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Contro tutti e tutto. I soldati Italiani nei Balcani nel 1943

Il Volume "La Divisione "Perugia" Dalla Tragedia all'Oblio" è disponibile in tutte le librerie. ISBN 886134305-8, Roma, 2010, Euro 20,00 pag. 329.



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Un Triste destino per la Divisione "Perugia"

Un Triste destino per la Divisione "Perugia"
La Divisione "Perugia" avrebbe avuto miglior sorte se Informazioni ed Intelligence avessero trovato più ascolto presso i Comandi Superiori

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mercoledì 12 luglio 2017

La Brigata Marche nel 1916.


 La Brigata “Marche”[1] composta dal 55° e 56° reggimenti di fanterria, era stata sul finire del 1915 trasferita dal fronte dolomitico (4a Armata) sul fronte dell’Isonzo.
I Quadri della brigata nel 1916 erano i seguenti:
Comandante della Brigata continuava ad essere il gen. Cittadini, che lascerà il comando il 22 marzo 1916; dal 1 prile 1916 al 18 maggio 1916 lo sostituisce il magg. gen. Guido Amidei, e dal 7 giugno al 7 maggio 1917 il col. brig. Alfredo Giannuzzi Savelli. Quindi nel 1916 si avvicendaro ben tre comandanti la Brigata.

Comandante del 55° Reggimento fanteria era il col. Ernesto Piano che perì nel siluramento del piroscafo “Principe Uberto” l’8 giugno 1916; il ricostruito 55° Reggimento fu posto al comando del col. Vittorio Sforza, dal 9 luglio 1917 fino al 27 agosto 1917.

Al comando del 56° Reggimento fanteria vi era ancora il col. Vittorio Parri, che lascerà ilcomando il 31 maggio 1917

Di seguito i comandanti di battaglione nel 1916
55° Reggimento fanteria:
I Battaglione
. Magg. Giovanni Gavagnin, dal 15 febbraio al 31 marzo 1916

II Battaglione
. Magg. Ermanno Finzi, dal 3 febbraio 1916 al 8 giugno 1916[2]
. Magg. Giuseppe Giaroli, dal 1 luglio 1916 al 12 settembre 1917.

III Battagliione
. Magg. Egidio Saibante, dal 20 dicembre 1915 al 23 dicembre 1916

IV Battaglione. Sarà costituito el 1917

56° Reggimento fanteria:

I Battaglione
. Magg. Giovanni Fenech, continua comandarlo fino al 10 giugno 1917

II Battaglione
. Magg. Federico Rossi, dal 18 gennaio 1916 al 5 marzo 1916
. Magg. Cornelio Rivelli, dal 30 marzo 1916 al 22 maggio 1916
. Cap. Duilio Cuneo, dal 23 maggio 1916 al 1 novebre 1916, Caduto sul campo
. Magg. Guido Ferlenghi, dal 2 novembre 1916 al 24 settembre 1917.

III Battaglione
. Magg. Camillo Carnevale, dal 17 dicembre 1915 al 19 marzo 1916
. Ten. Col. Casto Santini, dal 20 marzo 1916 al 17 agosto 1916
. Cap.Pompeo Garbagnini, dal 18 agosto 1916 al 20 ottobre 1916
. Cap. Arturo Taddia, dal 21 ottobre 1916 al 18 novembre 1916
. Ten. Col. Federico Musco, dal 19 novembre 1916 al 20 settembre 1917

Il IV battaglione sarà costituito nel 1917

Gli Ufficiali della Brigata Caduti nel 1916 sono:
55° Reggimento fanteria:
. Ernesto Piano, colonnello, da Castagnola, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona.
.  Ermanno Finzi, maggiore, da Rivarolo, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Ivo Calvi, capitano, da Farra di Soligo, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Cannello Panfilo, capitano, da San Pietro in Barbozza, il 14 dicembre 1916 a Rio Vallasca
. Pasquale Cariddi, capitano, da Siderno, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Cesare Colombo, capitano,da Milano, il 7 agosto 1916 a quota 85 di Monfalcone
. Umberto Magner, capitano, da Montelupone, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Edmondo Matter, capitano, da Mestre, il 16 settembre 1916, alla 19a Sez. Sanità Paljchisce
. Vasco Pallattiero, capitano, da Schio, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Giovanni Pellizon, capitano, da Sacile, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Eugenio Pistoso, capitano, da Sarego, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Mario Saccozzi, capitano, da Reggio Emilia,l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Guglielmo Salinas, capitano, da Napoli, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Gastone dott. Senzi,capitano, da Firenze, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Arrigo Tarsitano, capitano, da Ravenna, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Carlo Era, capitano, da Oristano, il 1 novembre 1916 ad Hudi Log
. Enea Governatore, tenente, da Scheggino, il 19 ottobre 1916 alla Sez. Sanità 47° Divisione Paljchisce
. Giovanni Pasolli, tenente, da Camposanpiero, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Vicenzo restifa, tenente, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Antonio Vanni, tenente da Venezia, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Riccardo rev.Zanoni, tenente cappellano, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
.Giovanni dr. Zuppini, tenente medico, da Sanguinetto l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Giuseppe Amadori, tenebete, da Firenze, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Giovanni Battista Andretta, s.tenente, da Tombolo, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Arturo Artico, s.tenente, da S. di Stino Livenza, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Arstide Balloncini, s.tenente, da Ferra di Soligo,  l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Giuseppe Benvenuto, s.tenente, da Majera, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Giovanni Calvi, s.tenente, da Farra di Soligo, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Domenico Camodeca, s.tenente, da Castrovillari, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Nicolò Campagnolo, s.tenente, da Trapani, l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Alberigo Camporese, s.tenente, da Padova, il 1 novembre 1916, ad Hudi Log
. Francesco Catanzaro, s.tenente, da Montaldo Uffugo,  l’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Pino Cattaruzza, s.tenente, da Auronzo, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Giuseppe Cavallari, s.tenente, da Brescia, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Giuseppe Carico, s.tenente, daTreviso, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Angelo Ferrara, s.tenente, da Tivoli, il 2 novembre 1916, ad Uudi Log
. Luciano Ferro, s.tenente, da Padova, il 6 agosto 1916 a Quota 85 Monfalcone
. Mario Figoni, s.tenente, da Padova, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Paolo Folli, s.tenente, da Langhirano, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Attilio Gorzio, s.tenente, da Saluzzo, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Beniamino Grunvald, s.tenente, da Venezia, il 18 agosto 1916, ad Oppachiasella
. Andrea Labella, s.tenente, da Avignano,  ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Ernesto Manca, s.tenente, da Sassari, il 16 settembre 1916, ad Oppachiaella
. Carlo Miglioretti, s.tenente, da Torino, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Roberto Petruzzelli, s.tenente, da Napoli,  ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Salvatore Polizzi, s.tenente, da Polizzi,  ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Paolo Ruini, s.tenente, da Giulia ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Silvio Secchieri, s.tenente, da Napoli, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Pietro Sorbi, s.tenente, da Firenze, il 1 novembre 1916 ad Hudi Log
. Roberto Tecinod, s.tenente, da Roma, il 19 settembre 1916, Ambulanza Chirurgica n. 5
. Mario Tonissi, s.tenente, da Firenze,  ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Innocenzo Vaglio, s.tenente, da Santhià, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Antonio Vitellio, s.tenente, da Torre del Greco, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Luigi Beni, aspirante, da Cavriglia, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Giovanni friziero, aspirante, da Chioggia, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Antonio Lucchini, aspirante, da Luino, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Umberto Mscherin, aspirante, da Fiume,  ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Giuseppe Matelka, aspirante, da Treviso, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona
. Giovanni Nenna, aspirante, da Trani, il 17 settembre 1916 all’O.d.C. 102
. Gouseppe Sirocchi, aspirante, da Morandola, il 16 settembre 1916 ad Oppachiasella
. Beniamino Zimei, aspirante, da Capestrano, ’8 giugno 1916, in mare, presso Valona

56° Reggimento fanteria
. Duilio Cuneo, capitano, da Sassari, il 1 novembre 1916 a Nova Vas
. Carlo De Vito, capitano, da Salerno, il 6 agosto 1916, a quota 85 Monfalcone
. Virgilio Nista, capitano, da Poggio Imperiale, il 1 settembre 1916 ad Oppacchiasella
. Giacomo Traversi, capitan, da Lucca, il 1 agosto 1916 alla 14a Sezione Sanità
. Pio Bonanni, tenente, da Roma, il 15 settembre 1916 ad Oppachiasella
. Gaetano di Mauro, tenente, da Catania, il 6 agosto 1916, Quota 85 di Monfalcone
. Carlo Florani, tenente, da Milano, il 15 settembre 1916, ad Oppachiasella
. Francesco Valenza, tenente, da Pantelleria, il 16 settembre 1916 in prigionia
. Giovanni Zuccalà, tenente, da Nardò, il 4 agosto 1916, Quota 85 di Monfalcone
. Giorgio Azzaroni, s.tenente, da Bologna il 16 ottobre 1917 a Polazzo
. Vincenzo Azzolini, s.tenenete, da Volta Manotvana, il 15 settembre 1916, ad Oppachiasella
. Ugo Barcaroni. s.tenente, da Moschuto, il 1 novem bre 1916
. Lucindo Faggin, s.tenente, da Padova, il 5 novembre 1916 all’Ambulanza Chirigica n. 5
. Vito Falcicchio, s.tenente, da Grumo Apula, il 4 agosto 1916, Quota 85 di Monfalcone
. Giuseppe Gallani, s.tenente, da Bagnolo Po, il 20 luglio 1916, a Quota 70 Selz
. Ernesto Guzzotti, s.tenente, da Correggio, il 4 agosto 1916, 14° Sezione di Sanità
. Nunzio Simonelli, s.tenente, da Spezia, il 4 agosto 1916, Quota 85 di Monfalcone
. Ferruccio  Spellanzon, s.tenente, da Vazzola, il 4 agosto 1916 a Quota 85 di Monfalcone
. Francesco Taddei, s.tenente, da Fucecchio, il 9 ottobre 1916, all’O.d.C.206
. Umberto Barbier ,aspirante, da S. Agata Bolognese, il 15 settembre 1916, ad Oppachiasella
. Giovanni Bellomo,aspirante, da Palermo, il 15 settembre 1916 ad Oppiachiasella
. Angelo Cellura, aspirante, da Licata, il 3 novembre 1916 a Nova Vas
. Luigi Gallo, aspirante, da Serralunga, il 1 novembre 1916 a Nova Vas
. Diego Malara, aspirante, da Arangea, il 14 settembre 1916, ad Oppachiasella
. Umberto Matteo, aspirante, da Morbegno, il 15 settembre 1916 ad Oppacchiasella
. Rodolfo Patti, aspirante, da Palermo, il 16 settembre 1916, ad Oppacchiasella
. Giovanni Pesce, aspirante, da Casal Velino, il 7 luglio 1916 alla 14° Sezione di Sanità
. Gennario Quatraro, aspirante, da Porlezzo, il 1 novembre 1916 ad Oppacchiasella
. Alberto Rampone, aspirante, da Sestri Ponente, il 15 settembre 1916 ad Oppacchiasella

Il quadro generale delle perdite della Brigata, per il 1916, in relazione alle tabelle organiche. sono le seguenti:
. 55° Reggimento Fanteria, nel trasferimento dall’Albania in Italia, come vedremo più avanti, perì al completo per il siluramento del piroscafo da parte di un sottomarino austriacio; ebbe 48 ufficiali e 1900 uomini di truppa Caduti; ricostruito in Italia nei suoi servizi prestati in linea ebbe sul Basso Isonzo (28 giugno – 5 agosto) 3 Caduti e 13 feriti tra la truppa.

Nella 6a Battaglia dell’Isonzo (6-8 agosto) ebbe 2 Ufficiali Caduti e 6 feriti, tra la truppa 90 feriti; nel Settore di Oppachiasella (15 agosto – 13 settembre) 1 Ufficiale Caduto e 6 feriti, mentre tra la truppa si ebbero 25 Caduti, 192 feriti, e 29 dispersi.Nella 7a Battaglia dell’Isonzo (14-19 settembre) il Reggimento ebbe 5 Ufficiali Caduti ed 8 feriti; nella Truppa si lamentarono 32 Caduti, 278 feriti, 94 dispersi. L’impiego nelle trincee di Hudi Log, 1 Ufficiale Caduto, e 1 Caduto e 10 feriti tra la truppa.

Nella 9a Battaglia dell’Isonzo (31 ottobre – 5 novembre) 4 Ufficiali Caduti, 6 feriti e 2 dispersi; 120 Caduti, 795 feriti, 504 dispersi tra la truppa.

L’anno 1916 termina con i servizi in linea dal 17 novembre al 31 dicembre in cui si ebbero 1 Ufficiale Caduto. In Totale nel 1916 il Reggimento ebbe 62 Ufficiali Caduti, 26 feriti, 2 dispersi; tra la Truppa, 2087 Caduti, 1379 feriti e 627 dispersi.

. 56° Reggimento Fanteria
Più fortunato del suo gemello il 55° Reggimento fanteria riuscì a giungere in Italia indenne. L’impiego operativo, essendo di brig, in linea generale, avviene nei stessi settroi del fronte del 55° Reggimento.
Sul Basso Isonzo (28 giugno – 5 agosto) il 56° Reggimento ebbe 8 Caduti e 12 feriti fra gli Ufficiali e 101 Caduti, 356 feriti e 258 dispersi tra la truppa.
Nella 6a Battaglia dell’Isonzo (6-8 agosto) ebbe 2 Ufficiali Caduti e 8 feriti e 2 dispersi, tra la truppa, 42 Caduti, 327 feriti, 29 dispersi; nel Settore di Oppachiasella (15 agosto – 13 settembre) 1 Ufficiale Caduto e 2 feriti, mentre tra la truppa si ebbero 18 Caduti, 148 feriti, ed 1 disperso.
Nella 7a Battaglia dell’Isonzo (14-19 settembre) il Reggimento ebbe 9 Ufficiali Caduti ed 29 feriti, e 2 dispersi; nella Truppa si lamentarono 61 Caduti, 765 feriti, 232 dispersi. L’impiego nelle trincee di Hudi Log, 2 Ufficiali Caduti e 2 feriti, e 17 Caduti e 170 feriti tra la truppa.
Nella 9a Battaglia dell’Isonzo (31 ottobre – 5 novembre) 6 Ufficiali Caduti, 10 feriti; 68 Caduti, 503 feriti, 68 dispersi tra la truppa.
L’anno 1916 termina con i servizi in linea dal 17 novembre al 31 dicembre in cui si ebbero 6 Caduti ed 8 dispersi.
In Totale nel 1916 il Reggimento ebbe 28 Ufficiali Caduti, 63 feriti, 4 dispersi; tra la Truppa, 313 Caduti, 2477 feriti e 588 dispersi.

L’attività operativa della Brigata “Marche” per il 1916 è legata, nella prima metà del 1916, alle operazioni il Albania a sostegno del salvataggio dell’Esercito serbo in ritirata e sul fronte dell’Isonzo nella seconda metà dello stesso anno. In Albania era inserita nella trincea marittima, che presupponeva il controllo e la chiusura del Canale d’Otranto, esigenza questa che presupponeva una base in Albania,. Base che fu individuata a Valona. Il 29 dicembre 1915 il 10° Reggimento bersaglieri opportunamente rinforzato occupò l’isolotto di Saseno, per poi occupare Valona ed il suo porto. Iniziò da questo momento la presenza delle armi italiane in Albania, i cui reparti furono inserito nel “Regio Corpo speciale italiano destinato ad operare in Albania”.
Oltre a quella di avere una base oltre Adriaco, nel dicembre 1915 si palesò l’esigenza di dare sostegno, supporto ed assistenza all’Esercito serbo in ritirata. Il Regio Corpo speciale fu rafforzato fino a raggiungere la forza di tre Brigate di fanteria. Ai primi di gennaio 1916 si ritenne di inviare ulteriori truppe, che nel mese successivo raggiunse l’entità di 5 Brigate con le relative truppe di sostegno e supporto, per poi divenire nel marzo 1916 una unità a livello di Corpo d’Armata (XVI).[3]
Tra queste unità vi era la Brigata “Marche”.
Terminata l’esigenza di salvare l’Esercito serbo vi fu un duro confronto tra il Comando Supremo, e quindi con il generale Cadorna, ed il Governo. Cadorna, nella sostanza, pur riconoscendo nella sostanza le ragioni di una maggiore presenza di truppe italiane in Albania al fine di controllare più vasti territori, fu irremovibile nel proposito di non destinare nuove truppe oltre Adriatico. Per lui il problema di concretizzava, e si esauriva, nel possesso di Valona, che dal punto di vista militare corrispondeva alla esigenza manifestata dal Comando dell’Armata Navale  e sotto il profilo politico offriva in ogni caso al Governo la premessa alla azione di influenza che intendeva svolgere nell’area balcanica. Cadorna giudiva, ed in gran parte aveva ragioneessere determinante la presenza in armi in Albania, poco rilevando la estenzione effettiva della occupazione.
Il 26 aprile il generale Cadorna ordinò il rimpatrio della 44a Divisione
Tra il 31 maggio e l’8 giugno iniziarono le operazioni per il ritentro in Italia. Queste operazioni non sono non rilevate dal Comando austriaco di Cattaro, attraverso la azione di ricognizione ed esplorazione svolta a mezzo di idrovolanti. In breve viene inviato in missione di intercettazione il sommergibile U 5, al comando del tenente di vascello Friedrich Schlosser, che si pone in agguato nell’area antistante Valona. L’8 giugno 1916 il 55° Reggimento fanteria inizia, con i suoi reparti, l’imbarco sulle navi. Sul “Principe di Piemonte”, al comando  del Comandante Giuseppe Sartorio, da Genova coadiuvato dal tenente di vascello Edoardo de Sanctis, si imbarca il Comando del Reggimento al completo, il I ed il II battaglione (sei compagnie) più la 11a e la 12a compagnia del III Battaglione, per un totale, compreso l’equipaggio, di 2821 uomini. Sul piroscafo “Ravenna” si imbarcano le restanti  compagnie (9a e 10a compagnia del III Battaglione), le salmerie ed il carreggio con i restanti ufficiali e truppa del reggimento. Nella serata dell’ 8 giugno si forma il convoglio, composto da nove unità: Esploratore “Libia”, i Cacciatorpediniere “Insidioso”, “Esepro” e “Pontiere” ed “Impavido”, i due piroscafi trasporto truppe, “Principe Umberto” e “Ravenna” ed altre due navi dirette a Gallipoli e Taranto. Il convoglio prende la rotta per l’Italia, con rotta verso sud-ovest, alle 19.00 dell’8 giugno 1916. La navigazione procede tranquilla ed il “Principe Umberto” accelera per raggiungere la velocità di crociera. Alle 20, 45, con ancora in vista le luci di Valona, l’U 5, quasi per caso, all’altezza di capo Linguetta, intravede al periscopio le navi italiane ed attacca immediatamente il “Principe Umberto”. Gli lancia contro due siluri, di cui il primo va a vuoto ed il secondo colpisce il piroscafo a poppa facendo esplodere le caldaie; il piroscafo si spacca in due tronconi e in pochi minuti affonda. Dei 2821 uomini a bordo, se ne salvano 895; i rimanenti 1926 seguono la nave sul fondo. Nei giorni successivi il mare depositerà sulle spiagge di Valona innumerevoli corpi, irriconoscibili, che vengono sepolti ai margini della litoranea; nel depoguerra saranno traslati al Cimitero dei Caduti d’Oltremare di Bari.   
Fra i superstiti vi è il Capitano Luigi Cova, nato a Treviso l’11 novembre 1891, che in una lettera ai famigliari così diescrive la tragedia di cui fu protagonista:

“..Non vi so descrivere che successe all’atto del siluramento: erano oltre 2000 persone che urlavano, che invocavano aiuto, che piangevano, che inpazzivano, che si sparavano, che si abbracciavano per morire… Che strazio! In mezzo a tutta questa scena orrenda, il mio spirito però rimase imperplesso e passato l’attimo di indecisione sul da farsi, mi precipitai in una lancia vicina….Non appena montato, un disperato, taglia il capo solo delle funi di sostegno; la lancia si rovescia e tutti facciamo un volo di 12 metri in mare. In tale frangente molti soldati andaro a sbattere contro il fianco della nave ancora in moto, altri contro altre scialuppe ridotte a pezzi, altri ancora che non sapevano nuotare trovarono la morte immediata in acqua. Non so come e perché io in tale volo non riportassi che una contusione al polso destro, un’altra al braccio sinistro ed una terza forse più pericolosa al costato destro. Ad ogni modo la forza della disperazione mi sostenne e nonostante fossi completamente vestito e non indossassi il salvagente, mi mantenni a galla per tre quarti d’ora. In cinque minuti il povero “Principe Umberto”colava a picco ed il mare ingoiava migliaia di persone; sullo specchio d’acqua debolmente illuminato dalla luna non si vedeva che ombre nere che lottavano con la morte, il silenzio del mare tranquillo era rotto dalle voci che imploravano aiuto, che disperatamente chiamavano la mamma, la moglie i figli…..Io cercavo un rottame di legno qualsiasi per poter resistere più a lungo in mare. La fortuna mi assecondò: m’incontrai con il capitano Marcias ed un soldato della mia compagnia che erano appoggiati ad una tavola; mi unii a loro e così riposando ora sul braccio sinistro, ora sul destro potei assicurare la mia salvezza. Le due torpediniere di scorta non appena la nave fu silurata cercarono il sottomarino infame, ma non riuscirono a catturarlo, dopo di che corsero in aiuto ai naufraghi.
Io fui raccolto dopo ben tre quarti d’ora di bagno dalla torpediniera “Espero” ove mi furono prodigate le prime amorose cure.. Poco dopo giunse anche il capitano Ghirardi pesto alle ossa; ci abbracciammo e piangemmo a lungo. Al ritorno al porto di Valona, ove giungemmo verso le 2 di notte, ci trasbordarono sul piroscafo “Vittorio Emanuele” ove trovammo il comandante la piazza di Valona, Tenente Generale Piacentini, il quale mi strinse la mano e mi ammirò perché mentre salivo a bordo, seppure a stento, fumavo avidamente una sigaretta regalatamida un marinaio. Era l’eccitazione del momento che mi faceva forte: durante la notte mi accorsi di stare male, febbere altissima, delirio… Dei 220 uomini della compagnia sono rimasto con 82, ho perduto tutti gli
 ufficiali”[4]




      [1] Per l’ordinamento, l’impiego e le operazioni relative al 1915 vds. Coltrinari M., Le Marche e la Prima Guerra Mondiale: il 1915. I primi sei mesi di guerra: dall’euforia interventista alla realtà della trincea, Roma, Edizione Nuova Cultura, Università la Sapienza, 2017., pag.29
[2] Caduto per siluramento del Piroscafo “Principe Umberto”.
[3] Il Regio Corpo speciale italiano destinato ad operare in Albania” assunse nel marzo del 1916 la consistenza di un Corpo d’Armata, il XVI, al comando del generale Settimio Piacentini, con Capo di SM il colonello Guglielmotti. composto da tre divisioni, la 38°, la 43° e la 45a Divisione.
La composizione ordinativa delle divisioni era la seguente:
. 38a Divisione, al comando del gen. Bandini:
.. Brigata “Savona” (15° e 16° Reggimento fanteria)
.. Brigata “Puglie” (71° e 72° Reggimento fanteria)
.. I Raggruppamento misto artiglieria
.. tre reparti mitragliatrici speciali
.. una compagnia genio
.. Servizi divisionali
. 43a Divisione, al comando del gen. Farisoglio:
.. Brigata “Marche” (55° e 56° Reggimento fanteria)
.. Brigata “Arno” (213° e 214° Reggimento fanteria)
.. II Raggruppamento misto artiglieria
.. III Raggruppamento artiglieria
.. tre reparti mitragliatrici speciali
.. una compagnia genio
.. Servizi divisionali
. 44a Divisione, al comando del gen. Bertotti:
.. Brigata “Verona” (85° e 86° Reggimento fanteria)
.. Brigata “Tanaro” (203° e 204° Reggimento fanteria)
.. IV Raggruppamento misto artiglieria
.. tre reparti mitragliatrici speciali
.. una compagnia genio
.. Servizi divisionali
. Unità alle dirette dispendenze del Comando del C.d’A:
.. 10° Reggimento bersaglieri
.. 15° Reggimento Cavallegeri di Lodi
.. Squadrone sardo
.. quattro reggimenti di Milizia Territoriale
.. V Raggruppamento misto artiglieria
[4] Cfr. http//55fanteria.it/testimonianze.html

mercoledì 28 giugno 2017

La NATO a 29 Membri

Ventinovesimo Stato
Nato: Montenegro, segnale positivo per Balcani
Valbona Zeneli
27/06/2017
 più piccolopiù grande
Il Montenegro è diventato il 29̊ Stato membro dell’Alleanza atlantica. Negli ultimi anni, questa è l'unica storia di successo proveniente dai Balcani. Come tale, acquisisce un significato maggiore delle ridotte dimensioni del piccolo Paese dell’Europea meridionale di soli 620.000 abitanti.

Il contributo militare apportato alla Nato, con forze armate di appena 2.000 unità, potrebbe essere limitato. Con una spesa per la difesa di circa 55 milioni di euro all’anno, il nuovo membro pagherà all’Alleanza una quota annuale minima: 450.000 dollari, solo lo 0.27% del bilancio totale della Nato.

Dimensioni militari e politiche
Bisogna però ricordare che la Nato non è solo un'alleanza militare, ma ha anche un’importante dimensione politica. Il Montenegro, grazie alla sua posizionesull’Adriatico, è considerato un alleato strategico. D'altra parte, il Montenegro s’è già rivelato un partner affidabile per la Nato, essendo stato molto attivo con il suo sostegno in Afghanistan.

L'adesione del Montenegro è la prima espansione atlantica negli ultimi otto anni, dopo l'allargamento del 2009 con l'Albania e la Croazia. Essa manda alcuni segnali molto significativi.

L'adesione all'Alleanza, avvenuta il 5 giugno 2017, è un riconoscimento formale del progresso del Montenegro, che negli ultimi anni ha soddisfatto una serie di criteri e raggiunto gli standard richiesti dalla Nato. Tuttavia, l'adesione all'Alleanza non dovrebbe segnare un punto d’arrivo, ma al contrario essere un ulteriore incentivo ad accelerare il processo di trasformazione del Paese per quanto riguarda la lotta contro la corruzione, il progresso economico e lo stato di diritto.

Un obiettivo dall’indipendenza
È positivo che il Montenegro abbia raggiunto con successo uno dei principali obiettivi della sua politica estera dalla sua indipendenza nel 2006. L'adesione alla Nato è una garanzia di stabilità e sicurezza per il Paese. Questo è particolarmente importante per un Paese con risorse limitate, che può trarre vantaggi dalla cooperazione all’interno della Nato, sfruttando la condivisione di risorse, competenze e informazioni. D'altra parte è stato dimostrato che, anche se la Nato non è un'alleanza economica, essa è capace di fungere da catalizzatore dello sviluppo economico e fornisce un senso di sicurezza e di prevedibilità agli investitori, in particolare a quelli stranieri.

Peculiarità di un’adesione
L'adesione del Montenegro alla Nato presenta alcune peculiarità. A differenza di quanto avvenuto per gli altri nuovi Membri, il processo di integrazione non è andato in porto senza contestazioni. Anche se il sostegno all’Alleanza dell’opinione pubblica nazionale è aumentato significativamente negli ultimi anni, raggiungendo un tasso di approvazione del 48%.

Tuttavia, i cittadini rimangono ancora divisi sulla questione. Alcuni politici dei partiti d’opposizione - dominati dai serbi e apertamente pro-Russia - sono stati addirittura accusati di un tentativo di colpo di stato, fallito, per impedire al Montenegro di aderire alla Nato. Infatti, l’opposizione ha boicottato il Parlamento dalle ultime elezioni e ha chiesto un referendum popolare sulla questione.

L’ostilità della Russia all’operazione
Il Cremlino si è opposto apertamente all'adesione del Montenegro, definendola una "provocazione" contro la Russia, che sta riprendendo un gioco geo-politico nei Balcani occidentali. In realtà, l'adesione del Montenegro non dovrebbe essere vista come una provocazione alla Russia, o come un atto destinato a peggiorare le relazioni con un Paese con cui ha stretti legami storici, religiosi, culturali ed economici.

Infatti, la Russia è un partner economico molto importante, che rappresenta il 30% degli investimenti stranieri. Anche se la decisione di aderire alla Nato arriva in un momento di tensioni elevate nelle relazioni tra l’Alleanza e la Russia, in realtà è il risultato di un processo avviato da tempo. Ed è un passo naturale per una Paese che ha scelto di essere integrato nelle strutture euro-atlantiche.

Le ripercussioni sui Balcani
Questa decisione ha una notevole ripercussione sull’intera regione dei Balcani occidentali e lancia un chiaro messaggio ai Paesi che si sono già messi in coda per entrare nell’Alleanza. Ancora una volta, dalla creazione nel 1949, è stato attuato con successo uno dei principali pilastri della Nato: la "politica delle porte aperte” integrata nell'articolo 10 del Trattato di Washington.

È un segnale importante per mantenere i Balcani occidentali nel loro percorso euro-atlantico, anche se, purtroppo, gli ultimi anni quei Paesi sono stati attraversati da dubbi, sfide e sconfitte. Questo è un segnale forte per i paesi che vogliono avanzare nel processo di integrazione sia con la Nato che con l'Ue.

L'adesione della Macedonia è stata mantenuta bloccata per un lungo tempo a causa della controversia con la Grecia sul nome del Paese ex-jugoslavo. Oggi la situazione è ancora più complicata a causa dei turbamenti politici degli ultimi anni, con potenziali ripercussioni anche sui rapporti etnici all’interno del Paese, che hanno provocato un grave rallentamento nel processo delle riforme democratiche.

La Bosnia-Herzegovina, è un altro Paese aspirante, anche se è tuttora impegnata nella gestione delle sue questioni interne irrisolte.Sta infatti aspettando il piano d'azione per l'adesione, salvo la risoluzione della questione sulle proprietà immobiliari della difesa, un processo bloccato dalla Repubblica Srpska.

La Nato e la trasformazione dell’Europa dell’Est
L'allargamento della Nato è stato uno dei pilastri più importanti della trasformazione nell'Europa dell’Est. Oggigiorno, la stabilità e la democrazia nei Balcani occidentali non possono più essere date per scontate. La pace è la stabilità sono ancora fragili, soprattutto a causa del mancato progresso democratico ed economico nei Paesi della regione.

La Russia si sta impegnando nei Balcani occidentali, sfruttando le vulnerabilità istituzionali, la corruzione pubblica, la divisione politica e lo scetticismo della popolazione su un futuro migliore. Il Cremlino sta utilizzando degli strumenti ibridi, come l’influenza economica e mediatica, per sfruttare stereotipi regionali, tensioni etniche e questioni non risolte relative ai conflitti degli Anni '90. L'obiettivo principale è quello di indebolire le relazioni dei Balcani occidentali con l'Occidente, ostacolando il processo di allargamento euro-atlantico, mirando alla creazione di una "zona non-allineata".

La Nato è il fondamento dell'unità transatlantica. L'Alleanza è considerata dal 61% degli europei e dal 58% degli americani l'organizzazione essenziale per la difesa e la sicurezza su entrambi i lati dell'Atlantico. Altri Paesi stanno aspirando a diventare membri di questa “famiglia”. La verità è che le realtà del "mondo dell'articolo 5", dopo i conflitti del 2014 in Ucraina, stanno portando grandi cambiamenti al processo di allargamento. Forse, dopo l’adesione del Montenegro, vedremo un'altra lunga pausa nel processo di allargamento.

Valbona Zeneli è professore di National security studies e direttore di Black Sea Eurasia Program presso il George C. Marshall European Center for Security Studies. Le opinioni espresse sono personali dell’autore e non rappresentano le opinioni del Department of Defense, the George C. Marshall European Center for Security Studies, o dei governi degli Stati Uniti o della Germania.

martedì 23 maggio 2017

Difesa Europea ed Italia

Ue in marcia. E l’Italia?
Difesa europea: un’accelerazione con Macron
Alessandro Marrone
18/05/2017
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La presidenza di Emmanuel Macron porterà probabilmente ad un’accelerazione della cooperazione europea nella difesa, dove si registra un ruolo maggiore della Commissione di Bruxelles, anche grazie a un rafforzamento dell’asse franco-tedesco.

Sempre più convergenza tra Francia e Germania
Macron è probabilmente il presidente francese più favorevole all’idea di un’Europa della difesa nella storia dell’Ue. Combinando questo elemento con il venire meno causa Brexit del freno britannico e con un ruolo sempre maggiore della Germania nella sicurezza del Vecchio Continente - chiunque vinca le elezioni politiche tedesche il prossimo settembre - si ha un quadro politico (e geopolitico) inedito per l’Unione. Un quadro positivo che potrebbe dare slancio e concretezza a progetti di cooperazione e integrazione da tempo discussi nelle istituzioni europee e nelle capitali.

Francia e Germania hanno certamente visioni in parte diverse sulla difesa europea. Tuttavia negli ultimi anni è aumentata la convergenza tra i due Paesi; e probabilmente aumenterà ancora di più con un presidente francese che già in campagna elettorale aveva affermato la necessità di cooperare con Berlino.

Se la Commissione finanzia la ricerca nella difesa
Inoltre, i Paesi Ue si muovono in un quadro che vede sempre più attive le istituzioni dell’Unione, anche grazie all’attuazione della EU Global Strategy. La Commissione europea sta procedendo alla messa in pratica del piano di azione (European Defence Action Plan – Edap) che segna un passo importante nella politica industriale e di innovazione tecnologica dell’Ue.

Infatti, per la prima volta nella storia dell’Unione, viene finanziata direttamente la ricerca nel campo della difesa, con lo stanziamento di 90 milioni di euro nel 2017-2019 per la Preparatory Action on Defence related Research (Padr) e la previsione di 500 milioni di euro l’anno per il prossimo esercizio finanziario 2021-2027.

La Commissione si era già costruita un ruolo importante del mercato della difesa europeo sul piano regolatorio con le direttive del 2009 sui trasferimenti intra-comunitari ed il procurement militare. Ruolo guardato con una certa insofferenza da alcuni stakeholder, in quanto visto come un pungolo ad adottare logiche di concorrenza ed efficienza in un settore precedentemente escluso dalle regole del mercato unico.

Ma la Commissione non pretendeva di decidere quale sistema d’arma finanziare, produrre o acquistare: definiva piuttosto regole generali, rispondenti ad un interesse comune europeo, e quindi più accettabili anche se, a volte, in contrasto con alcuni Stati membri. Inoltre, per ora, la Commissione ha dimostrato un’ampia tolleranza sul terreno del l’‘enforcement’, anche se ha annunciato un prossimo cambio di passo.

Tra governi nazionali e interessi europei
Ora il discorso si fa più delicato e complicato per il ruolo della Commissione, e soprattutto per il rapporto con i governi nazionali da un lato e con gli interessi comuni europei dall’altro. Nella Padr, e più ancora nel prossimo bilancio Ue, vi saranno finanziamenti significativi da allocare a fronte di domande verosimilmente maggiori, per quantità e volume, da parte degli attori nazionali, e occorrerà scegliere cosa e chi finanziare - e a chi negare invece i fondi stanziati dal bilancio dell’Unione.

Ciò accade già in molti altri campi che godono di fondi Ue, incluso quello della sicurezza dove da più di dieci anni la Commissione finanzia progetti di ricerca e innovazione tecnologica sulla protezione delle infrastrutture critiche piuttosto che sulla risposta ad attacchi chimici o biologici, il contrasto al crimine organizzato o al terrorismo e più di recente la sicurezza cibernetica e la protezione dei confini dell’Unione. C’è quindi una vasta esperienza cui attingere, in termini di normativa, organizzazione o buone prassi.

Tuttavia, il campo della difesa presenta una propria specificità e sensitività politica che dovrà essere presa in considerazione, in quanto si tratta di finanziare lo sviluppo di tecnologie che serviranno alle forze armate dei Paesi europei nelle loro operazioni militari.

L’asse franco-tedesco, Bruxelles e Roma
Qui il piano istituzionale e tecnico incrocia di nuovo quello politico e geopolitico. Il lavoro della Commissione sull’attuazione dell’Edap, per quanto segua sue logiche di lungo periodo, tecnocratiche e sovranazionali, sarebbe inevitabilmente influenzato da una maggiore convergenza franco-tedesca nel campo della difesa.

Se i due Paesi Ue che, dopo l’uscita della Gran Bretagna, rappresenteranno una quota ampiamente maggioritaria sia delle capacità militari che di quelle industriali e tecnologiche andranno verso determinate direzioni e scelte, è molto probabile che queste ultime diventino il punto di riferimento anche per il ruolo delle istituzioni Ue in questo settore.

È in questo nuovo quadro che l’Italia deve aggiornare e approfondire l’aspetto europeo della sua politica di difesa, inclusa la dimensione industriale e tecnologica - tema peraltro al centro del convegno IAI in programma a Torino il prossimo 19 maggio.

Una probabile convergenza in chiave europeista tra Berlino, Parigi e Bruxelles presenta nuove opportunità per Roma di inserirsi con proposte funzionali ai propri interessi nazionali oltre che a quelli europei. Ma presenta anche il rischio per l’Italia di restare solo spettatrice delle rapide scelte altrui, se non sarà in grado di influenzare tempestivamente scelte comuni.

Guardando laicamente al fatto che anche il leader straniero più europeista non avrà mai come sua priorità quella di aiutare l’Italia, e che le istituzioni Ue faranno quello che potranno per l’Unione nel suo insieme, resta sempre valido il vecchio detto “aiutati che Dio t’aiuta”.

Alessandro Marrone, Responsabile di Ricerca Programma Sicurezza e Difesa; Twitter @Alessandro__Ma.

martedì 9 maggio 2017

1866. Quattro Battaglie per il Veneto.

Lissa

Bezzecca

Sedowa
Custoza

Conferenza: Giovedi 11 maggio 2017 ore 17.

Sede UNUCI

 Spoleto

CONFERENZA DI

 MASSIMO COLTRINARI

su

"1866. QUATTRO BATTAGLIE PER IL VENETO"

La Terza Guerra di Indipendenza



Volontai Garibaldini


Cavalleria Italiana



Le Guide e gli Ussari di Piacenza

1866 Quatro Battaglie per il Veneto. Il Piano di Garibaldi


Di seguito lo schema grafico del piano di Giuseppe Garibaldi del 1866
Aveva come base l'idea di inviare 3000 volontari nell'area di Trieste. Dopo sbarcati operare nelle montagne restrostanti a ridosso delle vie di comunicazione cercando di prendere contatto con i Patrioti ungheresi contrari all'Austria. Tutto si basava sulla rete delle Logge Massoniche opportunamente allertate.
 Un piano diversivo prevedeva lo sbarco di oltre 10000 uomini in Dalmazia che avrebbero dovuto procedere verso nord e cercare di collegarsi con le forze sbarcate a Trieste
 Il piano, sostenuto dalla Prussia che lo giudicava ottimo,  non fu accettato dallo Stato Maggiore Italiano, per tema che Giuseppe Garibaldi, già popolarissimo per via della Spedizione di Mille acquisisse ulteriore popolarità nei confronti delle forze monarchico-liberali su cui si poggiva il Governo Lamarmora.



Per impiegare in qualche modo Giuseppe Garibaldi ed i suoi volontari
gli fu assegnato il fronte ad occidente del lago di Garda. Un fronte assolutamente inutile e strategicamente insignificante, a conferma della emarginazione che nel 1866 Garibaldi e tutto il movimento progressista mazziniano subiva.


Il risultato di queste scelte fu che i volontari garibaldi operarono senza poter 
influire sulle operazioni principali
 con il risultato di non incidere positivamente sull'esito della guerra 

1866 Quattro Battaglie per il Veneto

Si riporta la Prefazione di Giancarlo Ramaccia al Volume
di Massimo Coltrinari
"Quattro battaglie per il Veneto"
 di prossima edizione  


Prefazione

Il 20 giugno 1866 fu consegnata all’arciduca Alberto d’Asburgo, comandante supremo delle forze austriache dislocate in Italia, la dichiarazione di guerra del Regno d’Italia, che fissava al giorno 23 del medesimo mese l’inizio delle ostilità. Come al solito entrammo in guerra con tre giorni di ritardo dalla dichiarazione e sei giorni dall’inizio delle ostilità rispetto a quanto precedentemente pattuito con il nostro alleato prussiano. Tale ritardo non poteva che irritare notevolmente e aumentare la diffidenza dei vertici politico-militari di Berlino, che già di loro dubitavano delle buone intenzioni dei vertici del giovane Regno d’Italia.
In ogni caso la dichiarazione di guerra, presentata all’impero austro-ungarico, fu accolta nel paese con grandi manifestazioni di consenso, accese grandi aspettative nella popolazione e produsse una straordinaria eccitazione patriottica, come ben documenta, nel suo diario, Sidney Sonnino, allora giovane ed entusiasta patriota toscano: “Gran giorno per l’Italia! Per la prima volta in tutta la sua storia essa si solleva tutta a rivendicare sola il suo diritto! Mai, mai si è visto un fatto simile. Felici noi che vi assistiamo![1].  Per il Sonnino, come per molti se non per tutti, la nuova guerra sarebbe stata breve e vittoriosa. In nessun caso si valutarono le conseguenze di una possibile sconfitta. Dopo le non brillanti vicende militari degli anni precedenti, come la guerra del 1848/49, il buon senso  avrebbe dovuto suggerire una valutazione “più cauta” da parte dei vertici politico-militari italiani. Invece, l’essere sconfitti risultava impensabile e inaccettabile da tutti gli appartenenti al nostro ceto dirigente, anche perché le conseguenze politiche erano troppo spaventose da sostenere per il giovane e debole Stato unitario. Poi gli Austriaci non combattevano su due fronti? Il nuovo esercito italiano contava ora ben venti divisioni e non più le cinque piccole divisioni del Regno di Sardegna della guerra precedente. La nostra flotta era il doppio di quella austriaca e con un numero  maggiore di corazzate, dodici contro le sette austriache, quindi sulla carta e solo sulla carta il Regno d’Italia aveva tutti i numeri e il diritto di aspettarsi una vittoria. Anche per questo motivo ciò che avvenne nelle settimane successive fu traumatico e profondamente doloroso per tutto il Paese.
Per comprendere al meglio la situazione si deve ampliare il quadro alle vicende politiche degli anni precedenti e agli enormi problemi che il giovane Stato dovette affrontare. Ben cinque furono le questioni principali e tutte intrecciate tra loro, ossia: il brigantaggio in larga parte del Paese; la crisi economica; la morte del Conte di Cavour; la questione romana e la conseguente crisi dei rapporti con la Francia, in particolar modo con l’imperatore Napoleone III; la costruzione del nuovo Esercito unitario. Tralasciamo le questioni minori ma che minori, per il giovane nascente Stato unitario, non furono.
Il 15 febbraio 1861 il Re delle Due Sicilie Francesco II di Borbone, proclama la resa della fortezza di Gaeta dove si era rifugiato dopo le sconfitte subite ad opera dell’armata garibaldina e il successivo intervento sabaudo, imbarcandosi, dopo una lunga trattativa diplomatica, su una nave francese che lo porterà a Roma dove rimarrà in esilio, ospite di Papa Pio IX. Solo dopo il gen. Cialdini potrà occupare la cittadina laziale che ha assediato e bombardato per ben 102 giorni. Successivamente anche le guarnigioni borboniche della cittadella di Messina e quella di Civitella del Tronto (A.P.) si arrenderanno definitivamente, ma nuclei rimasti fedeli a Francesco II continueranno a combattere unendosi a bande di contadini poveri e briganti, dando vita a una lunga guerriglia a cui si darà il nome di “brigantaggio”.
Questa insorgenza sociale era frutto di povertà endemica, di patti agrari esosissimi, di nuovi inasprimenti fiscali, di una nuova ed errata leva obbligatoria che provocò una disperata guerriglia dei contadini contro i proprietari terrieri e il nuovo governo “piemontese” che fu abilmente sfruttata politicamente da chi desiderava restaurare il Regno delle Due Sicilie. La rivolta armata scoppiò nell’aprile del 1861 in Basilicata e si estese a quasi tutto il meridione continentale.
Il nascente Regno d’Italia provò inizialmente a mediare politicamente con i legittimisti borbonici, nel tentativo di contenere il fenomeno, poi diede seguito ad una feroce e indiscriminata repressione. Migliaia di insorti, alzando le bandiere bianche borboniche, occuparono province e paesi, trucidando cittadini comuni, guardie nazionali e scontrandosi con i soldati italiani. La risposta fu durissima da parte dello Stato unitario: fucilazioni indiscriminate e senza alcun processo, interi paesi bombardati e incendiati, deportazioni di massa; tutto ciò accrebbe l’ostilità della popolazione meridionale nei confronti del nuovo Regno, di “quello dei piemontesi”. Se i soldati impiegati nel meridione furono non più di 50.000 nel 1861, solo tre anni dopo se ne impiegarono 120.000, ossia circa il 50% delle forze armate dello Stato. Esse svolsero prevalentemente compiti di ordine pubblico e di polizia, tralasciando l’addestramento e la preparazione militare, per dedicarsi, a tempo pieno, a combattere e reprimere questa vera e propria guerra civile. I dati ufficiali ci dicono che tra il 1861 e il 1865 (un anno prima dell’inizio della terza guerra di indipendenza) furono uccisi in combattimento o fucilati 5.212 “cosiddetti briganti” e altri 5.000  furono arrestati e carcerati, ma i dati ufficiosi parlano e raccontano un’altra verità, ossia di ben 15.000 o 20.000 uomini eliminati. Ciò produsse una lacerazione nel tessuto politico e sociale di cui a tutt’oggi ne riscontriamo le conseguenze. A questo gravissimo problema si aggiunse, per il nuovo Stato – che si era costituito a Torino il 18 marzo 1861 con la proclamazione da parte del primo parlamento italiano del Regno d’Italia – una serie di gravissimi problemi finanziari.
Essi erano il frutto dei costi per l’unificazione nazionale che comprendevano le spese sostenute per le guerre di unificazione con l’aggiunta del consolidamento dei debiti ereditati dai periodi precedenti e dovuti ai sette Stati pre unitari e alle ben nove amministrazioni finanziarie che avevano sistemi monetari diversi, diversi modi di contabilizzare oltre a diversi criteri di imposizione fiscale e di riscossione delle imposte. Sommando tutti questi costi risultò, per il nuovo Stato, un debito pubblico esorbitante, ossia 111.500.000 lire. A questa enormità si dovette far fronte con soluzioni che risultarono non risolutive ed efficaci, anzi aggravarono ulteriormente la già difficile situazione economica.
Allo scoppio della guerra dell’ottantasei questo problema parve addirittura insormontabile, con le entrate effettive dello Stato che coprivano appena i due terzi delle uscite e con una sicura prospettiva di incremento, dovuta alle nuove spese che si dovevano sostenere per la nuova guerra. All’enorme disavanzo si provvedeva con l’emissione di nuovi titoli di debito a copertura dei prestiti esteri, proprio nel momento in cui una crisi economica gravissima si abbatteva sui mercati borsistici europei (Borsa di Londra e Parigi) dovuta in gran parte agli enormi prestiti americani per la guerra di secessione e al pagamento delle grandi quantità di cotone importate dall’India, tra il 1861 e il 1865, per il fermo di produzione del mercato americano. Inoltre il clima di conflitto che si respirava in tutte le cancellerie d’Europa creava la giusta miscela per la caduta delle quotazioni dei titoli nelle principali Borse europee.
Il 6 giugno 1861 il nuovo Regno d’Italia perse il suo principale artefice, dopo una brevissima malattia, muore a Torino, improvvisamente, il presidente del Consiglio dei Ministri Camillo Benso conte di Cavour. Egli era lo stratega, il politico più grande che il nostro Stato unitario abbia mai avuto, perché pur lasciando alla sua morte fedeli sostenitori del progetto di unificazione del Paese, non lasciò un vero e proprio erede, nessuno dei suoi seguaci era in grado di elaborare una strategia per il completamento dell’unione territoriale e costruire un nuovo Stato alla base di una comunità ampliata e solidale. Si dà inizio ai governi “brevi” (ben sei ministeri si succedettero dal 1861 al 1866), a governi che “navigano a vista” con politiche miopi e di breve durata, incapaci di elaborare e perseguire una strategia di lungo periodo.
Cavour, invece, nei mesi precedenti alla malattia, aveva cercato di definire nei confronti della questione romana una netta posizione governativa. In due discorsi alla Camera, sostenne che solo Roma poteva ricoprire il ruolo di capitale d’Italia e che era necessario procedere alla sua liberazione per unire e cementare le diverse popolazioni italiche, ma che ciò doveva avvenire con “l’accordo” della Francia e senza mai intaccare la libertà spirituale e l’indipendenza del sommo pontefice. In cambio della cessione del potere temporale, al pontefice verrebbe corrisposta una cospicua rendita annua. Era questo il modo di recuperare i rapporti diplomatici con la Francia e in particolar modo quelli con l’imperatore Napoleone III, dopo le tensioni dovute all’assedio di Gaeta.
In linea con questa impostazione, il suo successore al governo Bettino Ricasoli redige un progetto di conciliazione che invia rispettivamente alla Cancelleria francese e a quella dello Stato pontificio; ma tale progetto ottiene un netto rifiuto francese ad aprire una qualsiasi trattativa su quella base.
Nel 1862 a seguito di una delle tante riconciliazioni tra Garibaldi e Mazzini e con l’appoggio dell’associazione emancipatrice italiana si progetta una spedizione di volontari a Roma e subito alcuni ufficiali garibaldini cominciano a raccogliere i volontari. Nel mese di giugno Giuseppe Garibaldi si reca come privato cittadino in Sicilia ed è accolto da grandi manifestazioni popolari e affermando la necessità di una spedizione armata per liberare Roma pone la condizione di trovare un accordo con il re Vittorio Emanuele II. A Marsala promuove il giuramento “o  Roma o morte” e subito l’associazione emancipatrice italiana fa sua la parola d’ordine e aderisce al giuramento. Alcune settimane dopo, trasferitosi a Palermo, Garibaldi organizza la legione romana e annuncia di muovere contro lo Stato pontificio al grido di “Italia e Vittorio Emanuele, o Roma o morte”. Una grave crisi si profila all’orizzonte con la Francia, ostile e pronta all’intervento in difesa dello Stato pontificio. Al governo italiano non resta che decretare (20 agosto) lo stato d’assedio nelle province napoletane e inviare truppe regolari dell’esercito, al comando del colonnello Pallavicini di Priola, per bloccare la spedizione. Durante un breve conflitto sull’Aspromonte, nient’altro che una scaramuccia, Garibaldi, che era al comando di 1.300 volontari, viene ferito al piede e si arrende, venendo posto agli arresti. Al diffondersi della notizia, che provoca una grande emozione non solo in Italia e violente manifestazioni antigovernative, il Rattazzi cerca senza riuscirci di forzare i tempi di una soluzione diplomatica e infine il 20 novembre 1862 si rassegna e presenta le sue dimissioni dal ministero. I rapporti con la Francia diventano di nuovo gelidi. Segue un lungo lavorio diplomatico per ricostruire i rapporti che permetteranno di stipulare un trattato di libero scambio (17 gennaio 1863) tra i due paesi e nell’anno successivo di gettare le basi di un accordo sulla questione romana. Gioacchino Pepoli, inviato dal nuovo governo presieduto da Marco Minghetti, avanza l’idea di trasferire la capitale d’Italia da Torino ad un’altra città, come segnale dell’abbandono del progetto di fare Roma capitale d’Italia e in cambio chiede alla Francia di procedere al ritiro graduale delle sue truppe di stanza nello Stato pontificio. L’accordo verrà raggiunto ed a Parigi, nell’agosto del medesimo anno, si procederà alla firma “della convenzione di settembre” (15 settembre 1864), che prevedeva il ritiro delle truppe francesi da Roma nell’arco dei successivi due anni, per dare il tempo al governo papale di costituire un suo esercito. In cambio il Regno d’Italia si impegna a rispettare l’integrità dello Stato pontificio. E’ questo un incredibile gioco delle parti, dove tutto è ambiguo, infatti i francesi interpretano l’accordo come una rinuncia definitiva da parte italiana del progetto di Roma capitale, mentre per noi Italiani è null’altro che il primo passo verso la soluzione delle controversie con la Francia e un avvicinamento a Roma. Solo Pio IX esprime delusione e manifesta nuove paure.
Sul versante internazionale ferve la controversia tra la Prussia e l’Austria sulla sorte dei ducati dell’Holstein, dello Schleswig e del Lauenburg di proprietà personale del re di Danimarca e che le due potenze hanno occupato. Entra nel vivo il conflitto, per molti anni latente tra la Prussia e l’Austria, per il primato e l’egemonia sulla Confederazione degli Stati tedeschi.
Otto von Bismarck, presidente del Consiglio prussiano, che già nel 1862 aveva sondato il ministro italiano a Berlino, Da Launay sulla possibilità di una alleanza italo-prussiana, incarica il suo ministro a Firenze Conte Usedom di sondare il capo del governo Alfonso Ferrero La Marmora in relazione a quale atteggiamento avrebbe assunto il suo governo nel caso di una probabile guerra tra la Prussia e l’Austria. La Marmora risponde che non può prendere nessun impegno senza prima conoscere quale atteggiamento sarebbe stato a sua volta preso dalla Francia in merito a tale questione. Per questo motivo incarica il ministro italiano a Parigi, Costantino Nigra, di sondare sulla questione il ministro degli Esteri francese Drouyn de Lhuys, il quale suggerì “prudenza e di attendere gli eventi”. Bismarck, insoddisfatto della risposta italiana e soprattutto dell’atteggiamento ambiguo dell’Imperatore francese Napoleone III decise, provvisoriamente, di stipulare la Convenzione di Gestein con l’Austria, conservando quindi per la Prussia l’amministrazione del ducato dello Schleswig e lasciando all’Austria il ducato dell’Holstein. Successivamente all’incontro di Biarritz, tra Napoleone III e Bismarck, dei primi di ottobre del 1865, Bismarck rassicurato riprese la politica che mirava ad arrivare alla guerra e ad unificare la nazione tedesca con lì esclusione dell’Austria. Probabilmente in questo incontro Napoleone III sperò di ottenere un ingrandimento territoriale della Francia sul Reno e sul Belgio, promettendo di mantenere la neutralità nel conflitto tra Prussia e Austria, mentre Bismarck chiese a sua volta l’intervento dell’Italia nel prossimo conflitto, che mirava a conquistare il Veneto (già promesso da Napoleone III) dal 1859 e poter attaccare su due fronti l’Austria, come era stato progettato nel Consiglio della corona prussiana del 29 maggio 1865. A questo accordo verbale fece seguito da parte di La Marmora  un tentativo di trattativa diretta con l’Austria per ottenere la cessione del Veneto, contando molto sulla minaccia di una  guerra sui due fronti per ammorbidire l’intransigenza austriaca. Nell’ottobre del 1865 incaricò un suo rappresentante personale, il conte reggiano, Alessandro Malaguzzi – Valeri, che aveva autorevoli amici e parenti a Vienna, di intraprendere una trattativa segreta con il conte Belcredi, presidente del Consiglio austriaco, per la cessione del Veneto a fronte di una indennità versata dall’Italia di un miliardo di lire. Pur riscontrando da parte del governo austriaco un interesse favorevole alla proposta, la dura opposizione dell’imperatore Francesco Giuseppe e della sua corte fece fallire la trattativa. Non restava altro che seguire i consigli francesi che invitavano ad orientarsi verso la politica antiaustriaca di Bismarck.
Il 31 dicembre 1865, Alfonso Ferrero La Marmora costituisce il suo secondo ministero, dopo una lunga e difficile crisi di governo nata dalla sfiducia votata dal Parlamento in relazione al decreto legge relativo al servizio di tesoreria statale da affidarsi alla Banca Nazionale. Provvedimento economico che avrebbe aggravato ulteriormente la crisi di debito del Regno d’Italia. Oltre alla presidenza del Consiglio mantenne per sé il ministero degli Esteri e chiamò al ministero della Guerra il generale Ignazio di Pettinengo e ai Lavori pubblici Stefano Jacini che fu il suo più ascoltato consigliere nella fase preparatoria della guerra.
Nel frattempo i rapporti austro-prussiani si fecero sempre più tesi e aumentarono le probabilità della guerra. A seguito della decisione presa dal Consiglio dei Ministri prussiano del 28 febbraio 1866, Bismarck chiesa a La Marmora di inviare a Berlino un alto ufficiale per trattare un’alleanza militare. La Marmora scelse di inviare il generale Govone con l’incarico di verificare la preparazione militare prussiana, che nell’occupazione dei ducati non aveva particolarmente brillato per preparazione militare e di restare sul vago sulle questioni diplomatiche. Anche perché il suo invio era stato sollecitato al governo italiano da parte di Napoleone III che mirava ad una alleanza tra Italia e Prussia. Napoleone III in questa complicata partita, dalla quale sperava di acquisire per la Francia ingrandimenti territoriali, con il consenso della Confederazione germanica usava l’Italia come una pedina da muovere a suo piacimento sullo scacchiere politico continentale. Egli voleva che l’Italia ottenesse il Veneto ma senza una guerra o con una guerra non seriamente combattuta in modo tale che il merito fosse suo e della Francia; in questo modo mirava ad esercitare sul giovane Regno d’Italia un semi protettorato. Per lui l’Italia unita doveva diventare una potenza di rango inferiore, strettamente legata agli interessi politico economici francesi. L’8 aprile 1866 a Berlino, l’Italia firma un trattato segreto di alleanza con la Prussia, un trattato a “tempo determinato” valido per soli 3 mesi a partire dalla data della firma apposta per noi dal generale Govone e dal ministro a Berlino conte Barral. Era questa una alleanza “offensiva-difensiva” in cui l’Italia si impegnava a dichiarare guerra all’Austria appena la Prussia avesse iniziato le ostilità; ognuno dei due Stati si impegnò a non concludere armistizio o pace senza il consenso dell’altra, fino a quando l’Austria non avesse accettato di cedere il Veneto e la provincia di Mantova all’Italia e alla Prussia territori equivalenti per popolazione.
Il trattato era squilibrato e a favore della Prussia, non veniva menzionato il Trentino, per un netto rifiuto di Bismark che lo considerava parte integrante dell’Impero Austro-ungarico, anche se verbalmente e in privato, garantiva che avrebbe appoggiato tale richiesta una volta giunti al tavolo della pace e solo se durante la guerra l’Italia fosse riuscita ad impadronirsi del territorio. Il trattato era alquanto umiliante per l’Italia per la sua unilateralità, infatti la Prussia non assumeva nessun impegno nei confronti dell’Italia. Inoltre un madornale errore di valutazione di La Marmora complicò la situazione, egli rifiutò la proposta avanzata dal generale Govone di allegare al trattato una convenzione militare, che avrebbe permesso di conoscere in precedenza i piani prussiani e quindi di coordinare i propri impegni sulla effettiva condotta della guerra. Ciò generò ulteriore diffidenza da parte prussiana sulla reale volontà italiana di condurre la guerra con impegno ed energia. Era impensabile per i nostri governanti una politica diversa perché troppo esposti politicamente e finanziariamente con l’ambigua politica di Bonaparte.
Il 3 maggio 1866 il governo prussiano iniziò la mobilitazione e a seguito di ciò il 5 maggio il governo austriaco fece sapere a Parigi di essere disposto a cedere il Veneto a Napoleone III, affinchè tramite lui fosse ceduto all’Italia a patto che l’Italia rompesse l’alleanza con la Prussia e si dichiarasse neutrale. La Marmora, colto di sorpresa dall’offerta austriaca, rifiutò cercando al tempo stesso di guadagnare tempo e proponendo un congresso internazionale con le principali potenze del Continente per definire la controversia tra Italia-Prussia-Austria. Questa proposta sfumò definitivamente alcune settimane dopo quando una nota austriaca (1 giugno) dichiarò di essere pronta a partecipare al congresso a patto che fossero esclusi dalle risoluzioni finali modifiche e ingrandimenti territoriali. Il 12 giugno avveniva la rottura definitiva delle relazioni diplomatiche tra Berlino e Vienna e nello stesso giorno, sempre a Vienna, veniva firmato un accordo tra l’Austria e la Francia, in base alla quale la Francia si impegnava a rimanere neutrale nel conflitto che opponeva l’Austria alla Prussia; Napoleone III si impegnava a sua volta a fare il possibile perché l’Italia restasse neutrale o conducesse la “guerra senza impegno” e l’Austria a sua volta si impegnava a cedere il Veneto a Napoleone III al quale garantiva ulteriori compensi territoriali nel caso di vittoria da parte sua e con modificazioni territoriali in Germania. Infine Napoleone III si impegnava a sua volta a cedere il Veneto all’Italia in cambio di una indennità all’Austria e del riconoscimento da parte italiana del potere temporale dei papi. Il giorno stesso della firma, Napoleone III convocò il ministro italiano a Parigi, Costantino Nigra, e nel colloquio che seguì informò ufficialmente di quanto sottoscritto a Vienna e chiese a Nigra che “l’Italia non facesse guerra con troppo vigore”.
Otto giorni prima della dichiarazione di guerra all’Austria, per noi la guerra era già vinta . A questo punto il 17 giugno (giorno della dichiarazione di guerra della Prussia all’Austria) Alfonso Ferrero La Marmora si dimette da presidente del consiglio restando in ogni caso ministro senza portafoglio e assume il comando dello Stato maggiore raggiungendo il Re al fronte. Al suo posto di Presidente del Consiglio subentra Bettino Ricasoli che ad interim assume anche il ministero degli esteri e quello dell’interno.
Inizia la terza guerra d’indipendenza e dà vita alle sue battaglie che l’autore del testo, l’amico Massimo Coltrinari, ricostruisce con perizia e nel dettaglio, con la perizia e la precisione propria dello storico militare e del militare di carriera, più precisamente dell’ufficiale in servizio di stato maggiore fedele ai principi e alla filosofia di chi ideò e progettò tale servizio; ossia uno dei massimi protagonisti di questa guerra il generale Helmuth Karl Bernhard von Molke capo di stato maggiore dell’esercito prussiano nella guerra dell’86.
Ogni guerra ha caratteristiche sue proprie e differisce dalle precedenti, questa ha caratteri suoi peculiari; è la prima del giovane Regno d’Italia; la forza italiana è quadruplicata in confronto a quella del Regno di Sardegna, 20 divisioni contro 5; la Cavalleria, anche se pesante, muove 100 squadroni e solo l’artiglieria è poco numerosa, anche se di maggior calibro il che la rende meno mobile. La deficienza maggiore, per il nostro esercito riguardava il “quadro ufficiali” fortemente eterogeneo (ciò era dovuto all’assorbimento nell’esercito sardo dei quadri di diversa provenienza: borbonica, toscana, dello Stato Pontificio e dell’armata garibaldina) e di diversa preparazione e capacità militare. In modo particolare mancavano comandanti capaci a livello di battaglione e di reggimento. I comandanti di brigata erano personalmente coraggiosi, ma la loro cultura professionale era a dir poco scarsa. Per non parlare della totale assenza di uno Stato Maggiore e di vertici politico militari in concorrenza e in contrasto tra di loro. Ai nostri 258.000 combattenti effettivi (250.000 del Regio esercito più 38.000 volontari garibaldini) su 565.000 uomini mobilitati con 462 cannoni si opponevano 61.000 combattenti austriaci su 190.000 mobilitati e 152 cannoni, con un rapporto a nostro favore di tre a uno, eppure non riuscimmo a vincere sul campo. Non avevamo un piano, dividemmo le nostre forze tra il Mincio (12 divisioni) e il Po (8 divisioni), dividemmo il comando tra La Marmora e il Cialdini ed infine il primo giorno di scontro ci demmo per vinti con ben 15 divisioni integre che non avevano preso parte neanche ad una scaramuccia e con 320.000 uomini di riserva. Alla “figuraccia” del nostro esercito i vertici politico militari cercarono di rimediare sul fronte del mare, dove la nostra flotta, potente “sulla carta e non sul mare”, regalò al Paese un’altra umiliante sconfitta.
 Arrivati a questo punto non ci restò, il 3 settembre 1866, che firmare la pace che conservava l’umiliante clausola della cessione del Veneto all’Italia attraverso la consegna da parte della Francia di Napoleone III. L’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe riconobbe il Regno d’Italia, riconsegnò la “corona ferrea” che gli Austriaci al termine della guerra del 1859 avevano portato a Vienna e noi ci accollammo altri 91 milioni di debito pubblico del Veneto.
Questa nostra prima guerra in Italia fu un’ impresa assolutamente deludente e generò durissime polemiche in tutto il Paese negli anni successivi. I nostri vertici politico – militari a cominciare da Alfonso Ferrero La Marmora e dal Cialdini furono impari al loro compito, non seppero impostare e condurre con efficienza la guerra anche perché il governo italiano preparò diplomaticamente la guerra con la speranza di non farla e con la certezza di aver ottenuto il proprio premio ancora prima di iniziarla.
La brutta figura e la rabbia popolare crescente nel paese imposero di trovare un colpevole e quindi, il 1 dicembre 1866, fu arrestato l’ammiraglio Persano per essere giudicato dal Senato, costituito in Alta Corte di giustizia, sulle sue responsabilità nella battaglia di Lissa, ma molti altri avrebbero dovuto comparire con lui come chiaramente afferma Carlo Cattaneo in una sua lettera inviata il 9 ottobre 1866 al senatore Giuseppe Muzio:  “Ormai, nella memoria della nazione e delle nazioni – e nella coscienza del soldato – Custoza e Lissa sono parte d’un reato solo. Nessuno ha ormai forza di sciogliere quel nodo. Il Senato è giudice unico e supremo dei colpevoli: può, se vuole, assolver tutti, ma deve giudicare tutti. Anzi, se v’è reato, il suo punto culminante è già Custoza. Lissa è il tardo e inutile strascico d’una guerra morta. Se potè avere un proposito doloso, è solo in quanto fosse intesa a ostentare, oltre ad un’impotenza militare del Regno, anche una impotenza marittima. Solo la presenza d’un accordo segreto può spiegare un simulacro di guerra di cui non v’ha forse esempio al mondo. Esser liberi d’ogni movimento, anche nelle giurisdizioni federali germaniche del Tirolo e dell’Istria; avere a fronte un nemico già umiliato e vacillante, ricinto, fin entro le sue montagne, le sue fortezze e le sue navi, da tre milioni di popolo fremente; avere in pugno più di 300.000 soldati; portarne al fuoco, per volontà premeditata, nemmeno la quinta parte; e darsi vinti, come per “disastro irreparabile” è una sì strana prova d’arte militare che non è lecito imputarla a nudo errore. Il Senato non può esigere il rendiconto di Lissa senza esigere il rendiconto di Custoza (…). A Lissa non si vede come a Custoza il proposito sofistico di vincere senza vincere, non si vede l’umile accordo con lo straniero imperioso, il vile accordo col burbero nemico, non si vede il traffico dell’onore col guadagno, la guerra finta eppur sanguinosa che pone per sempre nel cuore del soldato non la fiducia della vittoria, ma il ghiaccio del sospetto. E’ per queste arti indegne che l’Italia aveva perduto a memoria nostra l’onore delle armi” [2]Centocinquant’anni dopo queste parole di Cattaneo, che colgono nel segno tutto l’ operato della guerra dell’’86 e che invitano al rinnovamento morale e culturale del Paese per divenire uno Stato moderno, ci appaiono terribilmente attuali nella nostra terra italica, nella terra dei “gattopardi”, dove tutto sembra che cambi, ma dove non cambia mai nulla.
Giancarlo Ramaccia



[1] S. Sonnino,Diario 1866-1912, Bari, Laterza, 1972, vol I, pag.43

[2] Cattaneo C., Epistolario,  Pag. 425/426, Vol. IV