mercoledì 12 luglio 2017
La Brigata Marche nel 1916.
La
Brigata “Marche”[1]
composta dal 55° e 56° reggimenti di fanterria, era stata sul finire del 1915
trasferita dal fronte dolomitico (4a Armata) sul fronte dell’Isonzo.
I
Quadri della brigata nel 1916 erano i seguenti:
Comandante
della Brigata continuava ad essere il gen. Cittadini, che lascerà il comando il
22 marzo 1916; dal 1 prile 1916 al 18 maggio 1916 lo sostituisce il magg. gen.
Guido Amidei, e dal 7 giugno al 7 maggio 1917 il col. brig. Alfredo Giannuzzi
Savelli. Quindi nel 1916 si avvicendaro ben tre comandanti la Brigata.
Comandante
del 55° Reggimento fanteria era il col. Ernesto Piano che perì nel siluramento
del piroscafo “Principe Uberto” l’8 giugno 1916; il ricostruito 55° Reggimento
fu posto al comando del col. Vittorio Sforza, dal 9 luglio 1917 fino al 27 agosto
1917.
Al
comando del 56° Reggimento fanteria vi era ancora il col. Vittorio Parri, che lascerà
ilcomando il 31 maggio 1917
Di
seguito i comandanti di battaglione nel 1916
55°
Reggimento fanteria:
I
Battaglione
.
Magg. Giovanni Gavagnin, dal 15 febbraio al 31 marzo 1916
II
Battaglione
.
Magg. Ermanno Finzi, dal 3 febbraio 1916 al 8 giugno 1916[2]
.
Magg. Giuseppe Giaroli, dal 1 luglio 1916 al 12 settembre 1917.
III
Battagliione
.
Magg. Egidio Saibante, dal 20 dicembre 1915 al 23 dicembre 1916
IV
Battaglione. Sarà costituito el 1917
56°
Reggimento fanteria:
I
Battaglione
.
Magg. Giovanni Fenech, continua comandarlo fino al 10 giugno 1917
II
Battaglione
.
Magg. Federico Rossi, dal 18 gennaio 1916 al 5 marzo 1916
.
Magg. Cornelio Rivelli, dal 30 marzo 1916 al 22 maggio 1916
.
Cap. Duilio Cuneo, dal 23 maggio 1916 al 1 novebre 1916, Caduto sul campo
.
Magg. Guido Ferlenghi, dal 2 novembre 1916 al 24 settembre 1917.
III
Battaglione
.
Magg. Camillo Carnevale, dal 17 dicembre 1915 al 19 marzo 1916
.
Ten. Col. Casto Santini, dal 20 marzo 1916 al 17 agosto 1916
.
Cap.Pompeo Garbagnini, dal 18 agosto 1916 al 20 ottobre 1916
.
Cap. Arturo Taddia, dal 21 ottobre 1916 al 18 novembre 1916
.
Ten. Col. Federico Musco, dal 19 novembre 1916 al 20 settembre 1917
Il
IV battaglione sarà costituito nel 1917
Gli
Ufficiali della Brigata Caduti nel 1916 sono:
55°
Reggimento fanteria:
.
Ernesto Piano, colonnello, da Castagnola, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona.
. Ermanno Finzi, maggiore, da Rivarolo, l’8
giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Ivo Calvi, capitano, da Farra di Soligo, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Cannello Panfilo, capitano, da San Pietro in Barbozza, il 14 dicembre 1916 a
Rio Vallasca
.
Pasquale Cariddi, capitano, da Siderno, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Cesare Colombo, capitano,da Milano, il 7 agosto 1916 a quota 85 di Monfalcone
.
Umberto Magner, capitano, da Montelupone, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Edmondo Matter, capitano, da Mestre, il 16 settembre 1916, alla 19a Sez. Sanità
Paljchisce
.
Vasco Pallattiero, capitano, da Schio, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Giovanni Pellizon, capitano, da Sacile, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Eugenio Pistoso, capitano, da Sarego, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Mario Saccozzi, capitano, da Reggio Emilia,l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Guglielmo Salinas, capitano, da Napoli, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Gastone dott. Senzi,capitano, da Firenze, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Arrigo Tarsitano, capitano, da Ravenna, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Carlo Era, capitano, da Oristano, il 1 novembre 1916 ad Hudi Log
.
Enea Governatore, tenente, da Scheggino, il 19 ottobre 1916 alla Sez. Sanità
47° Divisione Paljchisce
.
Giovanni Pasolli, tenente, da Camposanpiero, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Vicenzo restifa, tenente, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Antonio Vanni, tenente da Venezia, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Riccardo rev.Zanoni, tenente cappellano, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.Giovanni
dr. Zuppini, tenente medico, da Sanguinetto l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Giuseppe Amadori, tenebete, da Firenze, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Giovanni Battista Andretta, s.tenente, da Tombolo, l’8 giugno 1916, in mare,
presso Valona
.
Arturo Artico, s.tenente, da S. di Stino Livenza, l’8 giugno 1916, in mare,
presso Valona
.
Arstide Balloncini, s.tenente, da Ferra di Soligo, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Giuseppe Benvenuto, s.tenente, da Majera, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Giovanni Calvi, s.tenente, da Farra di Soligo, l’8 giugno 1916, in mare, presso
Valona
.
Domenico Camodeca, s.tenente, da Castrovillari, l’8 giugno 1916, in mare,
presso Valona
.
Nicolò Campagnolo, s.tenente, da Trapani, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Alberigo Camporese, s.tenente, da Padova, il 1 novembre 1916, ad Hudi Log
.
Francesco Catanzaro, s.tenente, da Montaldo Uffugo, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Pino Cattaruzza, s.tenente, da Auronzo, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Giuseppe Cavallari, s.tenente, da Brescia, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Giuseppe Carico, s.tenente, daTreviso, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Angelo Ferrara, s.tenente, da Tivoli, il 2 novembre 1916, ad Uudi Log
.
Luciano Ferro, s.tenente, da Padova, il 6 agosto 1916 a Quota 85 Monfalcone
.
Mario Figoni, s.tenente, da Padova, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Paolo Folli, s.tenente, da Langhirano, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Attilio Gorzio, s.tenente, da Saluzzo, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Beniamino Grunvald, s.tenente, da Venezia, il 18 agosto 1916, ad Oppachiasella
.
Andrea Labella, s.tenente, da Avignano,
’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Ernesto Manca, s.tenente, da Sassari, il 16 settembre 1916, ad Oppachiaella
.
Carlo Miglioretti, s.tenente, da Torino, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Roberto Petruzzelli, s.tenente, da Napoli,
’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Salvatore Polizzi, s.tenente, da Polizzi,
’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Paolo Ruini, s.tenente, da Giulia ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Silvio Secchieri, s.tenente, da Napoli, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Pietro Sorbi, s.tenente, da Firenze, il 1 novembre 1916 ad Hudi Log
.
Roberto Tecinod, s.tenente, da Roma, il 19 settembre 1916, Ambulanza Chirurgica
n. 5
.
Mario Tonissi, s.tenente, da Firenze, ’8
giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Innocenzo Vaglio, s.tenente, da Santhià, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Antonio Vitellio, s.tenente, da Torre del Greco, ’8 giugno 1916, in mare,
presso Valona
.
Luigi Beni, aspirante, da Cavriglia, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Giovanni friziero, aspirante, da Chioggia, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Antonio Lucchini, aspirante, da Luino, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Umberto Mscherin, aspirante, da Fiume,
’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Giuseppe Matelka, aspirante, da Treviso, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.
Giovanni Nenna, aspirante, da Trani, il 17 settembre 1916 all’O.d.C. 102
.
Gouseppe Sirocchi, aspirante, da Morandola, il 16 settembre 1916 ad Oppachiasella
.
Beniamino Zimei, aspirante, da Capestrano, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
56°
Reggimento fanteria
.
Duilio Cuneo, capitano, da Sassari, il 1 novembre 1916 a Nova Vas
.
Carlo De Vito, capitano, da Salerno, il 6 agosto 1916, a quota 85 Monfalcone
.
Virgilio Nista, capitano, da Poggio Imperiale, il 1 settembre 1916 ad Oppacchiasella
.
Giacomo Traversi, capitan, da Lucca, il 1 agosto 1916 alla 14a Sezione Sanità
.
Pio Bonanni, tenente, da Roma, il 15 settembre 1916 ad Oppachiasella
.
Gaetano di Mauro, tenente, da Catania, il 6 agosto 1916, Quota 85 di Monfalcone
.
Carlo Florani, tenente, da Milano, il 15 settembre 1916, ad Oppachiasella
.
Francesco Valenza, tenente, da Pantelleria, il 16 settembre 1916 in prigionia
.
Giovanni Zuccalà, tenente, da Nardò, il 4 agosto 1916, Quota 85 di Monfalcone
.
Giorgio Azzaroni, s.tenente, da Bologna il 16 ottobre 1917 a Polazzo
.
Vincenzo Azzolini, s.tenenete, da Volta Manotvana, il 15 settembre 1916, ad Oppachiasella
.
Ugo Barcaroni. s.tenente, da Moschuto, il 1 novem bre 1916
.
Lucindo Faggin, s.tenente, da Padova, il 5 novembre 1916 all’Ambulanza Chirigica
n. 5
.
Vito Falcicchio, s.tenente, da Grumo Apula, il 4 agosto 1916, Quota 85 di Monfalcone
.
Giuseppe Gallani, s.tenente, da Bagnolo Po, il 20 luglio 1916, a Quota 70 Selz
.
Ernesto Guzzotti, s.tenente, da Correggio, il 4 agosto 1916, 14° Sezione di
Sanità
.
Nunzio Simonelli, s.tenente, da Spezia, il 4 agosto 1916, Quota 85 di
Monfalcone
.
Ferruccio Spellanzon, s.tenente, da
Vazzola, il 4 agosto 1916 a Quota 85 di Monfalcone
.
Francesco Taddei, s.tenente, da Fucecchio, il 9 ottobre 1916, all’O.d.C.206
.
Umberto Barbier ,aspirante, da S. Agata Bolognese, il 15 settembre 1916, ad Oppachiasella
.
Giovanni Bellomo,aspirante, da Palermo, il 15 settembre 1916 ad Oppiachiasella
.
Angelo Cellura, aspirante, da Licata, il 3 novembre 1916 a Nova Vas
.
Luigi Gallo, aspirante, da Serralunga, il 1 novembre 1916 a Nova Vas
.
Diego Malara, aspirante, da Arangea, il 14 settembre 1916, ad Oppachiasella
.
Umberto Matteo, aspirante, da Morbegno, il 15 settembre 1916 ad Oppacchiasella
.
Rodolfo Patti, aspirante, da Palermo, il 16 settembre 1916, ad Oppacchiasella
.
Giovanni Pesce, aspirante, da Casal Velino, il 7 luglio 1916 alla 14° Sezione
di Sanità
.
Gennario Quatraro, aspirante, da Porlezzo, il 1 novembre 1916 ad Oppacchiasella
.
Alberto Rampone, aspirante, da Sestri Ponente, il 15 settembre 1916 ad Oppacchiasella
Il
quadro generale delle perdite della Brigata, per il 1916, in relazione alle
tabelle organiche. sono le seguenti:
.
55° Reggimento Fanteria, nel trasferimento dall’Albania in Italia, come vedremo
più avanti, perì al completo per il siluramento del piroscafo da parte di un
sottomarino austriacio; ebbe 48 ufficiali e 1900 uomini di truppa Caduti;
ricostruito in Italia nei suoi servizi prestati in linea ebbe sul Basso Isonzo
(28 giugno – 5 agosto) 3 Caduti e 13 feriti tra la truppa.
Nella
6a Battaglia dell’Isonzo (6-8 agosto) ebbe 2 Ufficiali Caduti e 6 feriti, tra
la truppa 90 feriti; nel Settore di Oppachiasella (15 agosto – 13 settembre) 1
Ufficiale Caduto e 6 feriti, mentre tra la truppa si ebbero 25 Caduti, 192
feriti, e 29 dispersi.Nella 7a Battaglia dell’Isonzo (14-19 settembre) il
Reggimento ebbe 5 Ufficiali Caduti ed 8 feriti; nella Truppa si lamentarono 32
Caduti, 278 feriti, 94 dispersi. L’impiego nelle trincee di Hudi Log, 1
Ufficiale Caduto, e 1 Caduto e 10 feriti tra la truppa.
Nella
9a Battaglia dell’Isonzo (31 ottobre – 5 novembre) 4 Ufficiali Caduti, 6 feriti
e 2 dispersi; 120 Caduti, 795 feriti, 504 dispersi tra la truppa.
L’anno
1916 termina con i servizi in linea dal 17 novembre al 31 dicembre in cui si
ebbero 1 Ufficiale Caduto. In Totale nel 1916 il Reggimento ebbe 62 Ufficiali
Caduti, 26 feriti, 2 dispersi; tra la Truppa, 2087 Caduti, 1379 feriti e 627
dispersi.
.
56° Reggimento Fanteria
Più
fortunato del suo gemello il 55° Reggimento fanteria riuscì a giungere in
Italia indenne. L’impiego operativo, essendo di brig, in linea generale,
avviene nei stessi settroi del fronte del 55° Reggimento.
Sul
Basso Isonzo (28 giugno – 5 agosto) il 56° Reggimento ebbe 8 Caduti e 12 feriti
fra gli Ufficiali e 101 Caduti, 356 feriti e 258 dispersi tra la truppa.
Nella
6a Battaglia dell’Isonzo (6-8 agosto) ebbe 2 Ufficiali Caduti e 8 feriti e 2 dispersi,
tra la truppa, 42 Caduti, 327 feriti, 29 dispersi; nel Settore di Oppachiasella
(15 agosto – 13 settembre) 1 Ufficiale Caduto e 2 feriti, mentre tra la truppa
si ebbero 18 Caduti, 148 feriti, ed 1 disperso.
Nella
7a Battaglia dell’Isonzo (14-19 settembre) il Reggimento ebbe 9 Ufficiali Caduti
ed 29 feriti, e 2 dispersi; nella Truppa si lamentarono 61 Caduti, 765 feriti,
232 dispersi. L’impiego nelle trincee di Hudi Log, 2 Ufficiali Caduti e 2
feriti, e 17 Caduti e 170 feriti tra la truppa.
Nella
9a Battaglia dell’Isonzo (31 ottobre – 5 novembre) 6 Ufficiali Caduti, 10
feriti; 68 Caduti, 503 feriti, 68 dispersi tra la truppa.
L’anno
1916 termina con i servizi in linea dal 17 novembre al 31 dicembre in cui si
ebbero 6 Caduti ed 8 dispersi.
In
Totale nel 1916 il Reggimento ebbe 28 Ufficiali Caduti, 63 feriti, 4 dispersi;
tra la Truppa, 313 Caduti, 2477 feriti e 588 dispersi.
L’attività
operativa della Brigata “Marche” per il 1916 è legata, nella prima metà del
1916, alle operazioni il Albania a sostegno del salvataggio dell’Esercito serbo
in ritirata e sul fronte dell’Isonzo nella seconda metà dello stesso anno. In
Albania era inserita nella trincea marittima, che presupponeva il controllo e
la chiusura del Canale d’Otranto, esigenza questa che presupponeva una base in
Albania,. Base che fu individuata a Valona. Il 29 dicembre 1915 il 10°
Reggimento bersaglieri opportunamente rinforzato occupò l’isolotto di Saseno,
per poi occupare Valona ed il suo porto. Iniziò da questo momento la presenza
delle armi italiane in Albania, i cui reparti furono inserito nel “Regio Corpo speciale italiano destinato ad
operare in Albania”.
Oltre
a quella di avere una base oltre Adriaco, nel dicembre 1915 si palesò
l’esigenza di dare sostegno, supporto ed assistenza all’Esercito serbo in
ritirata. Il Regio Corpo speciale fu
rafforzato fino a raggiungere la forza di tre Brigate di fanteria. Ai primi di
gennaio 1916 si ritenne di inviare ulteriori truppe, che nel mese successivo
raggiunse l’entità di 5 Brigate con le relative truppe di sostegno e supporto,
per poi divenire nel marzo 1916 una unità a livello di Corpo d’Armata (XVI).[3]
Tra
queste unità vi era la Brigata “Marche”.
Terminata
l’esigenza di salvare l’Esercito serbo vi fu un duro confronto tra il Comando
Supremo, e quindi con il generale Cadorna, ed il Governo. Cadorna, nella sostanza,
pur riconoscendo nella sostanza le ragioni di una maggiore presenza di truppe
italiane in Albania al fine di controllare più vasti territori, fu irremovibile
nel proposito di non destinare nuove truppe oltre Adriatico. Per lui il
problema di concretizzava, e si esauriva, nel possesso di Valona, che dal punto
di vista militare corrispondeva alla esigenza manifestata dal Comando
dell’Armata Navale e sotto il profilo
politico offriva in ogni caso al Governo la premessa alla azione di influenza
che intendeva svolgere nell’area balcanica. Cadorna giudiva, ed in gran parte
aveva ragioneessere determinante la presenza in armi in Albania, poco rilevando
la estenzione effettiva della occupazione.
Il
26 aprile il generale Cadorna ordinò il rimpatrio della 44a Divisione
Tra
il 31 maggio e l’8 giugno iniziarono le operazioni per il ritentro in Italia.
Queste operazioni non sono non rilevate dal Comando austriaco di Cattaro,
attraverso la azione di ricognizione ed esplorazione svolta a mezzo di
idrovolanti. In breve viene inviato in missione di intercettazione il
sommergibile U 5, al comando del tenente di vascello Friedrich Schlosser, che
si pone in agguato nell’area antistante Valona. L’8 giugno 1916 il 55°
Reggimento fanteria inizia, con i suoi reparti, l’imbarco sulle navi. Sul
“Principe di Piemonte”, al comando del
Comandante Giuseppe Sartorio, da Genova coadiuvato dal tenente di vascello
Edoardo de Sanctis, si imbarca il Comando del Reggimento al completo, il I ed
il II battaglione (sei compagnie) più la 11a e la 12a compagnia del III
Battaglione, per un totale, compreso l’equipaggio, di 2821 uomini. Sul
piroscafo “Ravenna” si imbarcano le restanti
compagnie (9a e 10a compagnia del III Battaglione), le salmerie ed il carreggio
con i restanti ufficiali e truppa del reggimento. Nella serata dell’ 8 giugno
si forma il convoglio, composto da nove unità: Esploratore “Libia”, i
Cacciatorpediniere “Insidioso”, “Esepro” e “Pontiere” ed “Impavido”, i due
piroscafi trasporto truppe, “Principe Umberto” e “Ravenna” ed altre due navi
dirette a Gallipoli e Taranto. Il convoglio prende la rotta per l’Italia, con
rotta verso sud-ovest, alle 19.00 dell’8 giugno 1916. La navigazione procede
tranquilla ed il “Principe Umberto” accelera per raggiungere la velocità di
crociera. Alle 20, 45, con ancora in vista le luci di Valona, l’U 5, quasi per
caso, all’altezza di capo Linguetta, intravede al periscopio le navi italiane
ed attacca immediatamente il “Principe Umberto”. Gli lancia contro due siluri,
di cui il primo va a vuoto ed il secondo colpisce il piroscafo a poppa facendo
esplodere le caldaie; il piroscafo si spacca in due tronconi e in pochi minuti
affonda. Dei 2821 uomini a bordo, se ne salvano 895; i rimanenti 1926 seguono
la nave sul fondo. Nei giorni successivi il mare depositerà sulle spiagge di
Valona innumerevoli corpi, irriconoscibili, che vengono sepolti ai margini
della litoranea; nel depoguerra saranno traslati al Cimitero dei Caduti
d’Oltremare di Bari.
Fra
i superstiti vi è il Capitano Luigi Cova, nato a Treviso l’11 novembre 1891,
che in una lettera ai famigliari così diescrive la tragedia di cui fu
protagonista:
“..Non vi so descrivere che successe all’atto
del siluramento: erano oltre 2000 persone che urlavano, che invocavano aiuto,
che piangevano, che inpazzivano, che si sparavano, che si abbracciavano per
morire… Che strazio! In mezzo a tutta questa scena orrenda, il mio spirito però
rimase imperplesso e passato l’attimo di indecisione sul da farsi, mi
precipitai in una lancia vicina….Non appena montato, un disperato, taglia il
capo solo delle funi di sostegno; la lancia si rovescia e tutti facciamo un
volo di 12 metri in mare. In tale frangente molti soldati andaro a sbattere
contro il fianco della nave ancora in moto, altri contro altre scialuppe
ridotte a pezzi, altri ancora che non sapevano nuotare trovarono la morte
immediata in acqua. Non so come e perché io in tale volo non riportassi che una
contusione al polso destro, un’altra al braccio sinistro ed una terza forse più
pericolosa al costato destro. Ad ogni modo la forza della disperazione mi
sostenne e nonostante fossi completamente vestito e non indossassi il
salvagente, mi mantenni a galla per tre quarti d’ora. In cinque minuti il
povero “Principe Umberto”colava a picco ed il mare ingoiava migliaia di persone;
sullo specchio d’acqua debolmente illuminato dalla luna non si vedeva che ombre
nere che lottavano con la morte, il silenzio del mare tranquillo era rotto
dalle voci che imploravano aiuto, che disperatamente chiamavano la mamma, la
moglie i figli…..Io cercavo un rottame di legno qualsiasi per poter resistere
più a lungo in mare. La fortuna mi assecondò: m’incontrai con il capitano
Marcias ed un soldato della mia compagnia che erano appoggiati ad una tavola;
mi unii a loro e così riposando ora sul braccio sinistro, ora sul destro potei
assicurare la mia salvezza. Le due torpediniere di scorta non appena la nave fu
silurata cercarono il sottomarino infame, ma non riuscirono a catturarlo, dopo
di che corsero in aiuto ai naufraghi.
Io fui raccolto dopo ben tre quarti d’ora di
bagno dalla torpediniera “Espero” ove mi furono prodigate le prime amorose
cure.. Poco dopo giunse anche il capitano Ghirardi pesto alle ossa; ci
abbracciammo e piangemmo a lungo. Al ritorno al porto di Valona, ove giungemmo
verso le 2 di notte, ci trasbordarono sul piroscafo “Vittorio Emanuele” ove trovammo
il comandante la piazza di Valona, Tenente Generale Piacentini, il quale mi
strinse la mano e mi ammirò perché mentre salivo a bordo, seppure a stento,
fumavo avidamente una sigaretta regalatamida un marinaio. Era l’eccitazione del
momento che mi faceva forte: durante la notte mi accorsi di stare male, febbere
altissima, delirio… Dei 220 uomini della compagnia sono rimasto con 82, ho
perduto tutti gli
ufficiali”[4]
[2]
Caduto per siluramento del Piroscafo “Principe Umberto”.
[3]
Il Regio Corpo speciale italiano destinato ad operare in Albania” assunse nel
marzo del 1916 la consistenza di un Corpo d’Armata, il XVI, al comando del generale
Settimio Piacentini, con Capo di SM il colonello Guglielmotti. composto da tre
divisioni, la 38°, la 43° e la 45a Divisione.
La composizione ordinativa
delle divisioni era la seguente:
. 38a Divisione, al comando
del gen. Bandini:
.. Brigata “Savona” (15° e 16°
Reggimento fanteria)
.. Brigata “Puglie” (71° e 72°
Reggimento fanteria)
.. I Raggruppamento misto
artiglieria
.. tre reparti mitragliatrici
speciali
.. una compagnia genio
.. Servizi divisionali
. 43a Divisione, al comando
del gen. Farisoglio:
.. Brigata “Marche” (55° e 56°
Reggimento fanteria)
.. Brigata “Arno” (213° e 214°
Reggimento fanteria)
.. II Raggruppamento misto
artiglieria
.. III Raggruppamento
artiglieria
.. tre reparti mitragliatrici
speciali
.. una compagnia genio
.. Servizi divisionali
. 44a Divisione, al comando
del gen. Bertotti:
.. Brigata “Verona” (85° e 86°
Reggimento fanteria)
.. Brigata “Tanaro” (203° e
204° Reggimento fanteria)
.. IV Raggruppamento misto
artiglieria
.. tre reparti mitragliatrici
speciali
.. una compagnia genio
.. Servizi divisionali
. Unità alle dirette
dispendenze del Comando del C.d’A:
.. 10° Reggimento bersaglieri
.. 15° Reggimento Cavallegeri
di Lodi
.. Squadrone sardo
.. quattro reggimenti di
Milizia Territoriale
.. V Raggruppamento misto
artiglieria
[4]
Cfr. http//55fanteria.it/testimonianze.html
mercoledì 28 giugno 2017
La NATO a 29 Membri
Ventinovesimo Stato Nato: Montenegro, segnale positivo per Balcani Valbona Zeneli 27/06/2017 |
Il contributo militare apportato alla Nato, con forze armate di appena 2.000 unità, potrebbe essere limitato. Con una spesa per la difesa di circa 55 milioni di euro all’anno, il nuovo membro pagherà all’Alleanza una quota annuale minima: 450.000 dollari, solo lo 0.27% del bilancio totale della Nato.
Dimensioni militari e politiche
Bisogna però ricordare che la Nato non è solo un'alleanza militare, ma ha anche un’importante dimensione politica. Il Montenegro, grazie alla sua posizionesull’Adriatico, è considerato un alleato strategico. D'altra parte, il Montenegro s’è già rivelato un partner affidabile per la Nato, essendo stato molto attivo con il suo sostegno in Afghanistan.
L'adesione del Montenegro è la prima espansione atlantica negli ultimi otto anni, dopo l'allargamento del 2009 con l'Albania e la Croazia. Essa manda alcuni segnali molto significativi.
L'adesione all'Alleanza, avvenuta il 5 giugno 2017, è un riconoscimento formale del progresso del Montenegro, che negli ultimi anni ha soddisfatto una serie di criteri e raggiunto gli standard richiesti dalla Nato. Tuttavia, l'adesione all'Alleanza non dovrebbe segnare un punto d’arrivo, ma al contrario essere un ulteriore incentivo ad accelerare il processo di trasformazione del Paese per quanto riguarda la lotta contro la corruzione, il progresso economico e lo stato di diritto.
Un obiettivo dall’indipendenza
È positivo che il Montenegro abbia raggiunto con successo uno dei principali obiettivi della sua politica estera dalla sua indipendenza nel 2006. L'adesione alla Nato è una garanzia di stabilità e sicurezza per il Paese. Questo è particolarmente importante per un Paese con risorse limitate, che può trarre vantaggi dalla cooperazione all’interno della Nato, sfruttando la condivisione di risorse, competenze e informazioni. D'altra parte è stato dimostrato che, anche se la Nato non è un'alleanza economica, essa è capace di fungere da catalizzatore dello sviluppo economico e fornisce un senso di sicurezza e di prevedibilità agli investitori, in particolare a quelli stranieri.
Peculiarità di un’adesione
L'adesione del Montenegro alla Nato presenta alcune peculiarità. A differenza di quanto avvenuto per gli altri nuovi Membri, il processo di integrazione non è andato in porto senza contestazioni. Anche se il sostegno all’Alleanza dell’opinione pubblica nazionale è aumentato significativamente negli ultimi anni, raggiungendo un tasso di approvazione del 48%.
Tuttavia, i cittadini rimangono ancora divisi sulla questione. Alcuni politici dei partiti d’opposizione - dominati dai serbi e apertamente pro-Russia - sono stati addirittura accusati di un tentativo di colpo di stato, fallito, per impedire al Montenegro di aderire alla Nato. Infatti, l’opposizione ha boicottato il Parlamento dalle ultime elezioni e ha chiesto un referendum popolare sulla questione.
L’ostilità della Russia all’operazione
Il Cremlino si è opposto apertamente all'adesione del Montenegro, definendola una "provocazione" contro la Russia, che sta riprendendo un gioco geo-politico nei Balcani occidentali. In realtà, l'adesione del Montenegro non dovrebbe essere vista come una provocazione alla Russia, o come un atto destinato a peggiorare le relazioni con un Paese con cui ha stretti legami storici, religiosi, culturali ed economici.
Infatti, la Russia è un partner economico molto importante, che rappresenta il 30% degli investimenti stranieri. Anche se la decisione di aderire alla Nato arriva in un momento di tensioni elevate nelle relazioni tra l’Alleanza e la Russia, in realtà è il risultato di un processo avviato da tempo. Ed è un passo naturale per una Paese che ha scelto di essere integrato nelle strutture euro-atlantiche.
Le ripercussioni sui Balcani
Questa decisione ha una notevole ripercussione sull’intera regione dei Balcani occidentali e lancia un chiaro messaggio ai Paesi che si sono già messi in coda per entrare nell’Alleanza. Ancora una volta, dalla creazione nel 1949, è stato attuato con successo uno dei principali pilastri della Nato: la "politica delle porte aperte” integrata nell'articolo 10 del Trattato di Washington.
È un segnale importante per mantenere i Balcani occidentali nel loro percorso euro-atlantico, anche se, purtroppo, gli ultimi anni quei Paesi sono stati attraversati da dubbi, sfide e sconfitte. Questo è un segnale forte per i paesi che vogliono avanzare nel processo di integrazione sia con la Nato che con l'Ue.
L'adesione della Macedonia è stata mantenuta bloccata per un lungo tempo a causa della controversia con la Grecia sul nome del Paese ex-jugoslavo. Oggi la situazione è ancora più complicata a causa dei turbamenti politici degli ultimi anni, con potenziali ripercussioni anche sui rapporti etnici all’interno del Paese, che hanno provocato un grave rallentamento nel processo delle riforme democratiche.
La Bosnia-Herzegovina, è un altro Paese aspirante, anche se è tuttora impegnata nella gestione delle sue questioni interne irrisolte.Sta infatti aspettando il piano d'azione per l'adesione, salvo la risoluzione della questione sulle proprietà immobiliari della difesa, un processo bloccato dalla Repubblica Srpska.
La Nato e la trasformazione dell’Europa dell’Est
L'allargamento della Nato è stato uno dei pilastri più importanti della trasformazione nell'Europa dell’Est. Oggigiorno, la stabilità e la democrazia nei Balcani occidentali non possono più essere date per scontate. La pace è la stabilità sono ancora fragili, soprattutto a causa del mancato progresso democratico ed economico nei Paesi della regione.
La Russia si sta impegnando nei Balcani occidentali, sfruttando le vulnerabilità istituzionali, la corruzione pubblica, la divisione politica e lo scetticismo della popolazione su un futuro migliore. Il Cremlino sta utilizzando degli strumenti ibridi, come l’influenza economica e mediatica, per sfruttare stereotipi regionali, tensioni etniche e questioni non risolte relative ai conflitti degli Anni '90. L'obiettivo principale è quello di indebolire le relazioni dei Balcani occidentali con l'Occidente, ostacolando il processo di allargamento euro-atlantico, mirando alla creazione di una "zona non-allineata".
La Nato è il fondamento dell'unità transatlantica. L'Alleanza è considerata dal 61% degli europei e dal 58% degli americani l'organizzazione essenziale per la difesa e la sicurezza su entrambi i lati dell'Atlantico. Altri Paesi stanno aspirando a diventare membri di questa “famiglia”. La verità è che le realtà del "mondo dell'articolo 5", dopo i conflitti del 2014 in Ucraina, stanno portando grandi cambiamenti al processo di allargamento. Forse, dopo l’adesione del Montenegro, vedremo un'altra lunga pausa nel processo di allargamento.
Valbona Zeneli è professore di National security studies e direttore di Black Sea Eurasia Program presso il George C. Marshall European Center for Security Studies. Le opinioni espresse sono personali dell’autore e non rappresentano le opinioni del Department of Defense, the George C. Marshall European Center for Security Studies, o dei governi degli Stati Uniti o della Germania.
martedì 23 maggio 2017
Difesa Europea ed Italia
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Sempre più convergenza tra Francia e Germania Macron è probabilmente il presidente francese più favorevole all’idea di un’Europa della difesa nella storia dell’Ue. Combinando questo elemento con il venire meno causa Brexit del freno britannico e con un ruolo sempre maggiore della Germania nella sicurezza del Vecchio Continente - chiunque vinca le elezioni politiche tedesche il prossimo settembre - si ha un quadro politico (e geopolitico) inedito per l’Unione. Un quadro positivo che potrebbe dare slancio e concretezza a progetti di cooperazione e integrazione da tempo discussi nelle istituzioni europee e nelle capitali. Francia e Germania hanno certamente visioni in parte diverse sulla difesa europea. Tuttavia negli ultimi anni è aumentata la convergenza tra i due Paesi; e probabilmente aumenterà ancora di più con un presidente francese che già in campagna elettorale aveva affermato la necessità di cooperare con Berlino. Se la Commissione finanzia la ricerca nella difesa Inoltre, i Paesi Ue si muovono in un quadro che vede sempre più attive le istituzioni dell’Unione, anche grazie all’attuazione della EU Global Strategy. La Commissione europea sta procedendo alla messa in pratica del piano di azione (European Defence Action Plan – Edap) che segna un passo importante nella politica industriale e di innovazione tecnologica dell’Ue. Infatti, per la prima volta nella storia dell’Unione, viene finanziata direttamente la ricerca nel campo della difesa, con lo stanziamento di 90 milioni di euro nel 2017-2019 per la Preparatory Action on Defence related Research (Padr) e la previsione di 500 milioni di euro l’anno per il prossimo esercizio finanziario 2021-2027. La Commissione si era già costruita un ruolo importante del mercato della difesa europeo sul piano regolatorio con le direttive del 2009 sui trasferimenti intra-comunitari ed il procurement militare. Ruolo guardato con una certa insofferenza da alcuni stakeholder, in quanto visto come un pungolo ad adottare logiche di concorrenza ed efficienza in un settore precedentemente escluso dalle regole del mercato unico. Ma la Commissione non pretendeva di decidere quale sistema d’arma finanziare, produrre o acquistare: definiva piuttosto regole generali, rispondenti ad un interesse comune europeo, e quindi più accettabili anche se, a volte, in contrasto con alcuni Stati membri. Inoltre, per ora, la Commissione ha dimostrato un’ampia tolleranza sul terreno del l’‘enforcement’, anche se ha annunciato un prossimo cambio di passo. Tra governi nazionali e interessi europei Ora il discorso si fa più delicato e complicato per il ruolo della Commissione, e soprattutto per il rapporto con i governi nazionali da un lato e con gli interessi comuni europei dall’altro. Nella Padr, e più ancora nel prossimo bilancio Ue, vi saranno finanziamenti significativi da allocare a fronte di domande verosimilmente maggiori, per quantità e volume, da parte degli attori nazionali, e occorrerà scegliere cosa e chi finanziare - e a chi negare invece i fondi stanziati dal bilancio dell’Unione. Ciò accade già in molti altri campi che godono di fondi Ue, incluso quello della sicurezza dove da più di dieci anni la Commissione finanzia progetti di ricerca e innovazione tecnologica sulla protezione delle infrastrutture critiche piuttosto che sulla risposta ad attacchi chimici o biologici, il contrasto al crimine organizzato o al terrorismo e più di recente la sicurezza cibernetica e la protezione dei confini dell’Unione. C’è quindi una vasta esperienza cui attingere, in termini di normativa, organizzazione o buone prassi. Tuttavia, il campo della difesa presenta una propria specificità e sensitività politica che dovrà essere presa in considerazione, in quanto si tratta di finanziare lo sviluppo di tecnologie che serviranno alle forze armate dei Paesi europei nelle loro operazioni militari. L’asse franco-tedesco, Bruxelles e Roma Qui il piano istituzionale e tecnico incrocia di nuovo quello politico e geopolitico. Il lavoro della Commissione sull’attuazione dell’Edap, per quanto segua sue logiche di lungo periodo, tecnocratiche e sovranazionali, sarebbe inevitabilmente influenzato da una maggiore convergenza franco-tedesca nel campo della difesa. Se i due Paesi Ue che, dopo l’uscita della Gran Bretagna, rappresenteranno una quota ampiamente maggioritaria sia delle capacità militari che di quelle industriali e tecnologiche andranno verso determinate direzioni e scelte, è molto probabile che queste ultime diventino il punto di riferimento anche per il ruolo delle istituzioni Ue in questo settore. È in questo nuovo quadro che l’Italia deve aggiornare e approfondire l’aspetto europeo della sua politica di difesa, inclusa la dimensione industriale e tecnologica - tema peraltro al centro del convegno IAI in programma a Torino il prossimo 19 maggio. Una probabile convergenza in chiave europeista tra Berlino, Parigi e Bruxelles presenta nuove opportunità per Roma di inserirsi con proposte funzionali ai propri interessi nazionali oltre che a quelli europei. Ma presenta anche il rischio per l’Italia di restare solo spettatrice delle rapide scelte altrui, se non sarà in grado di influenzare tempestivamente scelte comuni. Guardando laicamente al fatto che anche il leader straniero più europeista non avrà mai come sua priorità quella di aiutare l’Italia, e che le istituzioni Ue faranno quello che potranno per l’Unione nel suo insieme, resta sempre valido il vecchio detto “aiutati che Dio t’aiuta”. Alessandro Marrone, Responsabile di Ricerca Programma Sicurezza e Difesa; Twitter @Alessandro__Ma. |
martedì 9 maggio 2017
1866 Quatro Battaglie per il Veneto. Il Piano di Garibaldi
Di seguito lo schema grafico del piano di Giuseppe Garibaldi del 1866
Aveva come base l'idea di inviare 3000 volontari nell'area di Trieste. Dopo sbarcati operare nelle montagne restrostanti a ridosso delle vie di comunicazione cercando di prendere contatto con i Patrioti ungheresi contrari all'Austria. Tutto si basava sulla rete delle Logge Massoniche opportunamente allertate.
Un piano diversivo prevedeva lo sbarco di oltre 10000 uomini in Dalmazia che avrebbero dovuto procedere verso nord e cercare di collegarsi con le forze sbarcate a Trieste
Il piano, sostenuto dalla Prussia che lo giudicava ottimo, non fu accettato dallo Stato Maggiore Italiano, per tema che Giuseppe Garibaldi, già popolarissimo per via della Spedizione di Mille acquisisse ulteriore popolarità nei confronti delle forze monarchico-liberali su cui si poggiva il Governo Lamarmora.
Per impiegare in qualche modo Giuseppe Garibaldi ed i suoi volontari
gli fu assegnato il fronte ad occidente del lago di Garda. Un fronte assolutamente inutile e strategicamente insignificante, a conferma della emarginazione che nel 1866 Garibaldi e tutto il movimento progressista mazziniano subiva.
Il risultato di queste scelte fu che i volontari garibaldi operarono senza poter
influire sulle operazioni principali
con il risultato di non incidere positivamente sull'esito della guerra
1866 Quattro Battaglie per il Veneto
Si riporta la Prefazione di Giancarlo Ramaccia al Volume
di Massimo Coltrinari
"Quattro battaglie per il Veneto"
di prossima edizione
Prefazione
Il 20 giugno 1866 fu consegnata all’arciduca Alberto
d’Asburgo, comandante supremo delle forze austriache dislocate in Italia, la dichiarazione
di guerra del Regno d’Italia, che fissava al giorno 23 del medesimo mese
l’inizio delle ostilità. Come al solito entrammo in guerra con tre giorni di
ritardo dalla dichiarazione e sei giorni dall’inizio delle ostilità rispetto a
quanto precedentemente pattuito con il nostro alleato prussiano. Tale ritardo non
poteva che irritare notevolmente e aumentare la diffidenza dei vertici
politico-militari di Berlino, che già di loro dubitavano delle buone intenzioni
dei vertici del giovane Regno d’Italia.
In ogni caso la dichiarazione di guerra, presentata
all’impero austro-ungarico, fu accolta nel paese con grandi manifestazioni di
consenso, accese grandi aspettative nella popolazione e produsse una straordinaria
eccitazione patriottica, come ben documenta, nel suo diario, Sidney Sonnino,
allora giovane ed entusiasta patriota toscano: “Gran giorno per l’Italia! Per la prima volta in tutta la sua storia
essa si solleva tutta a rivendicare sola il suo diritto! Mai, mai si è visto un
fatto simile. Felici noi che vi assistiamo!”[1]. Per il Sonnino, come per molti se non per
tutti, la nuova guerra sarebbe stata breve e vittoriosa. In nessun caso si
valutarono le conseguenze di una possibile sconfitta. Dopo le non brillanti
vicende militari degli anni precedenti, come la guerra del 1848/49, il buon
senso avrebbe dovuto suggerire una valutazione
“più cauta” da parte dei vertici politico-militari italiani. Invece, l’essere
sconfitti risultava impensabile e inaccettabile da tutti gli appartenenti al
nostro ceto dirigente, anche perché le conseguenze politiche erano troppo
spaventose da sostenere per il giovane e debole Stato unitario. Poi gli
Austriaci non combattevano su due fronti? Il nuovo esercito italiano contava
ora ben venti divisioni e non più le cinque piccole divisioni del Regno di
Sardegna della guerra precedente. La nostra flotta era il doppio di quella
austriaca e con un numero maggiore di
corazzate, dodici contro le sette austriache, quindi sulla carta e solo sulla
carta il Regno d’Italia aveva tutti i numeri e il diritto di aspettarsi una
vittoria. Anche per questo motivo ciò che avvenne nelle settimane successive fu
traumatico e profondamente doloroso per tutto il Paese.
Per comprendere al meglio la situazione si deve ampliare il
quadro alle vicende politiche degli anni precedenti e agli enormi problemi che
il giovane Stato dovette affrontare. Ben cinque furono le questioni principali
e tutte intrecciate tra loro, ossia: il brigantaggio in larga parte del Paese;
la crisi economica; la morte del Conte di Cavour; la questione romana e la
conseguente crisi dei rapporti con la Francia, in particolar modo con
l’imperatore Napoleone III; la costruzione del nuovo Esercito unitario.
Tralasciamo le questioni minori ma che minori, per il giovane nascente Stato
unitario, non furono.
Il 15 febbraio 1861 il Re delle Due Sicilie Francesco II di
Borbone, proclama la resa della fortezza di Gaeta dove si era rifugiato dopo le
sconfitte subite ad opera dell’armata garibaldina e il successivo intervento
sabaudo, imbarcandosi, dopo una lunga trattativa diplomatica, su una nave
francese che lo porterà a Roma dove rimarrà in esilio, ospite di Papa Pio IX.
Solo dopo il gen. Cialdini potrà occupare la cittadina laziale che ha assediato
e bombardato per ben 102 giorni. Successivamente anche le guarnigioni
borboniche della cittadella di Messina e quella di Civitella del Tronto (A.P.)
si arrenderanno definitivamente, ma nuclei rimasti fedeli a Francesco II continueranno
a combattere unendosi a bande di contadini poveri e briganti, dando vita a una
lunga guerriglia a cui si darà il nome di “brigantaggio”.
Questa insorgenza sociale era frutto di povertà endemica, di
patti agrari esosissimi, di nuovi inasprimenti fiscali, di una nuova ed errata
leva obbligatoria che provocò una disperata guerriglia dei contadini contro i
proprietari terrieri e il nuovo governo “piemontese” che fu abilmente sfruttata
politicamente da chi desiderava restaurare il Regno delle Due Sicilie. La
rivolta armata scoppiò nell’aprile del 1861 in Basilicata e si estese a quasi
tutto il meridione continentale.
Il nascente Regno d’Italia provò inizialmente a mediare
politicamente con i legittimisti borbonici, nel tentativo di contenere il
fenomeno, poi diede seguito ad una feroce e indiscriminata repressione. Migliaia
di insorti, alzando le bandiere bianche borboniche, occuparono province e
paesi, trucidando cittadini comuni, guardie nazionali e scontrandosi con i
soldati italiani. La risposta fu durissima da parte dello Stato unitario:
fucilazioni indiscriminate e senza alcun processo, interi paesi bombardati e
incendiati, deportazioni di massa; tutto ciò accrebbe l’ostilità della
popolazione meridionale nei confronti del nuovo Regno, di “quello dei
piemontesi”. Se i soldati impiegati nel meridione furono non più di 50.000 nel
1861, solo tre anni dopo se ne impiegarono 120.000, ossia circa il 50% delle
forze armate dello Stato. Esse svolsero prevalentemente compiti di ordine pubblico
e di polizia, tralasciando l’addestramento e la preparazione militare, per
dedicarsi, a tempo pieno, a combattere e reprimere questa vera e propria guerra
civile. I dati ufficiali ci dicono che tra il 1861 e il 1865 (un anno prima
dell’inizio della terza guerra di indipendenza) furono uccisi in combattimento
o fucilati 5.212 “cosiddetti briganti” e altri 5.000 furono arrestati e carcerati, ma i dati
ufficiosi parlano e raccontano un’altra verità, ossia di ben 15.000 o 20.000
uomini eliminati. Ciò produsse una lacerazione nel tessuto politico e sociale
di cui a tutt’oggi ne riscontriamo le conseguenze. A questo gravissimo problema
si aggiunse, per il nuovo Stato – che si era costituito a Torino il 18 marzo
1861 con la proclamazione da parte del primo parlamento italiano del Regno
d’Italia – una serie di gravissimi problemi finanziari.
Essi erano il frutto dei costi per l’unificazione nazionale
che comprendevano le spese sostenute per le guerre di unificazione con
l’aggiunta del consolidamento dei debiti ereditati dai periodi precedenti e
dovuti ai sette Stati pre unitari e alle ben nove amministrazioni finanziarie
che avevano sistemi monetari diversi, diversi modi di contabilizzare oltre a
diversi criteri di imposizione fiscale e di riscossione delle imposte. Sommando
tutti questi costi risultò, per il nuovo Stato, un debito pubblico esorbitante,
ossia 111.500.000 lire. A questa enormità si dovette far fronte con soluzioni
che risultarono non risolutive ed efficaci, anzi aggravarono ulteriormente la
già difficile situazione economica.
Allo scoppio della guerra dell’ottantasei questo problema
parve addirittura insormontabile, con le entrate effettive dello Stato che coprivano
appena i due terzi delle uscite e con una sicura prospettiva di incremento,
dovuta alle nuove spese che si dovevano sostenere per la nuova guerra.
All’enorme disavanzo si provvedeva con l’emissione di nuovi titoli di debito a
copertura dei prestiti esteri, proprio nel momento in cui una crisi economica
gravissima si abbatteva sui mercati borsistici europei (Borsa di Londra e
Parigi) dovuta in gran parte agli enormi prestiti americani per la guerra di
secessione e al pagamento delle grandi quantità di cotone importate dall’India,
tra il 1861 e il 1865, per il fermo di produzione del mercato americano.
Inoltre il clima di conflitto che si respirava in tutte le cancellerie d’Europa
creava la giusta miscela per la caduta delle quotazioni dei titoli nelle
principali Borse europee.
Il 6 giugno 1861 il nuovo Regno d’Italia perse il suo
principale artefice, dopo una brevissima malattia, muore a Torino, improvvisamente,
il presidente del Consiglio dei Ministri Camillo Benso conte di Cavour. Egli
era lo stratega, il politico più grande che il nostro Stato unitario abbia mai
avuto, perché pur lasciando alla sua morte fedeli sostenitori del progetto di
unificazione del Paese, non lasciò un vero e proprio erede, nessuno dei suoi
seguaci era in grado di elaborare una strategia per il completamento
dell’unione territoriale e costruire un nuovo Stato alla base di una comunità
ampliata e solidale. Si dà inizio ai governi “brevi” (ben sei ministeri si
succedettero dal 1861 al 1866), a governi che “navigano a vista” con politiche
miopi e di breve durata, incapaci di elaborare e perseguire una strategia di
lungo periodo.
Cavour, invece, nei mesi precedenti alla malattia, aveva
cercato di definire nei confronti della questione romana una netta posizione
governativa. In due discorsi alla Camera, sostenne che solo Roma poteva
ricoprire il ruolo di capitale d’Italia e che era necessario procedere alla sua
liberazione per unire e cementare le diverse popolazioni italiche, ma che ciò
doveva avvenire con “l’accordo” della Francia e senza mai intaccare la libertà
spirituale e l’indipendenza del sommo pontefice. In cambio della cessione del
potere temporale, al pontefice verrebbe corrisposta una cospicua rendita annua.
Era questo il modo di recuperare i rapporti diplomatici con la Francia e in
particolar modo quelli con l’imperatore Napoleone III, dopo le tensioni dovute
all’assedio di Gaeta.
In linea con questa impostazione, il suo successore al
governo Bettino Ricasoli redige un progetto di conciliazione che invia
rispettivamente alla Cancelleria francese e a quella dello Stato pontificio; ma
tale progetto ottiene un netto rifiuto francese ad aprire una qualsiasi
trattativa su quella base.
Nel 1862 a seguito di una delle tante riconciliazioni tra
Garibaldi e Mazzini e con l’appoggio dell’associazione emancipatrice italiana
si progetta una spedizione di volontari a Roma e subito alcuni ufficiali
garibaldini cominciano a raccogliere i volontari. Nel mese di giugno Giuseppe
Garibaldi si reca come privato cittadino in Sicilia ed è accolto da grandi
manifestazioni popolari e affermando la necessità di una spedizione armata per
liberare Roma pone la condizione di trovare un accordo con il re Vittorio
Emanuele II. A Marsala promuove il giuramento “o Roma o morte” e subito l’associazione emancipatrice
italiana fa sua la parola d’ordine e aderisce al giuramento. Alcune settimane
dopo, trasferitosi a Palermo, Garibaldi organizza la legione romana e annuncia
di muovere contro lo Stato pontificio al grido di “Italia e Vittorio Emanuele,
o Roma o morte”. Una grave crisi si profila all’orizzonte con la Francia,
ostile e pronta all’intervento in difesa dello Stato pontificio. Al governo
italiano non resta che decretare (20 agosto) lo stato d’assedio nelle province
napoletane e inviare truppe regolari dell’esercito, al comando del colonnello
Pallavicini di Priola, per bloccare la spedizione. Durante un breve conflitto
sull’Aspromonte, nient’altro che una scaramuccia, Garibaldi, che era al comando
di 1.300 volontari, viene ferito al piede e si arrende, venendo posto agli
arresti. Al diffondersi della notizia, che provoca una grande emozione non solo
in Italia e violente manifestazioni antigovernative, il Rattazzi cerca senza
riuscirci di forzare i tempi di una soluzione diplomatica e infine il 20
novembre 1862 si rassegna e presenta le sue dimissioni dal ministero. I
rapporti con la Francia diventano di nuovo gelidi. Segue un lungo lavorio
diplomatico per ricostruire i rapporti che permetteranno di stipulare un
trattato di libero scambio (17 gennaio 1863) tra i due paesi e nell’anno
successivo di gettare le basi di un accordo sulla questione romana. Gioacchino
Pepoli, inviato dal nuovo governo presieduto da Marco Minghetti, avanza l’idea
di trasferire la capitale d’Italia da Torino ad un’altra città, come segnale
dell’abbandono del progetto di fare Roma capitale d’Italia e in cambio chiede
alla Francia di procedere al ritiro graduale delle sue truppe di stanza nello
Stato pontificio. L’accordo verrà raggiunto ed a Parigi, nell’agosto del medesimo
anno, si procederà alla firma “della convenzione di settembre” (15 settembre
1864), che prevedeva il ritiro delle truppe francesi da Roma nell’arco dei
successivi due anni, per dare il tempo al governo papale di costituire un suo
esercito. In cambio il Regno d’Italia si impegna a rispettare l’integrità dello
Stato pontificio. E’ questo un incredibile gioco delle parti, dove tutto è
ambiguo, infatti i francesi interpretano l’accordo come una rinuncia definitiva
da parte italiana del progetto di Roma capitale, mentre per noi Italiani è
null’altro che il primo passo verso la soluzione delle controversie con la
Francia e un avvicinamento a Roma. Solo Pio IX esprime delusione e manifesta
nuove paure.
Sul versante internazionale ferve la controversia tra la
Prussia e l’Austria sulla sorte dei ducati dell’Holstein, dello Schleswig e del
Lauenburg di proprietà personale del re di Danimarca e che le due potenze hanno
occupato. Entra nel vivo il conflitto, per molti anni latente tra la Prussia e
l’Austria, per il primato e l’egemonia sulla Confederazione degli Stati
tedeschi.
Otto von Bismarck, presidente del Consiglio prussiano, che
già nel 1862 aveva sondato il ministro italiano a Berlino, Da Launay sulla
possibilità di una alleanza italo-prussiana, incarica il suo ministro a Firenze
Conte Usedom di sondare il capo del governo Alfonso Ferrero La Marmora in
relazione a quale atteggiamento avrebbe assunto il suo governo nel caso di una
probabile guerra tra la Prussia e l’Austria. La Marmora risponde che non può
prendere nessun impegno senza prima conoscere quale atteggiamento sarebbe stato
a sua volta preso dalla Francia in merito a tale questione. Per questo motivo
incarica il ministro italiano a Parigi, Costantino Nigra, di sondare sulla
questione il ministro degli Esteri francese Drouyn de Lhuys, il quale suggerì
“prudenza e di attendere gli eventi”. Bismarck, insoddisfatto della risposta
italiana e soprattutto dell’atteggiamento ambiguo dell’Imperatore francese
Napoleone III decise, provvisoriamente, di stipulare la Convenzione di Gestein
con l’Austria, conservando quindi per la Prussia l’amministrazione del ducato
dello Schleswig e lasciando all’Austria il ducato dell’Holstein.
Successivamente all’incontro di Biarritz, tra Napoleone III e Bismarck, dei
primi di ottobre del 1865, Bismarck rassicurato riprese la politica che mirava
ad arrivare alla guerra e ad unificare la nazione tedesca con lì esclusione
dell’Austria. Probabilmente in questo incontro Napoleone III sperò di ottenere
un ingrandimento territoriale della Francia sul Reno e sul Belgio, promettendo
di mantenere la neutralità nel conflitto tra Prussia e Austria, mentre Bismarck
chiese a sua volta l’intervento dell’Italia nel prossimo conflitto, che mirava
a conquistare il Veneto (già promesso da Napoleone III) dal 1859 e poter
attaccare su due fronti l’Austria, come era stato progettato nel Consiglio
della corona prussiana del 29 maggio 1865. A questo accordo verbale fece
seguito da parte di La Marmora un tentativo
di trattativa diretta con l’Austria per ottenere la cessione del Veneto,
contando molto sulla minaccia di una
guerra sui due fronti per ammorbidire l’intransigenza austriaca.
Nell’ottobre del 1865 incaricò un suo rappresentante personale, il conte
reggiano, Alessandro Malaguzzi – Valeri, che aveva autorevoli amici e parenti a
Vienna, di intraprendere una trattativa segreta con il conte Belcredi,
presidente del Consiglio austriaco, per la cessione del Veneto a fronte di una
indennità versata dall’Italia di un miliardo di lire. Pur riscontrando da parte
del governo austriaco un interesse favorevole alla proposta, la dura
opposizione dell’imperatore Francesco Giuseppe e della sua corte fece fallire
la trattativa. Non restava altro che seguire i consigli francesi che invitavano
ad orientarsi verso la politica antiaustriaca di Bismarck.
Il 31 dicembre 1865, Alfonso Ferrero La Marmora costituisce
il suo secondo ministero, dopo una lunga e difficile crisi di governo nata
dalla sfiducia votata dal Parlamento in relazione al decreto legge relativo al
servizio di tesoreria statale da affidarsi alla Banca Nazionale. Provvedimento
economico che avrebbe aggravato ulteriormente la crisi di debito del Regno
d’Italia. Oltre alla presidenza del Consiglio mantenne per sé il ministero
degli Esteri e chiamò al ministero della Guerra il generale Ignazio di
Pettinengo e ai Lavori pubblici Stefano Jacini che fu il suo più ascoltato
consigliere nella fase preparatoria della guerra.
Nel frattempo i rapporti austro-prussiani si fecero sempre
più tesi e aumentarono le probabilità della guerra. A seguito della decisione
presa dal Consiglio dei Ministri prussiano del 28 febbraio 1866, Bismarck
chiesa a La Marmora di inviare a Berlino un alto ufficiale per trattare
un’alleanza militare. La Marmora scelse di inviare il generale Govone con
l’incarico di verificare la preparazione militare prussiana, che
nell’occupazione dei ducati non aveva particolarmente brillato per preparazione
militare e di restare sul vago sulle questioni diplomatiche. Anche perché il
suo invio era stato sollecitato al governo italiano da parte di Napoleone III
che mirava ad una alleanza tra Italia e Prussia. Napoleone III in questa
complicata partita, dalla quale sperava di acquisire per la Francia
ingrandimenti territoriali, con il consenso della Confederazione germanica
usava l’Italia come una pedina da muovere a suo piacimento sullo scacchiere politico
continentale. Egli voleva che l’Italia ottenesse il Veneto ma senza una guerra
o con una guerra non seriamente combattuta in modo tale che il merito fosse suo
e della Francia; in questo modo mirava ad esercitare sul giovane Regno d’Italia
un semi protettorato. Per lui l’Italia unita doveva diventare una potenza di
rango inferiore, strettamente legata agli interessi politico economici
francesi. L’8 aprile 1866 a Berlino, l’Italia firma un trattato segreto di
alleanza con la Prussia, un trattato a “tempo determinato” valido per soli 3
mesi a partire dalla data della firma apposta per noi dal generale Govone e dal
ministro a Berlino conte Barral. Era questa una alleanza “offensiva-difensiva”
in cui l’Italia si impegnava a dichiarare guerra all’Austria appena la Prussia
avesse iniziato le ostilità; ognuno dei due Stati si impegnò a non concludere
armistizio o pace senza il consenso dell’altra, fino a quando l’Austria non avesse
accettato di cedere il Veneto e la provincia di Mantova all’Italia e alla
Prussia territori equivalenti per popolazione.
Il trattato era squilibrato e a favore della Prussia, non
veniva menzionato il Trentino, per un netto rifiuto di Bismark che lo considerava
parte integrante dell’Impero Austro-ungarico, anche se verbalmente e in
privato, garantiva che avrebbe appoggiato tale richiesta una volta giunti al
tavolo della pace e solo se durante la guerra l’Italia fosse riuscita ad
impadronirsi del territorio. Il trattato era alquanto umiliante per l’Italia
per la sua unilateralità, infatti la Prussia non assumeva nessun impegno nei
confronti dell’Italia. Inoltre un madornale errore di valutazione di La Marmora
complicò la situazione, egli rifiutò la proposta avanzata dal generale Govone
di allegare al trattato una convenzione militare, che avrebbe permesso di
conoscere in precedenza i piani prussiani e quindi di coordinare i propri
impegni sulla effettiva condotta della guerra. Ciò generò ulteriore diffidenza
da parte prussiana sulla reale volontà italiana di condurre la guerra con
impegno ed energia. Era impensabile per i nostri governanti una politica
diversa perché troppo esposti politicamente e finanziariamente con l’ambigua
politica di Bonaparte.
Il 3 maggio 1866 il governo prussiano iniziò la
mobilitazione e a seguito di ciò il 5 maggio il governo austriaco fece sapere a
Parigi di essere disposto a cedere il Veneto a Napoleone III, affinchè tramite
lui fosse ceduto all’Italia a patto che l’Italia rompesse l’alleanza con la
Prussia e si dichiarasse neutrale. La Marmora, colto di sorpresa dall’offerta
austriaca, rifiutò cercando al tempo stesso di guadagnare tempo e proponendo un
congresso internazionale con le principali potenze del Continente per definire
la controversia tra Italia-Prussia-Austria. Questa proposta sfumò
definitivamente alcune settimane dopo quando una nota austriaca (1 giugno)
dichiarò di essere pronta a partecipare al congresso a patto che fossero
esclusi dalle risoluzioni finali modifiche e ingrandimenti territoriali. Il 12
giugno avveniva la rottura definitiva delle relazioni diplomatiche tra Berlino
e Vienna e nello stesso giorno, sempre a Vienna, veniva firmato un accordo tra
l’Austria e la Francia, in base alla quale la Francia si impegnava a rimanere
neutrale nel conflitto che opponeva l’Austria alla Prussia; Napoleone III si
impegnava a sua volta a fare il possibile perché l’Italia restasse neutrale o
conducesse la “guerra senza impegno” e l’Austria a sua volta si impegnava a
cedere il Veneto a Napoleone III al quale garantiva ulteriori compensi
territoriali nel caso di vittoria da parte sua e con modificazioni territoriali
in Germania. Infine Napoleone III si impegnava a sua volta a cedere il Veneto
all’Italia in cambio di una indennità all’Austria e del riconoscimento da parte
italiana del potere temporale dei papi. Il giorno stesso della firma, Napoleone
III convocò il ministro italiano a Parigi, Costantino Nigra, e nel colloquio
che seguì informò ufficialmente di quanto sottoscritto a Vienna e chiese a
Nigra che “l’Italia non facesse guerra con troppo vigore”.
Otto giorni prima della dichiarazione di guerra all’Austria,
per noi la guerra era già vinta . A questo punto il 17 giugno (giorno della
dichiarazione di guerra della Prussia all’Austria) Alfonso Ferrero La Marmora
si dimette da presidente del consiglio restando in ogni caso ministro senza
portafoglio e assume il comando dello Stato maggiore raggiungendo il Re al
fronte. Al suo posto di Presidente del Consiglio subentra Bettino Ricasoli che
ad interim assume anche il ministero degli esteri e quello dell’interno.
Inizia la terza guerra d’indipendenza e dà vita alle sue
battaglie che l’autore del testo, l’amico Massimo Coltrinari, ricostruisce con
perizia e nel dettaglio, con la perizia e la precisione propria dello storico
militare e del militare di carriera, più precisamente dell’ufficiale in
servizio di stato maggiore fedele ai principi e alla filosofia di chi ideò e
progettò tale servizio; ossia uno dei massimi protagonisti di questa guerra il
generale Helmuth Karl Bernhard von Molke capo di stato maggiore dell’esercito
prussiano nella guerra dell’86.
Ogni guerra ha caratteristiche sue proprie e differisce
dalle precedenti, questa ha caratteri suoi peculiari; è la prima del giovane Regno
d’Italia; la forza italiana è quadruplicata in confronto a quella del Regno di
Sardegna, 20 divisioni contro 5; la Cavalleria, anche se pesante, muove 100
squadroni e solo l’artiglieria è poco numerosa, anche se di maggior calibro il
che la rende meno mobile. La deficienza maggiore, per il nostro esercito
riguardava il “quadro ufficiali” fortemente eterogeneo (ciò era dovuto
all’assorbimento nell’esercito sardo dei quadri di diversa provenienza:
borbonica, toscana, dello Stato Pontificio e dell’armata garibaldina) e di
diversa preparazione e capacità militare. In modo particolare mancavano
comandanti capaci a livello di battaglione e di reggimento. I comandanti di
brigata erano personalmente coraggiosi, ma la loro cultura professionale era a
dir poco scarsa. Per non parlare della totale assenza di uno Stato Maggiore e
di vertici politico militari in concorrenza e in contrasto tra di loro. Ai
nostri 258.000 combattenti effettivi (250.000 del Regio esercito più 38.000
volontari garibaldini) su 565.000 uomini mobilitati con 462 cannoni si
opponevano 61.000 combattenti austriaci su 190.000 mobilitati e 152 cannoni,
con un rapporto a nostro favore di tre a uno, eppure non riuscimmo a vincere
sul campo. Non avevamo un piano, dividemmo le nostre forze tra il Mincio (12
divisioni) e il Po (8 divisioni), dividemmo il comando tra La Marmora e il
Cialdini ed infine il primo giorno di scontro ci demmo per vinti con ben 15
divisioni integre che non avevano preso parte neanche ad una scaramuccia e con
320.000 uomini di riserva. Alla “figuraccia” del nostro esercito i vertici
politico militari cercarono di rimediare sul fronte del mare, dove la nostra
flotta, potente “sulla carta e non sul mare”, regalò al Paese un’altra
umiliante sconfitta.
Arrivati a questo
punto non ci restò, il 3 settembre 1866, che firmare la pace che conservava
l’umiliante clausola della cessione del Veneto all’Italia attraverso la
consegna da parte della Francia di Napoleone III. L’imperatore d’Austria
Francesco Giuseppe riconobbe il Regno d’Italia, riconsegnò la “corona ferrea”
che gli Austriaci al termine della guerra del 1859 avevano portato a Vienna e
noi ci accollammo altri 91 milioni di debito pubblico del Veneto.
Questa nostra prima guerra in Italia fu un’ impresa
assolutamente deludente e generò durissime polemiche in tutto il Paese negli
anni successivi. I nostri vertici politico – militari a cominciare da Alfonso
Ferrero La Marmora e dal Cialdini furono impari al loro compito, non seppero
impostare e condurre con efficienza la guerra anche perché il governo italiano
preparò diplomaticamente la guerra con la speranza di non farla e con la
certezza di aver ottenuto il proprio premio ancora prima di iniziarla.
La brutta figura e la rabbia popolare crescente nel paese
imposero di trovare un colpevole e quindi, il 1 dicembre 1866, fu arrestato
l’ammiraglio Persano per essere giudicato dal Senato, costituito in Alta Corte
di giustizia, sulle sue responsabilità nella battaglia di Lissa, ma molti altri
avrebbero dovuto comparire con lui come chiaramente afferma Carlo Cattaneo in
una sua lettera inviata il 9 ottobre 1866 al senatore Giuseppe Muzio: “Ormai,
nella memoria della nazione e delle nazioni – e nella coscienza del soldato –
Custoza e Lissa sono parte d’un reato solo. Nessuno ha ormai forza di
sciogliere quel nodo. Il Senato è giudice unico e supremo dei colpevoli: può,
se vuole, assolver tutti, ma deve giudicare tutti. Anzi, se v’è reato, il suo
punto culminante è già Custoza. Lissa è il tardo e inutile strascico d’una
guerra morta. Se potè avere un proposito doloso, è solo in quanto fosse intesa
a ostentare, oltre ad un’impotenza militare del Regno, anche una impotenza
marittima. Solo la presenza d’un accordo segreto può spiegare un simulacro di
guerra di cui non v’ha forse esempio al mondo. Esser liberi d’ogni movimento, anche
nelle giurisdizioni federali germaniche del Tirolo e dell’Istria; avere a
fronte un nemico già umiliato e vacillante, ricinto, fin entro le sue montagne,
le sue fortezze e le sue navi, da tre milioni di popolo fremente; avere in pugno
più di 300.000 soldati; portarne al fuoco, per volontà premeditata, nemmeno la
quinta parte; e darsi vinti, come per “disastro irreparabile” è una sì strana
prova d’arte militare che non è lecito imputarla a nudo errore. Il Senato non
può esigere il rendiconto di Lissa senza esigere il rendiconto di Custoza (…).
A Lissa non si vede come a Custoza il proposito sofistico di vincere senza
vincere, non si vede l’umile accordo con lo straniero imperioso, il vile
accordo col burbero nemico, non si vede il traffico dell’onore col guadagno, la
guerra finta eppur sanguinosa che pone per sempre nel cuore del soldato non la
fiducia della vittoria, ma il ghiaccio del sospetto. E’ per queste arti indegne
che l’Italia aveva perduto a memoria nostra l’onore delle armi” [2]Centocinquant’anni
dopo queste parole di Cattaneo, che colgono nel segno tutto l’ operato della
guerra dell’’86 e che invitano al rinnovamento morale e culturale del Paese per
divenire uno Stato moderno, ci appaiono terribilmente attuali nella nostra
terra italica, nella terra dei “gattopardi”, dove tutto sembra che cambi, ma
dove non cambia mai nulla.
Giancarlo Ramaccia
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