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mercoledì 30 ottobre 2024

Garibaldi militare

 

LA REPUBBLICA ROMANA E L’ “OBBEDISCO” DI GARIBALDI NELLA DIFESA DI ROMA SUL FRONTE SUD CONTRO L’ESERCITO NAPOLETANO

Ten. cpl Art. Pe. Sergio Benedetto Sabetta



Nei primi mesi del 1849 contro la Repubblica romana marciarono quattro eserciti, uno austriaco, che si mosse da terra verso le Legazioni romagnole ed Ancona, uno francese, che sbarcò nel nord del Lazio a Civitavecchia, uno spagnolo che sbarcò sulle coste sud del Lazio a Terracina, ed uno napoletano, che mosse a nord lungo la via Appia.

Il 30 aprile i francesi al comando di Oudinot furono sconfitti sotto le mura di Roma da Garibaldi e inseguiti verso Civitavecchia, ma il generale venne fermato da un ordine del Triumvirato che gli imponeva il rientro a Roma, sia a seguito della volontà di instaurare trattative con la Repubblica francese, che per l’urgenza di affrontare l’armata napoletana.

Il 4 maggio Garibaldi alla testa di circa 2.300 uomini uscì da Roma verso sud-ovest, il 9 maggio a Palestrina si scontrò con le avanguardie dell’esercito napoletano che furono respinte, il 10 maggio fu richiamato a Roma per il timore di una ripresa degli scontri con i francesi, invece venne dalla Francia come inviato straordinario Lesseps che, conclusa una tregua, instaurò delle trattative con la Repubblica romana.

Fu quindi possibile organizzare un forte contingente contro l’esercito napoletano che nel frattempo si era accampato a Velletri, forte di circa 10.000 uomini l’esercito repubblicano uscì da Roma la sera del 16 maggio al comando del generale Roselli.

Nel frattempo il Lesseps respinse l’offerta del re delle Due Sicilie, Ferdinando II, di attaccare contemporaneamente la Repubblica romana, circostanza che indusse il re ad ordinare un ripiegamento verso Cisterna per rientrare nei confini del regno.

Garibaldi alla testa dell’avanguardia la mattina del 19 maggio colse l’occasione, nonostante gli ordini contrari di Roselli, per attaccare i reparti borbonici in ripiegamento presso il ponete di Fontananuova, fuori Porta romana a Velletri, dopo uno sbandamento iniziale in cui lo stesso Garibaldi rischiò di rimanere prigioniero i borbonici ripiegarono su Velletri.

Nella notte tra il 19 e il 20 maggio l’esercito borbonico completò la ritirata da Velletri a Cisterna, permettendo a Garibaldi di entrare a Velletri la mattina del 20 senza trovare alcuna resistenza.

Garibaldi propose di avanzare verso Napoli ma sia Mazzini che Roselli, temendo di lasciare sguarnita Roma, si dissero contrari e il grosso dell’esercito rientrò, autorizzando tuttavia Garibaldi a continuare verso sud alla testa di circa 4.000 uomini.

Avanzando sulla via Casilina la sera del 23 maggio l’avanguardia costituita dai 400 bersaglieri lombardi di Manara entrò a Frosinone, dove il 24 arrivò anche Garibaldi, che ripartito la mattina del 26, alla sera si accampò nei pressi di Ceprano ai confini del regno delle Due Sicilie.

Nel frattempo per Arce, primo comune al di là del confine nel regno, affluivano i profughi del frusinate insieme al clero, al Vescovo e al Governatore di Anangni.

Non vi erano restate al confine truppe borboniche sufficienti, se non un contingente di Guardie Cittadine di Arce, una trentina di Reali Carabinieri, uno squadrone di Dragoni, una cinquantina di soldati dei Dazi, una cinquantina di Guardie di Pubblica Sicurezza e dai comuni vicini una quarantina di Guardie Civiche, tutti al comando del Maresciallo di campo Vial, questo quanto riferito dal capitano Pietro Lancia della Guardia Cittadina di Rocca d’Arce.

La mattina del 27 vi fu uno scontro a fuoco fra i repubblicani e i borbonici prima di passare il confine, in cui vennero coinvolti i Dragoni, la “colonna mobile” e gli uomini della Pubblica Sicurezza, non si fa cenno alla Guardia Cittadina, nel dispaccio inviato dal Capo Brigata di Cavalleria, mentre il capitano Nicola Grossi della Guardia Cittadina di Arce, in un dispaccio riservato inviato all’Intendente di Caserta descrive uno scontro a fuoco sostenuto dalla Guardia Civica, senza che i Doganali, i Carabinieri e i Nazionali entrassero in azione.

La mattina i bersaglieri di Manara occuparono Arce e Rocca d’Arce, seguiti dal grosso comandato da Garibaldi, entrando in un paese deserto per la paura, non vi furono atti di violenza ma solo di propaganda, solo nelle campagne vi furono delle requisizioni.

I cittadini che erano scappati, nella giornata rientrarono e furono aperti anche degli esercizi per rispondere alle richieste dei repubblicani, che pagarono con la loro moneta.

La sera stessa Garibaldi rientrò a Ceprano con tutto l’esercito, su dispaccio urgente del Triumvirato, il quale aveva avuto notizia che gli austriaci presa Bologna stavano marciando su Ancona.

Gli venne offerta la possibilità, se la ritenesse utile, di rientrare a Roma passando dagli Abruzzi al fine di intercettare gli austriaci, ma la sera dello stesso 27 maggio un ulteriore ordine del Triumvirato lo invitava a rientrare a Roma per la via più breve.

Lasciata Arce e Rocca d’Arce il giorno successivo era a Frosinone con il grosso delle truppe, le truppe borboniche al comando del generale Nunziata entrarono ad Arce solo due giorni dopo, il 29 maggio.

La popolazione rimase interdetta da questi veloci alternarsi di schieramenti, mentre Garibaldi, che aveva già ricevuto da delegazioni dei comuni vicini l’invito a procedere verso Napoli, ubbidì ma mostrò con lettera indirizzata a Mazzini tutto il suo disappunto nel dovere abbandonare l’impresa nel regno delle Due Sicilie, tuttavia questo lo spinse a considerare la debolezza di comando dei napoletani e ad avvicinarsi successivamente al Piemonte e quindi al partito regio, lasciando i repubblicani.

Nota

  • F. Corradini, … di Arce in Terra di Lavoro … , 238 -252, Vol. II , Parte speciale , Sez.I Arce 2004.

giovedì 10 ottobre 2024

Alessia Biasiolo. La Lunga marcia compie novanta anni

 


Per sfuggire all’accerchiamento messo in atto dalle truppe del Kuomintang comandate da Chiang Kai-shek, nel 1934 l’Armata Rossa Cinese afferente al Partito Comunista iniziò una marcia per ritirarsi.

Dopo 370 giorni di cammino lungo novemilaseicento chilometri, dal 16 ottobre 1934 al 22 ottobre 1935, gli uomini in marcia, detta poi Lunga, transitarono per il Jiangxi e lo Shaanxi percorrendo oltre 12mila chilometri di altipiani, montagne, guadando fiumi, sempre combattendo all’occorrenza, fino allo sfondamento dell’accerchiamento avvenuto grazie ai 130mila soldati comandati da Mao Zedong e Zhu De.

I soviet che avevano originato il problema comunista da fronteggiare erano nati a partire dal 1927 soprattutto nelle campagne cinesi, dopo che il governo aveva abolito il Partito comunista, vietandolo a partire dalle città, dov’era effettivamente scomparso.

Mao aveva preso il controllo del Partito a partire dal gennaio 1935, soprattutto perché non pensava soltanto alla fuga, ma aveva una visione più ampia e organizzata, anche per difendersi dall’attacco giapponese che aveva approfittato dei disordini interni per penetrare in Cina dalla Corea e dalla Manciuria. Pensava quindi all’attacco al Giappone marciando sulla provincia semidesertica Shaanxi, dove avrebbe combattuto contro le truppe dell’invasore.

La marcia venne ostacolata anche dagli abitanti delle varie provincie, a volte favorevoli al comunismo e altre volte no; alcuni generali appoggiarono l’idea di Mao di dirigersi a combattere contro i giapponesi, mentre altri militari, come Zhang Guotao, si dirigevano verso i confini dell’Unione Sovietica.

A luglio le truppe di Mao riuscirono a congiungersi con quelle del soviet di Henan che stavano altrettanto fuggendo; in ottobre, molto ridotti in numero, i soldati comandati da Lin Biao arrivarono nello Shaanxi dove presero la capitale e si posero a fronteggiare i giapponesi fino al 1945 lungo la linea dello Huang he.

Il Partito Comunista Cinese dimostrò così di volere combattere i giapponesi più di quanto non lo volesse Chiang Kai-shek che venne catturato e consegnato a Mao. Questi lo liberò, anche dietro ordine di Stalin.

Alla fine della seconda guerra mondiale, Lin Biao conquistò la Cina settentrionale riuscendo a vincere la guerra civile cinese.

Grazie alla Lunga marcia, Mao diventò il capo della rivoluzione, con un grande prestigio che condivise con tutti i comandanti del gruppo.

Mao Zedong o anche Mao Tse-tung era nato nel 1893 a Shaoshan, nella provincia di Hunan, in una famiglia di contadini mediamente agiata. A quattordici anni sposò Luo Shi per ordine del padre che aveva combinato il matrimonio, anche se Mao rifiutò di sottostare al matrimonio stesso con il quale non fu mai d’accordo. Durante la rivoluzione del 1911 poté tornare a scuola dove sostenne l’attività fisica e l’azione collettiva, avvicinandosi alle idee di Bakunin e Marx, soprattutto per l’abolizione della differenza tra lavoro manuale e fisico. Dopo il diploma, viaggiò verso Pechino durante il movimento anti-imperialista del 4 maggio 1919, al seguito di Yang Changji che poi divenne suo suocero. La moglie venne poi imprigionata e uccisa nel 1930 dalle truppe di Chiang Kai-shek, a capo del Kuomintang dal 1925. Nel frattempo Mao guidò azioni collettive per i diritti dei lavoratori e si occupò dell’addestramento dei contadini.

Le sue analisi dettagliate della situazione degli agricoltori e delle loro sollevazioni sono i documenti alla base della teoria maoista. Questa influenzò i cinesi, soprattutto i giovani, e si diffusero anche nel resto del mondo. Soprattutto, a differenza delle idee di Lenin, e adattandole alla Cina, le idee di Mao erano che fossero i contadini il motore del Paese, essendo la forza lavorativa più grande.

Contribuì anche ad approfondire e migliorare, adattandole alla condizione cinese, le teorie di Marx ed Engels per creare una nuova teoria del materialismo dialettico ateo.

La classe proletaria cinese insoddisfatta era la base indispensabile per diffondere il comunismo e le idee rivoluzionarie. Mao divise i contadini in quattro classi. Alla base c’erano i proprietari terrieri che possedevano le campagne ma non le lavoravano, affidandole a lavoratori ai quali le affittavano; poi c’erano i contadini ricchi che lavoravano una parte delle proprie terre e l’altra l’affittavano; i contadini medi, invece, possedevano le terre che lavoravano per loro stessi; infine i contadini poveri erano coloro che non possedevano le terre, oppure ne possedevano troppo poche per averne un adeguato reddito e, pertanto, erano costretti a lavorare le terre di altri.

Tra le teorie che andava elaborando, di cui è difficile valutare il reale impatto sulla popolazione del Paese, Mao elaborò anche delle strategie pratiche che avevano la guerriglia come arma e il concetto di dittatura democratica del popolo come scopo.

Nel frattempo, nel marzo 1926, Chiang Kai-shek impose la legge marziale a Canton, ipotizzando una cospirazione dei signori della guerra contro di lui, sempre più potente tra le guide del Paese.

Nel luglio successivo comandò una spedizione dell’Esercito Rivoluzionario Nazionale contro i signori della guerra e per unificare la Cina sotto il Koumintang, dando inizio alla Spedizione del Nord. In questa era sostenuto dai proprietari terrieri, preoccupati dalle riforme agrarie che si stavano via via realizzando e che sostenevano Chiang Kai-shek.

Per ostacolare l’influenza di questi, il governo venne trasferito a Wuhan e quindi venne organizzata la rivolta dei lavoratori di Shanghai per rovesciare i signori della guerra del posto.

Era indispensabile agire per impedire ai comunisti di prendere il potere: Chiang Kai-shek e i suoi alleati strinsero un accordo con le triadi di Shanghai per organizzare gruppi armati per attaccare i comunisti, in principal modo lavoratori. Il Kuomintang dichiarò lo stato di emergenza.

Il 12 aprile 1927, l’Esercito Rivoluzionario Nazionale e i membri delle Triadi cinesi attuarono il massacro di Shanghai ai danni del Partito Comunista Cinese, al quale Mao scampò. Fu l’evento che segnò l’inizio della guerra civile nel Paese proprio per la frattura che si creò tra il Kuomintang, di cui Mao faceva parte come membro del Partito, e il Partito Comunista.

L’indomani il governo locale venne sciolto, con pesanti arresti dei comunisti e scontri che causarono oltre trecento morti e oltre cinquemila scomparsi. Arresti e massacri continuarono a Canton, Nanchino, Pechino. La rete delle alleanze continuava a tessersi, con coloro che osteggiavano Chiang Kai-shek e altri che lo appoggiavano.

In agosto scoppiò la rivolta di Nanchang e Mao diede vita alla sfortunata rivolta del raccolto annuale nel settembre successivo. Arrestato e condotto all’esecuzione, Mao riuscì a sfuggire e a rifugiarsi in montagna dove fondò la Repubblica Sovietica Cinese, della quale venne eletto presidente, tra il 1931 e il 1934. Poi rimosso dalla carica, Mao dovette difendersi dalle insidie sia di Chiang Kai-shek che di altri aspiranti al potere, e sarà in questo contesto che organizzerà la Lunga marcia, per sfuggire all’accerchiamento e dalle purghe che venivano organizzate dagli oppositori politici, soprattutto dai fedeli alla politica sovietica.

Le sue idee e le sue strategie venivano avversate dagli Stati Uniti e dalla stessa Unione Sovietica che vedeva in Chiang Kai-shek il garante dei propri interessi cinesi, così come lo vedevano gli americani, in quanto pensavano che potesse contrastare i giapponesi e impegnarli, liberando così le forze statunitensi nel Pacifico. L’Unione Sovietica da un lato mantenne suoi esponenti nel Kuomintang e dall’altro aiutò Mao ad impadronirsi degli armamenti giapponesi in Manciuria. Alla fine del conflitto, gli USA continuarono ad appoggiare Chiang Kai-shek nella sua volontà di guerra civile contro le truppe di Mao.

Nel febbraio 1949 l’Armata Rossa di Mao entrò a Pechino, mentre nel mese di dicembre venne presa d’assedio l’ultima città controllata dal Kuomintang. Chiang Kai-shek si rifugiò nell’isola di Taiwan. Intanto, il primo ottobre 1949, i comunisti fondarono la Repubblica Popolare Cinese di cui Mao fu presidente fino al 1959.

In occasione del compleanno di Stalin, nel 1949 Mao si recò a Mosca, dove trovò una fredda accoglienza proprio a causa dell’essere avvertito come un antagonista nel rappresentare il comunismo. Non vennero accolte le sue richiesta di restituzione di terre occupate dagli zar e, unico contentino, gli diedero un prestito di trecento milioni di dollari in cinque anni.

In occasione del primo anniversario della rivoluzione, il primo ottobre 1950, l’italiano Antonio Riva, nato a Shangai da genitori italiani lì commercianti, già decorato con Medaglia d’Argento al Valor Militare durante la prima guerra mondiale (Pilota comandante di una squadriglia da caccia compì numerosi voli di guerra, non conoscendo mai ostacoli nell'adempimento del proprio dovere. Di attività non comune, sempre primo nelle più arrischiate imprese, fu costante esempio di coraggio e di audacia ai suoi dipendenti. Con serena calma, sostenne quattordici combattimenti aerei, scese a quote bassissime per mitragliare truppe nemiche, abbatté tre apparecchi nemici, Cielo del Pasubio-Signoressa, 29 luglio 1917, 15 gennaio 1918), venne accusato con il giapponese Yamaguchi Takaichi e altri di avere lanciato una bomba (un colpo di mortaio) in Piazza Tienanmen con lo scopo di uccidere Mao, “il grande leader del nostro popolo”, oltre che di essere una spia al soldo della CIA con lo scopo di fomentare rivolte in Tibet.

Dopo un processo sommario, Riva venne condannato a morte per fucilazione e ucciso presso il Tempio del Cielo di Pechino.

La famiglia venne espulsa dalla Cina, senza alcun aiuto da parte delle autorità italiane, e costretta a lasciare il Paese in un posto di terza classe di un transatlantico. Antonio Riva era infatti rimasto un fascista convinto, quindi era un personaggio scomodo, malgrado fosse stato inviato in Cina per riorganizzare l’aviazione locale, su mandato governativo italiano che poneva il Belpaese direttamente in competizione con gli Stati Uniti.

La sua Asiatic Import Export commerciava vari prodotti, ma anche armi e soprattutto aeroplani che vendeva ai locali signori della guerra, quelli che avevano smembrato il Paese con i loro eserciti privati, la riscossione delle imposte al posto del governo centrale e il potere che riuscivano ad imporre.

In Cina, Riva aveva fondato il primo fascio già nel 1926, diventando portavoce di quella dittatura che avrà per anni un ruolo di mediazione mondiale anche in Asia.

A metà degli anni Trenta si sottoscrisse la collaborazione economico-militare tra Cina e Italia e, dopo l’invasione della Manciuria da parte del Giappone, il Paese si rese conto della vulnerabilità aerea, fatto che spinse a creare una buona e moderna aviazione militare.

Fino al 1935, la missione statunitense di fornitura di armi e addestramento dei piloti continuò, ma poi, allo scadere del contratto, cedendo alle pressioni del Giappone, non venne rinnovata. E così l’Italia poté inserirsi al suo posto, forte proprio del ruolo di mediazione che aveva svolto, e che aveva portato Galeazzo Ciano a presiedere a Shangai una commissione che aveva concluso la tregua sino-giapponese del 1932.

Venne fondata una joint venture per la produzione di aeroplani italiani in Cina che vide sempre Riva in primo piano, anche come collaboratore di quel Lordi che aveva la direzione della produzione. Mussolini non lasciò il comando a Lordi per il bombardamento aereo delle truppe comuniste che poi avranno la fuga nella Lunga marcia.

La campagna mediatica denigratoria contro l’aeronautica militare italiana divenne sempre più organizzata, in modo da impedire quel potere italiano sempre più pressante in Cina.

Il CR32 della FIAT, che si comporterà benissimo nella guerra di Spagna, vinse le sfide anche contro gli statunitensi, sia in voli che in esibizioni acrobatiche sui cieli cinesi, tacitando le voci dei suoi problemi tecnici messi in giro ad arte, e dimostrando come l’Italia fosse sempre al primo posto mondiale nella tecnologia e nell’arte del volo nei cieli.

Sarà proprio il Giappone a bombardare le fabbriche di aerei cinesi, e quindi italiani, nel 1937, fino all’accordo con il Giappone stesso che ben presto diventerà alleato dell’Italia, rendendo difficile la posizione degli italiani in Cina, visti ormai come traditori.

Antonio Riva cominciava sempre più a diventare scomodo, e ripetutamente gli venne consigliato di andarsene, ma continuava ad essere un fascista convinto e poi sostenitore della Repubblica di Salò, malgrado fosse stato radiato dall’aeronautica.

Tutto questo rende difficile rendersi conto se le accuse contro di lui e i presunti suoi complici fossero vere, oppure una montatura per eliminare appunto un personaggio scomodo. Zhao Ming dichiarerà decenni dopo che era tutta una farsa, utile per la montatura antiamericana, ma non ci sono documenti certi e dichiarazioni ufficiali in proposito.

La collettivizzazione forzata avviata da Mao in Cina durò fino al 1958, con il controllo dei prezzi che ridusse la forte inflazione imperante; promosse anche la semplificazione della scrittura in modo da aumentare il livello di alfabetizzazione del Paese e l’industrializzazione ebbe forte impulso.

A fronte di un forte incremento del PIL, la Cina vide un periodo di terrore che riguardava soprattutto i medi e piccoli proprietari terrieri che spesso vennero sterminati, anche fisicamente. Mao conteggiava in 800mila i contadini uccisi, ma sembra si sia trattato di alcuni milioni.

Forte del suo potere e certo dell’appoggio dei cittadini, Mao avviò una campagna detta poi dei cento fiori, con la quale promosse le diverse opinioni, per dare atto della sua apertura alle eventuali contestazioni. Risultò che molti cinesi contestavano la sua politica e ne mettevano in discussione la leadership, tanto da portare il governo a bloccare la campagna e a chiudersi in un forte nazionalismo.

Le libertà basilari non venivano di fatto riconosciute, in quanto la politica maoista volta a sentire e tenere conto del parere di tutti, condusse anche a contestazioni della linea di governo o del partito comunista, con conseguenti persecuzioni.

Mao elaborò quindi una politica di sviluppo economico alternativo a quella sovietica, con il “grande balzo in avanti” che, invece di coinvolgere l’industria pesante, riguardava soprattutto l’agricoltura, vera spina dorsale del Paese. Questa doveva essere collettivizzata a favore di una maggiore meccanizzazione che avrebbe liberato forza lavoro per l’industria, ma si ridusse ad essere volano per la fame dilagante che causò migliaia e migliaia di morti.

L’Unione Sovietica di Chruscev ritirò il suo appoggio e si aprì una crisi che indusse i leader del partito a pensare che l’epoca di Mao fosse conclusa. In quel periodo avvenne la prima pubblicazione, da parte dell’Esercito Popolare di Liberazione, del famoso “Libretto rosso”, distribuito per la prima volta nel 1963 e poi ai soldati nel 1965.

Con la fine del grande balzo in avanti, che pare sia costato la vita ufficialmente a 14milioni di persone, soprattutto per la scarsità di generi alimentari che venivano utilizzati per le forniture all’Unione Sovietica in cambio di tecnologia (tanto che la Cina mise a punto la bomba atomica con il primo esperimento nel 1964), il periodo maoista si dava per definitivamente concluso.

Mao, che già aveva lasciato la presidenza del Paese, organizzò la grande rivoluzione culturale nel 1966 scavalcando la gerarchia del partito e affidando il potere alle Guardie rosse che potevano anche formare i propri tribunali. Questa rivoluzione ebbe un forte impatto sul Paese, ma venne dichiarata chiusa nel 1969 dallo stesso Mao, per timore che prendesse troppo potere.

Mao scelse in Lin Bao il proprio successore, ma questi tentò un colpo di Stato nel 1971, fallito per la sua morte in un incidente aereo, tanto che il vecchio leader cominciò sempre più a non fidarsi dei seguaci.

Mao morì nel settembre del 1976, lasciando in Cina la lotta per il potere che vide da una parte la Banda dei Quattro, compresa la sua vedova, che voleva proseguire la politica di mobilitazione rivoluzionaria, mentre dall’altra coloro che volevano tornare alla pianificazione centralizzata di stampo sovietico e i riformatori guidati da Deng Xiaoping, teso soprattutto a togliere l’ideologia come fonte della politica economica.

La Banda dei Quattro venne arrestata e il governo andò alla fine a Deng Xiaoping che introdusse in Cina riforme economiche su modello occidentale.


Alessia Biasiolo, CESVAM, vicepresidente della Federazione di Ancona