualche pacco di sigarette.
I magazzini erano colmi di ogni ben di Dio, tanti
bevvero talmente tanto che durante il cammino si sentirono male e rimasero
isolati e distaccati. Così cominciò un’altra tappa.
Camminammo per mulattiere e
strade tremende in direzione di Fiume. Arrivammo ad alta quota stremati, il
peso dello zaino diventava insopportabile e per giunta ogni due ore dovevamo
anche portare un pezzo della mitragliatrice. Marciammo fino a mezzanotte, e
finalmente, dopo aver percorso un’infinità di chilometri ci fermammo.
Poco dopo ripartimmo.
Scendemmo una mulattiera ad andatura abbastanza sostenuta, tanti si fermavano
stremati, in certi momenti anch’io mi trovai in difficoltà a causa dell’enorme
peso dello zaino, a tratti la vista mi si annebbiava, tuttavia cercavo di farmi
coraggio e di resistere.
Verso le ore 3,00 risalimmo
in alta quota fino a che arrivammo a Clana, un paesino che dista 25 km. da
Fiume, e camminammo fra roccie e boschi fino alle otto del mattino. Ci fermammo
in un boschetto vicino ad un villaggio, ci sdraiammo a terra sfiniti ed
affamati.
Io andai in una casa dove mi
ospitarono, ma dato che non avevano molto da offrirmi, divisi con loro anche i
viveri che avevo nello zaino. Chiesi a loro quale fosse la strada più breve e
sicura, e mi diedero una carta topografica molto interessante, in quanto vi
erano segnate anche le strade secondarie ed i piccoli villaggi.
A mezzogiorno mi coricai un po’ e dormì fino a
quando arrivò di nuovo il momento di ripartire verso quelle immense montagne
dell’Istria.
Verso mezzanotte, ci sorpresero
i partigiani e ci sequestrarono tutte le armi. La paura fù tanta, ma per
fortuna se ne andarono subito.
A questo punto ci fù un gran caos, c’era che voleva
proseguire e chi invece voleva dormire sotto alle piante.
Io continuai con un gruppetto di uomini, ma siccome
camminavano lentamente li distaccai e proseguì da solo.
Mi trovai in cima ad una
montagna, e mentre decidevo quale strada prendere, mi trovai davanti due
giovani donne partigiane armate fino ai denti, vestite come ufficiali. Mi
chiesero da dove venivo e dove ero diretto, dopo aver raccontato tutto mi
chiesero se avevo delle sigarette, io gli diedi tutti e tre i pacchetti che
avevo. Mi ringraziarono tanto e mi consigliarono di fermarmi con i partigiani,
altrimenti sarei caduto in mano ai tedeschi, ma visto che io volevo proseguire,
mi indicarono la strada giusta.
Scesi verso una valle fino
ad arrivare in un paesetto dove una donna mi diede “l’alto là” ed in pochi
minuti si radunarono una ventina di persone. Volevano armi, ma io non ne avevo,
allora mi guardarono nello zaino e mi presero metà dei viveri che avevo e mi
lasciarono proseguire: il coraggio era grande, ma la stanchezza era maggiore, e
così all’alba mi sdraiai sotto ad una pianta e riposai per circa un’ora e poi
ripresi la marcia.
Dopo qualche ora arrivarono dieci militari, due
erano ufficiali, e proseguì con loro.
Verso le 14.00 attraversammo la buia ferrovia
Trieste- Pola, dopodiché riposammo all’ombra di una pineta che distava circa 18
Km. da Trieste. Consultammo la cartina geografica e decidemmo di prendere una
strada che passava molto a destra di Trieste, la strada era più lunga ma
sicuramente più sicura.
I due Ufficiali, invece, decisero di passare dalla
strada più corta che però passava molto vicino a Trieste, e secondo me era troppo
pericoloso.
La maggioranza era d’accordo con me, ma quando i due
Ufficiali partirono, li seguirono anche gli altri. Io ero titubante, ma poi
decisi di seguirli.
Verso le 17,00 arrivammo ad
un villaggio chiamato S.Servolo che distava circa 4 Km. in linea d’aria da
Trieste. Dalla cima della collina si vedeva tutta Trieste col suo bel Golfo
tutto azzurro e qualche nave nel porto: era una visione incantevole!!!
Mi fermai ad ammirare e tutto mi sembrava un
sogno!!! Ero tutto sciupato, ma nel vedere ciò mi riempì di speranza e mi sentì
forte, mi ripulì assieme agli altri, quando ad un tratto arrivò una donna che
ci annunciò che stavano arrivando i tedeschi.
Io non le credetti, ma visto
che tutti scappavano, lo feci anch’io. Ci rifugiammo in un cortile di un contadino
ed andammo dentro una capanna dove c’era una cantina, tutti scesero. Io, che
ero l’ultimo, dopo aver fatto alcuni scalini, ritornai su: si vede che il
destino era proprio quello di salvarmi!
Aprì una porta ed uscirono delle galline tutte
spaventate, mi voltai e vidi che nel cortile c’era una gabinetto ed allora mi
rifugiai lì dentro.
Dopo pochi minuti arrivarono
i tedeschi, li sentivo gridare e sparare raffiche di mitra a pochi passi da me.
Il cuore mi batteva talmente forte che sembrava
impazzito. Pensai che ormai non avevo più speranza di salvarmi, ma nello stesso
tempo non persi il coraggio.
Avevo in tasca un piccolo Santo, era S. Antonio da
Padova che mi aveva dato mio padre prima di partire, lo misi sopra il battente
della porta e pregai.
Mi sentivo tutto bagnato da sudore, chiudevo gli
occhi e vedevo l’immagine del santo che anche nelle battaglie più pericolose mi
aveva sempre protetto. Anche mio padre lo portò con se nella guerra del 1915-18
dove rimase ferito e prigioniero dei tedeschi, ma riuscì a fuggire ed a
raggiungere i suoi compagni, e io dopo 25 anni mi trovai nelle stesse
condizioni di mio padre.
Dopo un paio d’ore usci dal mio rifugio, andai a
cercare i miei compagni ma non c’era più nessuno, i tedeschi li avevano fatti
prigionieri. Così rimasi solo e triste per la sorte dei miei compagni.
* * * * *
La notte stessa decisi di
attraversare le montagne che circondavano Trieste, ma dopo pochi passi,
incontrai due vecchiette e mi supplicarono di non partire perché lungo la
strada che avrei dovuto percorrere c’erano i tedeschi. Io decisi di continuare
comunque, ma una di queste vecchiette mi si inginocchiò davanti piangendo e
dicendo che mi stava parlando come una mamma, allora impietosito decisi di
rimanere.
Mi rifugiarono in una casa,
mi diedero da mangiare e mi prepararono un letto,e finalmente, dopo quasi 200
Km. fra le montagne, riposai in un letto.
La notte, nonostante la grande stanchezza, non
riuscì a chiudere occhio. Verso le 5 del mattino andai fuori e guardai Trieste,
si vedeva appena. Mi faceva male al cuore esserci così vicino e non poterci
andare, diedi uno sguardo alla catena dei monti che dovevo attraversare, si
intravedeva il biancastro delle roccie ed i boschi erano pochi. Sarei stato
alla scoperto e troppo in vista ai tedeschi, infatti vidi le pallottole
traccianti raffiche di mitra proprio dove dovevo passare io.
Tornai in casa, consultai la
cartina geografica e capì che era troppo rischioso partire, ma ritornando
indietro sulla sinistra, dopo una collina, ci sarebbe stata una pianura dove
avrei potuto trovare una famiglia di contadini disposti a farmi lavorare almeno
qualche giorno per poter mangiare e meditare sulla situazione perché al momento
non era molto chiara.
Era ancora buio quando
partì. Dopo tre ore di cammino arrivai nella piccola vallata in un paesetto
chiamato Ospo, mi fermai in una casa e mi cambiai i vestiti, lasciai quelli
militari per un paio di pantaloni tutti rappezzati ed una giacca tutta sporca
di zolfo.
Mi indicarono una casa dove
secondo loro avrebbero avuto bisogno e così andai, bussai alla porta e mi aprì
uno vestito militare, gli chiesi lavoro e lui mi disse che avrebbe potuto
tenermi anche per un mese.
Mi accompagnò nel campicello
dove c’era una piccola vigna e tanti frutti, un bel prato dove dovevo pascolare
due pecore ed un agnellino, dovevo vendemmiare e raccogliere il grano turco e
tanti altri lavoretti.
Ritornammo a casa, gli
consegnai tutto quello che avevo, e ci raccontammo le nostre avventure.
Lui era appena arrivato da Trento dove faceva servizio
e prima di sera sarebbe partito per la montagna a far parte di una brigata di
partigiani.
Il giorno seguente cominciai
il mio lavoro, mi sembrava persino un sogno, lavoravo come un pazzo e con
passione, ed anche se ero stanco, mi sentivo sereno e pieno di vita!!!
Il secondo giorno,era
domenica e prima di andare al lavoro andammo alla S. Messa, la padrona mi diede
il vestito di suo marito.
Dopo la messa andammo nella
vigna, vennero anche alcune ragazze, una era la sorella della mia padrona, era
una bella ragazza con gli occhi verdi, mi divertì molto a ridere e a scherzare,
ma nel mio cuore non c’era posto per altro……… il mio pensiero era sempre
rivolto alla mia casa ed alla mia famiglia che erano ancora molto lontano da
me.
I giorni seguenti vendemmiai
dal mio padrone, poi misi in ordine la cantina, raccolsi il granoturco e piano
piano passavano i giorni, a forza di lavorare mi vennero i calli, mi ero
rimesso bene, mangiavo bene e mi sentivo forte, ma tutte le notti, sognavo di
essere a casa e al risveglio soffrivo molto, ma altre soluzioni non ce n’erano,
del resto in quella casa mi trovavo bene ed al sicuro.
Circolava la voce che gli inglesi fossero sbarcati
ad Ancona e Livorno e che Trieste sarebbe stata occupata dai partigiani.
Giorno e notte passavano i
partigiani armati ed a pochi chilometri si sentivano sparare i cannoni e si
seppe che Capodistria era in mano a i partigiani.
La domenica successiva,
andai di nuovo a messa, nel pomeriggio volevano portarmi con loro in paese, ma
io preferì restare a casa, ero più sicuro.
Nel frattempo arrivò il fratello del mio padrone, mi
disse che da un momento all’altro poteva arrivare l’ordine di andare in
montagna , ed anch’io, piuttosto che
farmi prendere dai tedeschi, sarei andato con loro.
Dopo qualche giorno arrivò anche il mio
padrone, si congratulò con me per tutto
il lavoro che avevo fatto. Passammo qualche giorno assieme, e mentre lavoravamo
ci raccontavamo le nostre avventure militari.
Lui era sfuggito da un
bombardamento a Caserta ed un altro a Trento, dove rimase anche ferito, era
stato due volte a Gaeta dove aveva scontato un anno di prigione.
Anche lumiera del parere che gli inglesi sarebbero
sbarcati a Trieste.
Un giorno il mio padrone mi
chiese se nessuno mi avesse domandato niente, io gli dissi di no, lui mi disse
che al comando lo avevano rimproverato perché temevano che fossi una spia e che
da un momento all’altro fossi fuggito, perché io vedevo tutti i cortei, le armi
che passavano e tanti li conoscevo.
Io allora gli dissi che sarei partito anche subito,
ma non ci fù nulla da fare, mi disse che avrebbe pensato a tutto lui e che io
non mi dovevo muovere da quella casa
fino a quando fosse tutto finito.
Poi aggiunse: “Tu non verrai
in montagna perché il tuo sangue è diverso dal mio, noi combattiamo il nostro
ideale che è giusto e sacrosanto, se proprio non volessero che tu resti a casa
mia, di giorno andresti nella mia grotta e mia moglie ti porterebbe da
mangiare, e di notte verresti a casa a dormire”.
I giorni passavano lenti, di
notte si sentiva sparare non molto lontano da noi. Un giorno passarono grosse
formazioni da bombardamento, loro dicevano che erano gli inglesi che stavano
per sbarcare, invece erano i tedeschi che bombardavano in montagna dove c’erano
i partigiani.
*****
Il mattino del 2 Ottobre
alle nove circa, il nonno ed io andammo nel campo a lavorare. Ad un tratto
arrivarono dei militari con l’autoblinda, chiesero il nome del paese e si
fermarono.
Io, velocissimo, scappai su
per un ruscello asciutto e continuai a salire per circa due chilometri fino a
quando arrivai in un punto scoperto, c’erano solamente dei piccoli muretti di
sassi. Mi fermai un attimo a guardare sotto, la strada era piena di autoblinde
e di carri armati, in campagna c’era tanta gente, ma io non comprendevo bene
cosa stesse succedendo, fino a quando capì che erano tedeschi. Ne vidi anche a
200 metri da me, e mentre scappavo alcuna pallottole mi sfiorarono tanto che io
credetti di essere rimasto ferito. Mi buttai pancia a terra, feci qualche metro
in ginocchio e mi diressi velocissimo tra i cespugli. Arrivò qualche altra
fucilata, io ero stremato a forza di correre, allora guardai se potevo trovare
qualche cespuglio fitto per nascondermi, e trovai un’insenatura stretta ma
profonda, con un po’ di acqua e fango, mi infilai dentro, ruppi dei rami e li
piantai sopra per rendermi meno visibile.
Dopo dieci minuti passarono
i tedeschi, li sentivo camminare tra i rami e ogni tanto sparavano qualche
colpo.
Piano piano tornò la calma, ma io restai nascosto
quasi tre ore fino a quando non resistetti più dal freddo, allora uscì fuori e
guardai verso il paese dove si vedevano case e capanne bruciare. Poco lontano
da me passò una ragazza con un fascio di panni in testa e le chiesi se c’erano
ancora i tedeschi, lei piangendo disse che erano andati via tutti, ed allora io
andai verso la casa dei miei padroni.
Li trovai tutti spaventati e
nel vedermi, piansero di gioia perché mi credevano morto. Mi cambiarono i
vestiti e dopo un po’ arrivò anche il nonno che per la terza volta era andato a
cercarmi e quando mi vide sano e salvo, mi baciò piangendo.
Decisi di partire la sera
stessa……… ma non l’avessi mai detto!!!! Mi rimproverarono dicendomi che ero
pazzo, allora io per accontentarli dissi che sarei partito la sera successiva,
anche perché mi sentivo un po’ di febbre e mi faceva male la gamba che avevo
tenuto nel fango fra due sassi.
All’indomani, essendo
domenica, andai alla S. Messa, mangiai, e preparai tutto per la partenza.
Passeggiavo nervosamente, ma il tempo non passava mai. Anche alcuni di Milano
volevano partire, ma non di notte perché lo ritenevano più pericoloso e mi
offrirono una forte somma in denaro per convincermi, ma io non cambiai idea,
prima di tutto perché dei soldi non sapevo cosa farne e la mia vita era più
importante, per me attraversare i monti di notte era certamente più sicuro che
di giorno.
Alle ore 19.00 del 3 Ottobre
partì, salutai tutti con abbracci, baci e lacrime. Anche i milanesi decisero di
venire con me.
Ero deciso più che mai,
portavo con me un sacchetto con carne e dolci che mi aveva preparato quella
buona gente, il passamontagna e l’occorrente per la barba e nient’altro.
Rivolsi gli occhi al cielo
dove brillavano già le prime stelle, e partimmo.
Attraversammo il paesetto ed andammo in una
chiesetta a pregare e poi ci incamminammo verso la montagna. La notte era
serena ma molto buia, soffiava una gelida bora ed il nostro percorso era in
alcuni punti molto pericoloso, ma io restavo sempre vigile e calmo.
Dopo tanti saliscendi, ci
inoltrammo in una fitta e buia boscaglia, non si vedeva nulla e ogni tanto
urtavamo qualche ramo o roccia sporgente, era molto faticoso, ma a tutti i
costi dovevamo continuare.
Usciti dalla pineta,
scendemmo fra le piante, il percorso era meno faticoso , ma ad un tratto mi
mancò il terreno da sotto i piedi, e precipitai per circa due metri e finì nel
letto di un torrente che per fortuna era asciutto.
A mezzanotte passata
arrivammo ad un villaggio, bussammo a qualche porta ma nessuno ci rispondeva,
andammo poco più avanti in una casa c’era una luce accesa, bussammo e di nuovo
non rispose nessuno, anzi, spensero
anche la luca. Allora io insistetti fino a che una voce tremolante disse: “chi
è”. gli chiesi informazioni e mi rispose che l’unica cosa era quella di
proseguire per una mulattiera dove alla fine ci sarebbe stata una grotta e ci
potevamo rifugiare fino al mattino, comunque dovevamo stare molto attenti
perché i tedeschi fermavano tutti.
Gli altri due fecero il
piano di restare nella grotta perché erano stanchi e preoccupati, io invece non
persi tempo e proseguì e poco dopo anche loro mi raggiunsero.
Salimmo una montagna rocciosa e fitta di cespugli
spinosi e come al solito le caviglie ci sanguinavano. I miei compagni, stanchi
di camminare tra quei cespugli, volevano proseguire per la strada asfaltata ma
io no non volli perché era troppo pericoloso, così proseguimmo per la montagna.
Ad un certo punto, ci
trovammo di fronte a tanti mucchi di fieno, ma da uno di essi, vidi un chiarore
ed allora scappammo subito, … per fortuna…, all’indomani venimmo a sapere che lì erano accampati le SS tedesche. [9]
Camminammo fino alle sei del
mattino e dopo quasi 11 ore di cammino tortuoso, nonostante ci fosse un vento
gelido, dormimmo circa due ore.
Fummo svegliati da raffiche
di mitra sparate da poco lontano, mi alzai e vidi che eravamo appena a mezzo
chilometro da una stazione ferroviaria dove c’erano i tedeschi.
Camminammo in ginocchio fino
alle prime case e nessuno ci voleva vicino a casa, perché dicevano che se i
tedeschi ci avessero trovato, avrebbero bruciato la casa. Alcune donne
piangevano perché dicevano che avevano portato via i loro uomini ed anche i
ragazzi di 16/17 anni.
Ci dissero che eravamo dei pazzi , in quanto i
tedeschi erano da tutte le e noi non saremmo riusciti a superare la montagna .
Non ci perdemmo mai d’animo
e continuammo la nostra marcia fra rocce e boschi. Ad un certo punto c’era cuna
strada asfaltata da attraversare e così uno alla volta e di corsa
l’attraversammo e ci allontanammo velocemente, ma fummo visti da un autocarro
armato e ci sparò contro qualche raffica di mitra, ma per fortuna riuscimmo a
trovare riparo dietro ad alti massi.
Passammo di fronte ad alcune
case , dove ci dissero che stavamo andando verso una polveriera, e così dovemmo
cambiare direzione, di nuovo fra sassi e spini; si faceva poca strada ma tanta
fatica fino a mezzogiorno passato. Finalmente arrivammo in una vallata dove c’era un paesetto,qui ci dividemmo,
perché i miei compagni erano stanchi a decisero di fermarsi, mi ringraziarono
tanto per il mio coraggio e dissero che senza di me non sarebbero mai arrivati
fino lì. Così continuai il viaggio da solo.
Dopo una decina di
silometri, arrivai in un paesetto dove incontrai altri soldati, due di loro
proseguirono con me. Percorsa poca strada, incontrammo una donna che ci chiese
se volevamo del latte caldo. Avevo lo stomaco gelato e non mi sembrava vero
poter ingerire qualcosa di caldo.
Mentre il latte si scaldava, la donna disse che
anche in quella zona avevano fatto dei rastrellamenti ed avevano ucciso
parecchi militari e civili.
Ad un tratto bussarono alla
porta ed una strana voce chiamò, noi tre cercammo di nasconderci, io riuscì ad
infilarmi sotto ad un letto, però gli altri due vennero trovati e catturati.
Scappai fino a che arrivai
in paesetto a pochi silometri da Se sana, nessuno mi voleva ospitare perché
anche qui regnava la stessa legge, ma trovai una vecchietta che era sola, nel
frattempo capitarono altri tre soldati e allora ci ospitò tutti a casa sua, ma abitava
in una casa vicino ad una strada un po’ pericolosa e così preferimmo dormire
nel pollaio con un po’ di foglie secche per materasso.
C’era una piccola osteria
dove trovammo altri militari e un ragazzino che alla mattina alle 4 ci avrebbe
fatto strada, in quanto lui era pratico del posto, e fra Se sana ed un altro
paese c’erano molte pattuglie tedesche e dovevamo attraversare la strada
provinciale e la ferrovia.
Pagammo questo ragazzetto e disse che pensava lui a
svegliarci.
Alle 4 puntuali, partimmo, il
ragazzetto davanti e noi dietro a fila indiana. Dopo aver scavalcato alcuni
muretti, riuscimmo ad attraversare la ferrovia, poi a pochi passi la strada
Trieste- Postumia, ed eravamo appena ad un chilometro da Sesana, quando
sentimmo un rumore, ci fermammo tutti di colpo ma era un falso allarme.
Salutammo quel coraggioso ragazzino e proseguimmo da soli, gli altri compagni
erano tutti più anziani di me, avevano un buon passo, ma erano molto indecisi
sul datarsi, allora io presi il comando.
Incontrammo alcune persone
le quali ci dissero che azzardavamo troppo, ma ormai era tutto deciso, a tutti
i costi dovevamo uscire da quell’inferno.
A mezzogiorno divisi con
loro tutto ciò che avevo rimasto nello zaino, e poi proseguimmo fra colline e
villaggi, passammo da un villaggio tutto bruciato e ci vennero dietro due
caprette che non facevano altro che belare, non contava tirargli sassi né
corrergli dietro per cacciarle e ci seguirono fino ad un paesetto dove le
barattammo con un bicchiere di vino.
Proseguimmo e poco dopo
fummo sulla Provinciale Monfalcone-Gorizia dove incontrammo una lunga
autocolonna di tedeschi, non so se fummo avvistati, ma spararono all’impazzata
verso di noi che però eravamo ben riparati, e così anche questa volta riusci a
salvare la pelle!!
Ormai scendeva il sole e
cominciammo a lasciare le colline, dopo qualche saliscendi, arrivammo a
Doberdò. La prima cosa che notammo, fù un grande monumento, era il cimitero di
Redipuglia.
Dopo aver attraversato una strada asfaltata, ci
trovammo in vista del fiume Isonzo ed arrivammo nel paesetto di S. Pietro
d’Isonzo.
A 100 metri dal fiume,
chiedemmo fosse stato possibile attraversare la sera stessa, ma ci dissero che
era impossibile
Trovammo un contadino
disposto ad ospitarci, ci preparò da mangiare e da dormire. Finalmente dopo
sedici ore di marcia potemmo riposare. Ero stanco, tuttavia durante la notte
non chiusi occhio.
All’alba ripartimmo,
arrivammo alle sponde del fiume, ma l’acqua era alta ed era impossibile
attraversarlo. Di noi quattro solamente uno era capace di nuotare, ma neppure
lui ci riusci, perché la corrente era troppo forte.
Provammo in altri punti, ma niente. Sul ponte
c’erano i tedeschi ed avevano sequestrato tutte le barche.
Ad un tratto, dall’altra parte del fiume, un uomo
stava attraversando, ci andammo incontro, e lui ci indicò i punti dove dovevamo
passare.
Ci svestimmo
ed i panni li mettemmo attorno al collo ed incominciammo l’attraversata.
L’acqua ci arrivava più o
meno al ginocchio, in alcuni punti alla coscia, e proprio al centro del fiume,
alla pancia.
Così, piano piano ed a denti stretti, quasi
congelati in quanto l’acqua era gelida, riuscimmo ad arrivare dall’altra parte
del fiume.
Proseguimmo la nostra
marcia. Camminavamo così bene che sembrava di passeggiare, non c’erano più
rocce, né boschi e quei burroni tanto pericolosi e nemmeno più l’insidia dei
tedeschi.
Sembrava di essere arrivati solo allora nella nostra
bella Italia.
Verso mezzogiorno,passammo
alla sinistra di Palmanova, ed arrivammo a casa di uno dei tre compagni di
viaggio, ci ristorammo bene, gli altri due si scambiarono il vestito da
militare e con un fiasco di vino ripartimmo per le belle campagne friulane.
A tarda sera ci fermammo in
una grande villa dove ci diedero da mangiare e dormire. Una signora di Roma,
sfollata, ci consigliò di arrenderci ai tedeschi, ma noi non l’ascoltammo,
perché dopo tanta strada percorsa ed affrontato mille pericoli, eravamo decisi
più che mai a portare a termine il viaggio.
Riposammo in un fienile, ma non riuscimmo a dormire
molto in quanto eravamo preoccupati che quella signora facesse la spia.
All’alba ci mettemmo di
nuovo in viaggio, verso le ore 11,00 con una barca attraversammo il
Tagliamento. Passammo per alcuni paesi fino a che, dopo avere per 50
chilometri, stanchi morti, ci fermammo in un casolare a riposare.
All’alba del giorno
successivo ci mettemmo subito in cammino lungo l’immensa pianura padana che
sembrava non avesse mai fine, verso mezzogiorno dovemmo spostarci molto perché
ci informarono che c’erano i tedeschi. Quella zona era molto pericolosa anche
nelle strade secondarie perché giravano pattuglie tedesche in bicicletta in
cerca di prigionieri inglesi ed americani che erano fuggiti dal campo di
concentramento l’8 Settembre.
Noi proseguimmo senza troppe
difficoltà, ed arrivati in una borgata, una signora chiese il mio indirizzo per
poter scrivere alla mia famiglia ed annunciare il mio ritorno.
Alle ore 15,00 attraversammo
il fiume Ivenza, l’unico che attraversammo sul ponte. Passando di paese in
paese incontrammo tantissime donne, alcune in lacrime, che ci chiedevano
notizie, forse avevano il figli, i mariti ed i fratelli in guerra, ed a me
piangeva il cuore, perché pensavo a mia madre che probabilmente stava facendo
la stessa cosa chiedendo di me ai militari che passavano.
Al
tramonto, dopo aver percorso 45 chilometri, ci fermammo in un villaggio che
distava circa 200 metri dallo storico fiume Piave, qui ci dissero che non c’era
tanto pericolo. Durante la notte riposammo un po’, ed all’alba, con un battello
attraversammo il Piave.
Percorsi
circa 5 chilometri, incontrammo una vecchietta che con una voce sottile ci
chiamò, l’aspettammo, ed arrivata a noi, mi prese per un braccio e ci disse di
seguirla per un viottolo,e lacrimante ci disse che se avessimo proseguito
saremmo stati presi dai fascisti e poi consegnati ai tedeschi, perché per ogni
soldati consegnato prendevano un premio.
Ringraziammo l’anziana signora per averci salvato,e proseguimmo. Verso
l’una di notte passammo a sud di Treviso e ci fermammo oltre 25 chilometri,
riposammo e di nuovo allo spuntar del sole, ci mettemmo in marcia.
Era la domenica del 10
ottobre, in una notte e 8 giorni precisi, avevamo percorso oltre 250
chilometri, forse i più brutti ed i più pericolosi, ma per quelle belle strade
venete, marciavamo spediti e pieni di speranza.
Arrivammo nelle vicinanze di
Padova. Vidi le cupole di Padova, e riconobbi bene il bel Santuario di
Sant’Antonio che portavo in tasca e che è stato il compagno di viaggio e
protettore prima di mio padre nella grande guerra ed ora il mio.
Mi sarebbe piaciuto entrare
e pregare il Santo, ma purtroppo era impossibile.
Lasciammo Padova e
proseguimmo in direzione di Monselice dove sapevo che vi abitava una mia zia.
Camminammo sulla destra del canale navigabile Monselice-Padova, alla sinistra
c’era la strada statale dove c’erano tanti autocarri tedeschi, ma noi eravamo
al sicuro perché non c’erano ponti per poter attraversare.
Incontrammo un signore a
cavallo che ci chiese dove fossimo diretti ed aggiunse che se al mattino alle 9.00
ci fossimo trovati in piazza a Monselice, ci avrebbe nascosto fra le ceste di
pollame ed alla sera saremmo arrivati a Bologna. Allora camminammo fino a notte
fonda ed al mattino presto eravamo già in cammino.
Mancavano ancora 10 chilometri a Monselice e dovemmo
passare un paesino chiamato Battaglia dove c’erano i tedeschi, ma per fortuna
andò tutto bene.
Alle otto arrivammo alle
porte di Monselice ed anche lì c’erano i tedeschi e i fascisti. A questo punto
ci dividemmo. Uno dei miei compagni mi invitò ad andare a casa sua dove mi
avrebbe ospitato fino a quanto avessi voluto, ma io con rammarico non accettai,
a tutti i costi volevo arrivare a casa.
In ogni modo, se non avessi trovato la strada, prima
del Po ci abitava mia nonna ed al limite mi sarei fermato da lei.
Andai in una casa e domandai
di mio zio, sapeva solo il nome e che non abitava in un paese, ma non ricordavo
nient’altro. Allora una signora fu tanto gentile ed andò all’anagrafe ma non lo
trovò; poi mi ricordai che lo zio faceva mercato con un autocarro, ed andai al
mercato, ma neanche qui lo trovai. Mi feci dire i nomi dei paesini circostanti,
ma tutto fù inutile, non mi venne proprio in mente nulla.
A questo punto, decisi di
andare dalla nonna a Mantova che distava circa 100 chilometri.
Appena fuori dal paese, vidi un autocarro tedesco
venirmi incontro, saltai in un fosso e rimasi nascosto fino a che passò,
ripresi la marcia e non mi accorsi che mi era entrato un sassolino nella scarpa
e continuai a camminare fino a quando mi dovetti fermare e guardare nella
scarpa, mi ero addirittura fatto una piccola vescica, proseguì zoppicando
leggermente ma sempre con andatura sostenuta.
La sera dormì vicino ad Este
ed all’alba come al solito ricominciai la marcia ed arrivai in un paesetto dove
mi dissero che era pericoloso, ed un uomo molto gentile mi diede una bicicletta
per fare più in fretta, Ma dopo pochi chilometri scoppiò una gomma.
Verso le 11 con una barca
attraversai il largo fiume Adige a circa tre chilometri da Legnago.
Verso mezzogiorno incontrai
un uomo e mi invitò a mangiare a casa sua, mi raccontò che aveva una sorella a
Bertinoro e che anche lui era stato più volte vicino a casa mia, ed in mio
onore aprì una bottiglia di albana. Insistette perché rimanessi da lui, ma
spiegai che non era possibile, ed allora alle 17,00, ripresi il viaggio e mi
fermai Vicino ad Ostiglia che distava 30 chilometri dalla casa di mia nonna.
Al mattino, ancora buio,
ripresi il cammino, ogni paese che passavo mi tornavano in mente i racconti di
mio padre di quando era giovane in riferimento a quei posti.
A mezzogiorno mangiai un boccone camminando, fino a
quando arrivai alle risaie.
Mi sentì chiamare, c’erano
un centinaio di donne che raccoglievano il riso, avevano dei larghi cappelli di
paglia e mi dissero di non proseguire perché c’erano i tedeschi.
Mi domandarono dove fossi
diretto e io risposi che dovervo arrivare a S. Lucia.
C’erano tante donne di quel paese e mi chiesero da
chi andavo e risposi dalla nonna, ed una di quelle donne, disse che mi
conosceva, e che da piccolo mi aveva tenuto tante volte in quanto era un amica
di mia mamma.
Chiamò una ragazza per
accompagnarmi, ed aveva una bicicletta da donna, caricai la ragazza sul
manubrio ed andammo verso la casa della nonna.
Finalmente arrivammo
all’incrocio che si immetteva nella Provinciale Mantova- Verona, dove
all’angolo c’era la casa della nonna. Con immensa gioia vidi che era nell’orto,
mi vide anche lei ed esclamò stupita:” E’ una visione o sei proprio tu?!”
Mi abbracciò con gioia
ancora incredula di vedermi. Mi fece entrare in casa( la casa della nonna era
chiamata “ La Corte”), mi diede da mangiare e mi preparò un bel letto comodo
dove finalmente avrei potuto riposare tranquillamente.
Qualche giorno dopo, una
ragazza di nome Maria mi portò a casa sua e mi mostrò una stanza nella quale il
26 Giugno del 1922 nacqui io.
Maria fù molto carina e gentile con me, tanto che,
complice l’emozione e la gioia di trovarmi finalmente più al sicuro, riuscì ad
abbandonarmi fra sue braccia e di qui nacque un sentimento dolcissimo.
Ma purtroppo durò poco, in
quanto 10 giorni dopo, dovetti lasciare la casa della nonna.
Una signora, amica di mia mamma, riuscì a procurarmi
un permesso scritto in tedesco che mi permetteva di tornare a casa.
Mi dovevo muovere con molta prudenza perché Mantova
era piena di Fascisti.
Riuscì a prendere il treno,
il viaggio fù rocambolesco. Mi fecero scendere prima di Bologna perché la
stazione era stata bombardata, ed allora proseguì con mezzi di fortuna.
* * * * * *
Finalmente arrivai a casa,
era il 25 Ottobre del 1943.
Era una giornata piena di sole, ma il sole più
grande era nel mio cuore per la gioia di poter riabbracciare i miei cari sano e
salvo.
* * * * * * *
Scritto il 30 ottobre 1943
[1] Il
famoso corpo Cacciatori delle Alpi, nato il 4 maggio 1859 e all’epoca, affidato
al comando di Giuseppe Garibaldi, durò sino all’8 settembre 1943, data in cui
si sciolse, in Jugoslavia, nella zona di Lubiana, a seguito degli eventi
determinati dall’armistizio.
[2] Basovizza.
[3] 8
settembre 1943: Pietro Badoglio, nominato generale il 25 Luglio 1943 dopo
l’arresto di Mussolini da parte del re, annunciò tramite la radio
l’accoglimento dell’armistizio richiesto alle forze anglo-americane. Mentre la
notizia veniva divulgata, il re, la corte, l’intero stato maggiore e lo stesso
Badoglio fuggivano da Roma dirigendosi verso sud. I tedeschi, che già da tempo
si aspettavano questa mossa, passarono immediatamente al contrattacco, come era
già previsto nei loro piani.
[4] Dopo
la resa dell’Italia agli alleati la confusione all’interno dell’esercito fu
totale. Badoglio, Il sovrano e lo stato maggiore, nella fretta di mettersi in
salvo, dimenticarono di emanare gli ordini necessari. I battaglioni abbandonati
in territorio nemico (ora amico) rimasero in balia degli ex alleati tedeschi,
senza sapere che misure adottare nei loro confronti.
[5]
Prendono il loro nome da “ceta” che significa “formazione” . Il verbo
“cetovare”, che deriva da questo nome, indica “guerreggiare con scorrerie” e
spiega la tattica militare utilizzata da questi combattenti. Il movimento
nazionalista dei Cetnici nasce con lo scopo istituzionale di combattere le
forze occupanti (Italiani e tedeschi). Ma con il proseguire della guerra, i
dissidi con le altre forze partigiane comuniste spinsero i Cetnici all’intesa
con le forze nazifasciste.
[6]
Partigiani comunisti, al comando del maresciallo Tito. Il croato Josip Broz,
più noto con il nome di battaglia di Tito, segretario del partito comunista
Jugoslavo e dal 1943 nominato Comandante dell’esercito Popolare di Liberazione
con il beneplacito di Mosca.
[7] Dopo
l’8 settembre 1943 un’ampia zona del nord Italia passerà sotto il controllo
diretto del Reich tedesco ed il 15 ottobre, per volontà di Hitler, questi
territori saranno annessi al Reich con il nome di “Voralpenland” (“territorio
delle Alpi”) formato dalle province di Bolzano, Belluno e Trento e di
”Adriatisches Kustenland” (“litorale adriatico”) formato invece dal territorio
di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana.
[8] E’ la vetta più alta del
territorio alle spalle di Trieste (1796 metri).
[9]
Schutzstaffel: in tedesco significa “corpi di protezione” abbreviato con SS.
Un’unità paramilitare, nata 1925 (assoldando uomini tra le fila delle Squadre
d’Assalto (SA), 1°gruppo paramilitare del partito nazista) per formare la
guardia del corpo di Hitler. Nel 1929 le SS contavano solo 280 uomini, nel 1933
contavano già 209.000 uomini. Il loro motto era “il mio onore è la lealtà”.
Durante la seconda guerra mondiale combatterono a fianco dell’esercito regolare
tedesco. Violente, crudeli ed estremamente efficienti, il loro nome era
sufficiente ad infondere paura.
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