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Contro tutti e tutto. I soldati Italiani nei Balcani nel 1943

Il Volume "La Divisione "Perugia" Dalla Tragedia all'Oblio" è disponibile in tutte le librerie. ISBN 886134305-8, Roma, 2010, Euro 20,00 pag. 329.



Ordini: ordini@nuovacultura.it, http://www.nuovacultura.it/ Collana storia in laboratorio;

Un Triste destino per la Divisione "Perugia"

Un Triste destino per la Divisione "Perugia"
La Divisione "Perugia" avrebbe avuto miglior sorte se Informazioni ed Intelligence avessero trovato più ascolto presso i Comandi Superiori

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lunedì 31 maggio 2021

Maria Luisa Suorani Quersoli

 

La scomparsa improvvisa del Capo di Stato Maggiore Alberto Pollio

alla vigilia della Grande Guerra

 

Chi si accinge allo studio della Grande Guerra   incontra  la figura di Alberto Pollio inevitabilmente collegata alla nomina a Capo di Stato Maggiore del Generale Luigi Cadorna (avvenuta a seguito della subitanea scomparsa del Generale casertano, suo predecessore). In prospettiva, lo spazio dedicato alla figura del Generale Pollio è davvero minimale rispetto sia al suo spessore sotto il profilo militare, sia alla portata delle conseguenze inerenti alla sua morte sulle sorti del Paese.

Egli era un convinto triplicista.

Proveniente dalla Nunziatella, approdò infine alla Scuola di Guerra di Torino. Le notevoli doti gli valsero la considerazione del Re Umberto I[1], anch’egli più vicino all’Austria di quanto non lo fossero gli Ufficiali piemontesi che vedevano in essa prevalentemente il nemico storico. 

Il regicidio colpì profondamente Pollio.

Se si compara, anche per sommi capi, l’indirizzo politico preso successivamente dall’Italia con le convinzioni radicate e lo spessore militare notevole[2] di Pollio i dubbi che circondano tuttora la sua prematura scomparsa sembrano assumere una certa consistenza. Il viaggio a Torino in ottime condizioni di salute, una lieve indigestione rivelatasi subdolamente fatale, le inspiegabili  infrazioni sul piano formale[3] rendono legittimo interrogarsi sulle reali dinamiche della morte dell’uomo di vertice dell’Esercito Regio: la sua presenza costituiva un fiero ostacolo sul piano politico, insormontabile  tanto da oscurare le sue innegabili capacità sul comando degli uomini e sull’impiego efficace delle nuove tecnologie. Inutile riflettere su ciò che non fu. Risulta opportuno invece ricordare che, dopo la XII Battaglia dell’Isonzo, il comando del Regio Esercito fu affidato al generale Diaz, fermo nel trattare con l’interlocutore politico, vicino al Generale Pollio da molti anni[4], allo stesso Diaz al quale per primo pervenne la comunicazione della morte improvvisa del Capo di Stato Maggiore con la pietosa consegna di comunicare la notizia ferale alla famiglia.  



[1] «L’ultima volta che lo vidi a Napoli fu il giorno dell’attentato di Passanante. Eravamo schierati davanti al Palazzo Reale, attendendo l’arrivo del Sovrano che faceva il suo ingresso ufficiale. Ad un tratto da Toledo vedemmo spuntare Pollio al galoppo, passare davanti a noi stravolto in viso e l’udimmo gridare al mio capitano: «Hanno pugnalato il Re» e poi sparire entro il palazzo» (E. De Rossi, La vita di un ufficiale italiano sino alla guerra, Milano: Mondadori, 1927, p. 22).

[2] L’anno precedente alla nomina a Capo di Stato Maggiore così veniva descritto Alberto Pollio da un suo Superiore: «ha tutti i requisiti per raggiungere i più elevati gradi della gerarchia; e più si troverà in posizione eminente, meglio potrà esplicare tutta la sua intelligenza, operosità ed iniziativa e saprà acquistare quell’ascendente tanto necessario per ottenere il volonteroso concorso di tutti nella attuazione dei suoi concetti … Auguro, nell’interesse dell’Esercito, che egli possa in più vasto ambiente mettere in luce tutto il suo valore» (I Capi di Stato Maggiore dell’Esercito – Alberto Pollio – 4 Roma: Comando del Corpo di Stato Maggiore dell’Esercito, 1935, p. 10  in G. Catenacci, F. M. Di Giovine, Il Generale Alberto Pollio: dalla Nunziatella ai vertici dello Stato Maggiore del Regio Esercito Italiano, Scuola Militare Nunziatella, Società di Storia di Terra di Lavoro; Associazione Nazionale ex Allievi Nunziatella; Sezione Campania e Basilicata, Civitella del Tronto, 21 marzo 2015, p. 9). La testimonianza di un giovanissimo Eugenio De Rossi è conferma al giudizio espresso dal Superiore circa l’ascendente personale: «Ritornammo a Napoli ed alla stazione trovammo il capitano Pollio di Stato Maggiore. Rassomigliare a Pollio era il sogno di noi ragazzi. Egli allora era un bellissimo giovine, sempre inguantato, profumato, calzato a pennello. Alle parate non mancava mai di avvicinarsi a noi e rivolgerci qualche piacevolezza, facendo danzare un suo vivace morello» (E. De Rossi, La vita di un ufficiale italiano sino alla guerra, cit., p. 22).

[3] Il medico (la cui carriera paradossalmente decollò dopo l’infausto esito del suo operato) che si prese cura del Capo di Stato Maggiore non era un medico militare  (G. Catenacci, F. M. Di Giovine, Il Generale Alberto Pollio: dalla Nunziatella ai vertici dello Stato Maggiore del Regio Esercito Italiano, cit. p.15).

[4] Nel biennio 1895 – 96, Armando Diaz era in forze presso la segreteria del Generale Pollio.

giovedì 20 maggio 2021

La Guerra di Liberazione 1944 Il Terzo Fronte L'Ulteriore tradimento

 

La scelta di non aderire alle proposte di collaborazione al nazifascismo da parte degli Internati Militari Italiani fu una sorpresa sia per i tedeschi che per Mussolini.  Sia i tedeschi, come mano d’opera volontaria, sia Mussolini, come soldati delle forze Armate repubblicane, molto avevano contato su questa massa di giovani che nella sostanza era stata educata dal fascismo, nelle fila della Gioventù Italiana del Littorio. Il loro massiccio rifiuto fu la certificazione del fallimento del fascismo come regime, e per la Repubblica Sociale, una ennesima dimostrazione di debolezza agli occhi dei tedeschi. A tutto questo si cercò di porre rimedio con una operazione di vertice, ovvero trasformando lo status di Internato Militare in quello di “lavoratore civile”, accordo tra Hitler e Mussolini del 20 luglio 1944, firmato in circostanze drammatiche proprio nel giorno dell’attentato di von Stauffenberg alla Tana del Lupo. Nella sostanza poco cambiava: gli Internati, a prescindere da come era il loro status continuarono ad essere trattati dai tedeschi come schiavi, mentre quelli che avevano aderito avevano condizioni poco migliori dei non aderenti, ma sempre lavoratori coatti. Questo ennesimo tentativo di mascherare la non adesione sottolinea il significato di una decisione che rappresenta una delle scelte più difficili della Guerra di Liberazione. Cercare di minimizzare, o mascherare questa scelta è stata la caratteristica di questo fronte nel 1944, a cui si risposte da parte degli Internati Militari, in un contesto di disperata solitudine, con coerenza e determinazione a continuare nelle scelte iniziali. Per chi era cresciuto nella Gioventù Italiana del Littorio, ovvero quasi tutti fu un ulteriore tradimento.

 

 

lunedì 10 maggio 2021

La Guerra di Liberazione. 1944 Il Secondo fronte. Il movimento ribellistico . L'unità come regola base

 

Il 1944 per il II fronte, il movimento ribellistico nasceva dalle ceneri dei disastri dei mesi precedenti. Si era compreso che la rivolta armata non poteva essere condotta con i criteri della guerra classica. Occorreva adottare nuove tattiche, per evitare di essere sempre soccombenti di fronte ad un nemico agguerrito e più forte, con un armamento più potente ed adeguato.  Inoltre occorreva provvedere ad una logistica partigiana più accorta, meno labile, dipendente dal caso e dalla improvvisazione. Basilare la ristrutturazione del settore informativo, con contrasto efficace alle spie, ai delatori, agli opportunisti e ai doppiogiochisti.  Dal punto di vista militare le bande si organizzarono in modo tale da evitare lo scontro diretto, la difesa ancorata e soprattutto di attaccare in massa il nemico. Inizia una progressione di qualità militare che porterà le formazioni ribellistiche ad essere sempre più agguerrite. Oggi si direbbe la strategia del debole verso il forte, in cui non solo la guerriglia ma anche gli atti singoli, detti di terrorismo, furono adottati. Sulle montagne prese quindi sempre più forme dirette di guerriglia, mentre nelle città, i GAP e le SAP adottarono le tecniche terroristiche, con attentati e colpi di mano diretti a personalità e simboli della Repubblica Sociale italiana e dei tedeschi. Fu una progressione di miglioramento costante, mese dopo mese.  La reazione delle forze avversarie fu sostanzialmente inefficace e improduttiva, tutto basato sulla rappresaglia e sulla violenza incontrollata verso la popolazione, che sostanzialmente conquistare la quale era il vero obiettivo del movimento ribellistico che fu realizzato sul finire del 1944.

 Per i responsabili della Resistenza, risolto il problema militare, rimaneva quello principale, ovvero mantenere unite le forze che avevano deciso di ribellarsi.  I tedeschi fecero ogni sforzo per dividere le varie componenti del movimento ribellistico, soprattutto quelle di democrazia liberale, monarchica, cattolica e in genere, centrista. Ogni sforzo fu sventato e l’unità del fronte ribellistico fu mantenuta integra. Paradossalmente il vero colpo mortale al movimento fu portato, a metà novembre, da chi meno lo si aspettava: gli Alleati. Il proclama di Alexander del 20 novembre che invitava i ribelli a smobilitare e a tornarsene a casa per l’inverno fu in sostanza interpretato da amici e nemici come un invito ad abbandonare la lotta armata. Fu un momento molto difficile, che diede vigore agli avversari e metteva in discussione tutta l’architettura della Resistenza. Il 1944 fu un anno di crescita, di successi, di speranza che tutto si concludesse entro l’inverno ma che si concluse con una momentanea botta d’arresto, soprattutto politica e morale.

venerdì 30 aprile 2021

La Guerra di Liberazione. Il Primo Fronte. Il Regno del Sud. La lunga lotta per esistere

 Le vicende delle forze armate combattenti 

Il primo fronte deve combattere una sua propria battaglia per esistere. Dopo il ritiro dalle posizioni di Montelungo, sconfitti e con il morale bassissimo, la possibilità di avere truppe combattenti italiane stava per scemare. I Britannici insistevano per non concederle ed impiegare i soldati italiani solo nelle Divisioni Logistiche dette “Ausiliare”, mentre il solo sostegno statunitense poteva non bastare se le truppe ed i quadri mostravano le carenze disciplinari mostrate fino ad allora. Le diserzioni, ovvero l’assenza arbitraria e momentanea alle bandiere come si usava dire allora avevano caratterizzato la compagine combattente italiana. La rivolta di oltre 190 Allievi Ufficiali dei bersaglieri rimase significativa. Ci volle tutta la abilità del gen. Utili, e la sensibilità del gen. Messe per riuscire a controllare la situazione che stava degenerando in modo incontrollabile. La situazione migliorò nel mese di marzo con l’arrivo di unità integre dalla Sardegna. La felice azione di Monte Marrone fu la svolta che salvò la situazione: gli americani e quindi tutti gli altri alleati si convinsero che gli Italiani potevano ritornare utili nel prosieguo della guerra. Assegnati al settore adriatico, come divisone del Corpo d’Armata polacco, la bella prova di Filottrano a luglio, fece sì che gli Alleanti, compresi i britannici, anche per le esigenze ormai pressanti di “Anvil”, decisero non solo di accettare truppe combattenti italiane, ma anche di elevarne il numero da 25.000, e portarle a 40. /50.000 giugno luglio, e a settembre, a 250.000 con la creazione dei Gruppi di Combattimento. Intanto il numero delle unità logistiche, dette “Ausiliare” avevano raggiunto i 200.000 uomini.

La battaglia per l’esistenza come combattenti era stata vinta. Il Regio Esercito, e le altre Forze Armate partecipavano alla guerra, combattendo non solo come contributo alle esigenze logistiche. Per l’Italia si poteva sperare in un futuro migliore.

martedì 20 aprile 2021

La Guerra di Liberazione. il 1944 Le sclete sono terminate. I Parte

 

Il trauma della crisi armistiziale del settembre 1943 produsse i suoi effetti per anche nel mese di ottobre, di novembre e di dicembre. Con la fine dell’anno era ormai chiaro a tutti che l’Italia era divisa in due, che eserciti stranieri si combattevano sul suolo nazionale e che vi era una parte di italiani che operavano a favore di una coalizione ed una parte che operava per l’altra. Nel mezzo la massa di coloro che cercavano solo di sopravvivere. Molti di loro adottarono una forma di attesa, per vedere chi avesse prevalso, altri si adattavano alle circostanze e cercavano di approfittarne per migliore la propria posizione, altri sopravvivevano e basta, nelle tantissime difficoltà che la situazione presentava. Erano giorni tristi, difficili e in qualcuno si fece strada che il peggio doveva ancora avvenire. Le popolazioni meridionali erano leggermente avvantaggiate, in quanto il regime alleato era più tollerante. Il mercato nero fioriva, i vincoli sociali si stavano allentando, e l’autorità statale era molto labile, ma nella sostanza si sopravviveva senza patemi d’animo e apprensioni. Nel centro e nel nord Italia la popolazione era presa tra l’azione tedesca di occupazione e repressione e l’azione dei repubblichini di Salò animati da una grande voglia di ricostruire un fascismo che tutti, in un modo o nell’altro, anche inconsciamente, ritenevano che avesse fallito. Era iniziata la caccia ai “traditori”, a qualcuno a cui dare la colpa di tanti disastri e punirlo; nel contempo cercare di agire in modo tale che l’idea fascista, pura e scintillante, potesse essere finalmente realizzata. Tutti erano chiamati a vivere “pericolosamente”, ma nella realtà erano estremisti più velleitari che reali, in quanto tutto dipendeva dai tedeschi e dall’andamento della guerra, che peraltro non si sarebbe decisa in Italia.

mercoledì 7 aprile 2021

Rivista QUADERNI n. 3 del 2020 Luglio settembre 2020

 



Per la parte dedicata alla Storia, iniziano con questo numero le pubblicazioni dedicate al centenario del Milite Ignoto che ricorre il prossimo anno. L’’Istituto è particolarmente impegnato in questa data anniversaria, e la Rivista non può che assecondare questa scelta. Prosegue, sull’abbrivio della Giornata del Decorato del 2021, che non si è potuta celebrare per via della epidemia da Covid19, che non può fermare l’attività posta in essere a corredo scientifico di detta giornata, le note riguardanti la campagna di Sicilia del luglio 1943 e degli avvenimenti riguardanti la campagna d’Italia del 1944. Contributi di Massimo Coltrinari e Luigi Marsibilio, nell’ambito delle ricerche avviate a seguito dei Progetti in corso riguardanti le tematiche della Guerra di Liberazione, e una di Giorgio Clemente che affronta particolari situazioni di nostri militari durante la seconda guerra mondiale e una nota di Consalvo Dolce riguardante l’intervento dell’impegno degli Stati Uniti nel Vietnam.

 

Per la parte geografica apre Valentina Trogu trattando della sociologia della deterrenza, mentre in geopolitica delle prossime sfide, una nota sul covid e come viene affrontato, che fa riflettere sulla leaderschip degli Stati Uniti nel mondo occidentale e Luca Bordini che tratta della digitalizzazione nelle FF.AA. Infine Stefano Chiarle tratta dell’Ucraina e del suo cammino verso la democrazia.

 

Nelle rubriche, quelle relative al CESVAM si riportano alcune peculiari attività del Centro, con la evidenziazione delle realizzazioni editoriali mentre gli Indici della rivista QUADERNI ON LINE si riferiscono al III trimestre del 2020. Si può finalmente dire che un costante aggiornamento delle NOTIZIE CESVAM e degli eventi a cui si partecipa come CESVAM è possibile trovarlo sulla home page della piattaforma www.cesvam.org alla rubrica “Eventi” ed alla rubrica “Notizia CESVAM”, mentre è in progetto la pubblicazione su questa rivista dei contenuti dei vari comparti della piattaforma

La rubrica di chiusura riporta la iconografia brigate di fanteria della prima guerra mondiale, come tradizione di questa rivista.

Da ultimo, l’editoriale del Presidente Nazionale ed il Post editoriale del Direttore del Periodico sono intonati al tema della celebrazione del Milite Ignoto, nel solco delle scelte sopra dette, e dei contenuti evidenziati nella pubblicazione consorella. (massimo coltrinari)

 

In I di Copertina:  Lapide Commemorativa del Bollettino della Vittoria del 4 Novembre 1918

Per info: quaderni.cesvam@istituton

Per richiedere la rivista: segreteriagenerale@istitutonastroazzurro.org

mercoledì 31 marzo 2021

Maria Luisa Suprani Quersoli

 

Giulio Douhet e il Milite Ignoto

 

Anima e cuore di soldato italiano spirito colto geniale lungimirante fin dai primi tentativi dell’aviazione intravide l’ineluttabile avvento delle armate del cielo e per la patria una ne invocòstrenuamente con gli scritti e con la parola sprezzando ogni personale interesse. Di ogni ideale umano e patriottico fervidamente pervaso primo in Italia e fuori il culto del milite ignoto propose. Doveva triste destino del genio chiudere la vita perché le sue idee fossero attuate e fosse proclamato maestro.

 

MCMXXX  La vedova orgogliosa[1]

 

Ricorre il centenario del Milite Ignoto in un anno particolarmente critico per la Nazione, ancora prostrata dagli effetti della pandemia. Per evitare che, in tale contesto,  la ricorrenza possa venire annoverata fra le celebrazioni storico – militari distanti dalle istanze contemporanee, risulterà opportuno risalire alle idee che condussero al culto del Milite Ignoto per indagarne l’attualità. 

I contributi divulgativi intorno al centenario comparsi già dai primi mesi del 2021 si sono concentrati principalmente sugli elementi toccanti che seppero a suo tempo calamitare l’attenzione dell’intero Paese: la figura della madre di un soldato disperso, signora Maria Maddalena Bergamas, a cui fu affidato l’immane compito morale di indicare quale spoglia avesse dovuto rappresentare il valore ed il sacrificio di cui si rese capace il Soldato italiano, il viaggio che compì la Salma, onorata al suo passaggio dal saluto commosso dei cittadini presenti persino lungo l’intero percorso del treno e, non ultima, l’imponente e sentita cerimonia che decretò formalmente l’accoglienza del Soldato nel cuore della Patria. Sono ricordi che permangono vibranti nelle coscienze e le immagini del tempo raccontano efficacemente il clima di quei momenti dolorosi, rendendo possibile, anche a distanza di tanti anni, una partecipazione sul piano emotivo. Le dinamiche proprie del contesto attuale, assuefatto alla vista del dolore scomposto e assai poco incline alla riflessione,  rischiano però di impoverire la valenza dell’avvenimento, archiviandolo il giorno seguente la celebrazione.

Per giungere al significato essenziale e perenne di questa ricorrenza, non si può prescindere  dallo studio della personalità e delle idee di colui al quale si deve il ricordo del Sodato Italiano dall’identità illimitata.

L’ideatore dell’iniziativa fu il Maggior Generale Giulio Douhet (Caserta, 30 maggio 1869 – Roma, 15 febbraio 1930) che detenne il comando del Battaglione Aviatori. La sua fu una figura decisamente eccentrica per i canoni dell’epoca: l’esaltazione sincera ed intransigente del culto del dovere,  unita ad una vis polemica di rara efficacia, ne fece una figura invisa a molti per la convinzione unilaterale con cui sostenne le proprie vedute. Il Generale Eugenio De Rossi, primo ad essere decorato della Medaglia al Valore (personalmente dal Re) della Grande Guerra italiana[2], nelle sue memorie sintetizzava in una massima il segreto alla base di ogni riuscita: «Sapere, saper fare, saper vivere»[3]. Si può affermare, senza possibilità di essere smentiti, che Douhet ignorasse (volutamente) l’arte del saper vivere.

 

Spinto da una naturale tendenza – che impro­priamente venne classificata ipercritica – ho sem­pre interrogato ansiosamente i fatti che si anda­vano svolgendo intorno a me per trarne le neces­sarie conseguenze e, trattele, non ho mai avuto timore di enunciarle, fossi pur solo contro tutti.[4]

 

Alle sue vedute prospettiche (e profetiche), pressoché incommensurabili  con la realtà circostante, si deve l’impulso fondante che portò allo sviluppo dell’aviazione militare dei primordi.  Pur cosciente delle ripercussioni che l’assetto adottato avrebbe inevitabilmente avuto sugli sviluppi della sua carriera, si votò irreversibilmente  a perorare una causa che agli occhi dei suoi contemporanei risultava incomprensibile: ciò che più connotò il suo agire fu infatti la lungimiranza con cui seppe intuire la reale portata dell’aviazione di guerra in un momento in cui i velivoli erano ancora considerati da gran parte della società civile (e del mondo militare) una bizzarra attività sportiva, prediletta da qualche originale[5].

 

Se lei andasse a dire ad uno qualunque dei capi di stato o degli eserciti in lotta: «Io ho un cannone capace di mandare un proiettile di 500 chilo­grammi a 50 chi­lometri di distanza, occorre però una ferrovia per tra­sportarlo, piazzuole di cemen­to armato per piazzarlo, 400 uomini per servirlo, 6 ingegneri per curarlo, 6 geo­deti per puntarlo, ed ogni colpo costa 500.000 lire», lei troverebbe tutti i capi di esercito o di stato folli del suo cannone, perché a tutti sorgerebbe il pensiero che con esso potrebbero raggiungere obbiettivi posti a 50 chilo­metri dalla fronte nemica. Ma se invece di dire: «Io ho un cannone», lei dicesse «Io ho un aeropla­no che porta un proiettile di 500 chilogrammi non a 50, ma a 100, 200, 300 chilometri di distanza, che si trasporta da sé velocissimamente dove si vuole, che necessita di 4 uo­mini di equipaggio, che costa 100 mila lire in tutto» le brave persone dianzi nominate le sorriderebbero in fac­cia con aria compassionevole.[6]

 

La validità del suo pensiero, capace di precorrere i tempi, solo in seguito gli venne riconosciuta in patria (anche per i rapporti relativamente tranquilli instaurati con il Fascismo). A livello internazionale, il riconoscimento su larga scala della portata delle sue intuizioni fu postumo.  

Il suo assetto ragionevolmente impaziente (in costante attrito con i tempi propri dell’iter gerarchico) si convertì nell’impulso che portò ad innovazioni particolarmente efficaci sul piano bellico[7]. Ancora oggi, però, la memoria di Douhet è rievocata in merito alle aspre critiche rivolte all’operato del Comando Supremo circa il governo degli uomini[8] soprattutto in relazione al terremoto politico che a tale denuncia seguì. Douhet pagò le conseguenze della condivisione politica del suo dissenso con la detenzione che gli venne fatta scontare con particolare puntiglio.

Proprio dalle sue osservazioni sulla lontananza siderale fra le condizioni di vita delle truppe e la forma mentis degli Ufficiali (non propensa a conferire la priorità al rapporto fra costi umani e risultati) trae origine il nucleo morale che condurrà al riconoscimento del valore del Milite Ignoto.

Il sacrificio della vita di tanti, offerto o subìto, colmò lo scarto profondo che separava una visione obsoleta della guerra dalle reali esigenze della stessa, imperniate sull’impiego di tecnologie ancora non compiutamente assimilate. Non fu il solo Douhet a dimostrare il coraggio necessario ad affrontare questo tema, irto di insidie sul piano delle ripercussioni sulla carriera. Persino il Generale Capello, concettualmente incline all’offensiva (che riteneva capace di vincere interiormente il concetto di ingenita inferiorità provata nei riguardi del nemico), ancora comandante il VI Corpo d’Armata, denunziò lo stato inumano in cui si trovavano i Soldati, chiedendo la sospensione dell’offensiva in programma, anche a costo del proprio siluramento[9].

La vista di tale tristo spettacolo, capace di toccare le coscienze di figure militari avvezze alle asperità della guerra, pone in luce l’incomprensione da parte di alcuni Alti Comandi delle peculiarità del Soldato italiano, presente in linea senza il supporto (ed il conforto) della preparazione psicologica e professionale del militare di carriera ma disponibile, se sostenuto adeguatamente, ad offrire la propria vita senza ripensamenti.

 

Non solo mancano di ogni preparazione remota, di carattere morale ai sacrifici che la guerra impone, ma anzi hanno ricevuto, attraverso una falsa pro­paganda facilona di pacifismo internazionale, una educazione antimilitarista. Eppure, ad onta di tutto questo, al primo appello della patria han­no lasciata la loro professione e sono venuti alla guerra. E alla guerra combattono il ‘nemico’ e muoiono per vincerlo, senza forse avere in molti casi una idea o almeno senza avere mai saputo prima che cosa è un nemico della patria.[10]

 

Il giovane Regno d’Italia era ancora lontano dal concetto di nazione armata che poggiava le proprie basi su un idem sentire: il linguaggio stesso dei soldati non costituiva elemento di coesione (il tasso di alfabetizzazione era bassissimo e la stessa comprensione dei comandi non era affatto scontata). Inoltre, il vorticoso mutamento dei Comandi non permetteva quella continuità capace di nutrirsi della conoscenza reciproca fra Superiori e Sottoposti. Il Soldato, nella mentalità del tempo, era considerato alla stregua di un elemento impersonale dello strumento, retaggio del concetto di ‘macchina’ cartesiana[11], e la disillusione che egli provava di fronte al sacrificio vano dei commilitoni veniva interpretata in maniera negativa,  senza dar luogo alle opportune riflessioni finalizzate, se non altro, ad ottenere una partecipazione più attiva e convinta da parte delle truppe.

Alla vista di tale realtà, il conflitto interiore maturato in Douhet si condensò in intenzione di abbandonare il mondo militare. Le sue riflessioni appaiono impersonali e l’uso della prima persona singolare viene bandito:

 

L’una personalità non turba l’altra, che anzi il capo di Stato maggiore [della 5ª divisione], non avendo alcuna pretesa di fare come si dice carriera, né alcuna ambizione personale, agisce unicamente nell’interesse del servizio, indifferente nel modo più assoluto ai propri personali interessi, che non possono venire turbati, ed il mio io interno, soddisfatto dal dovere compiuto, può facilmente astrarsi e considerare dall’alto e lucidamente le cose che vanno svolgendosi intorno a lui. E le può considerare con indifferenza, non perché esse non lo turbino profondamente, perché talvolta il suo cuore piange lagrime di sangue nel constatare come questa povera patria, di cui oggi ognuno sventola il bandierone, sia così bistrattata, ma perché si trova nella assoluta impossibilità di influire in un modo qualsiasi; e deve quindi fare di necessità virtù.[12]

 

Ed ai poveri contadini e montanari tratti dai loro casolari io dovrei chiedere il sacrificio della vita in nome di una più grande Italia, sapendo quello che so, e se occorre, farne fucilare qualcuno, se non addirittura far decimare qualche reparto, qualora un attimo di titubanza invada le loro ani­me ignare, le loro coscienze infantili, le loro menti oscure. Sembrerebbe una situazione da pochade, se non si trattasse di una tragedia.[13]

 

Da tale inconspevolezza nasce l’essenza del Milite Ignoto: privo delle conoscenze necessarie, magari ancora attaccato al ricordo delle sue terre lontane, il Soldato percepisce di costituire parte di un disegno cosmico ineluttabile dalle dimensioni a lui sconosciute e sacrifica ad esso la propria vita, inconsapevolmente partecipe della grave dinamica storica.

Ed è proprio per questo che ancora tale Sacrificio conserva intatto tutto il suo valore, capace di rappresentare ogni Italiano che, a fronte delle difficoltà, anche obtorto collo, fa ‘del proprio meglio’,  sospinto dall’inestirpabile idea di un futuro migliore. La valenza del Milite Ignoto raggiunge così ogni anfratto della società civile.

I Comandanti avvezzi a vivere a stretto contatto con le truppe non risparmiarono le parole di lode nei riguardi dei propri soldati (è il caso del Generale Caviglia, di cui è nota la sobrietà) intuendone le potenzialità e saggiandone il coraggio. La visione della centralità della figura del fante, dopo la prova di valore che si palesò nella battaglia d’arresto sul Piave, iniziò poi a maturare nella coscienza collettiva. Coloro che riducevano il comando militare a pratiche burocratiche con risvolti di insensata spietatezza, dopo il culmine di criticità costituito dalla XII Battaglia, dovettero ricredersi e constatare che lo strumento risponde in ragione delle motivazioni che il comando è in grado di instillare.

Al termine del conflitto, dopo i giorni della vittoria che inebriarono il Paese, gli equilibri interni (anche all’Esercito) erano ben lontani dall’essere raggiunti. Douhet, formalmente pacificato[14] dalla crescente importanza conquistata dall’Arma Aerea, si era ritirato in disparte rassegnando alla vigilia della Battaglia del Solstizio le proprie dimissioni (accettate immediatamente dal Commissario generale Chiesa)[15], senza per questo minimamente rinunciare a sostenere le propie cause. In un contesto dove si poteva riscontrare la tendenza ad attribuire la vittoria ai propri meriti, il diaframma fra lui e le alte gerarchie non si era affatto assottigliato. Il suo distacco da quel tipo di ambiente aveva  origini in tempi precedenti:

 

Caro amico, di una cosa sola mi pento nella mia vita, e me ne pento amaramente, e cioè di essere un galantuomo e di avere avuto fede che gli altri mi rassomigliassero. Se, quando fui in aviazione, invece di pensare all’aviazione e di sognare di forgiare un’arma forte per il mio paese, io avessi lasciato correre le cose per la loro china, avessi accarezzato industriali e fornitori, avessi fatto un poco di politica sporca, non avrei certamente avuto la seccatura delle inchieste, sarei rimasto amico di tutti, sarei a capo della nostra aviazione, ed avrei arrotondato il mio peculio e la cerchia dei miei amici. Ed avrei fatto anche l’interesse del paese perché almeno sarei stato meno cretino degli altri ed avrei agito più razionalmente. Ma, che vuole, mio padre mi ha dato un’educazione piena di pregiudizi; per conto mio le giuro che, se avessi un figlio, ne farei un farabutto tale che non mancherebbe certo di fare una splendida carriera.[16]

 

La possibilità di una cesura fra un prima e un dopo la conclusione della guerra non sfiorò neppure lontanamente il suo pensiero, inteso ad allontanare con forza il concetto velato di ‘amnistia’, capace di livellare le responsabilità e di impedire una riflessione adeguata alla portata dei fatti.

 

L’Italia ha il diritto di conoscere esattamente lo svolgimento dell’immane tragedia. Non vi è più al­cuna scusa. Il nemico è vinto. La pace è conclusa o sta per concludersi. L’Italia ha il diritto di sape­re in che modo fu speso il suo sangue e il suo de­naro […]. La vittoria non sana tutto. Noi vogliamo sapere se per avventura non è stato pagato cento ciò che poteva costare dieci o uno. Noi vogliamo ridare il giusto valore agli uomini e alle cose. Per­ciò vogliamo la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità sulla nostra guerra. Se tale verità porterà a galla colpe ed errori, se abbatterà falsi idoli o spezzerà piedistalli di pietra mal connessi, poco importa. Non per questo la guerra nostra ri­fulgerà di minor splendore. Anzi. Anzi di maggior splendore rifulgerà la gloria del nostro grande po­polo perché verrà dimostrato che seppe riportare una doppia vittoria: contro il nemico e contro l’in­capacità e le colpe di chi lo conduceva.[17]

 

Ad alta voce, sulle colonne de «Il Dovere» da lui fondato agli inizi del 1919, Douhet proseguiva il discorso già intrapreso, rivolgendosi ad una platea ampia, attraversata dalle tensioni che interessarono gli ex combattenti nel dopo guerra. Non esitò da queste pagine a ridimensionare la figura del Generale Giardino, spostando il focus sugli Eroi i cui nomi sarebbero stati destinati a rimanere sconosciuti:

 

Al Grappa non ci furono concezioni strategiche né alti voli di superba tattica. Ci furono dei saldi petti di Italiani che costituirono l’incrollabile barriera. Furono gli umili e gli ignoti che fermarono e respinsero il nemico. E l’Italia questi umili ricorda e venera, e non ama che vengano sfruttati che già lo furono abbastanza.

Il paese è stanco di tutte le glorie fittizie che vede sorgere attorno come funghi. Esso ha vinto, non ostante.[18]

 

Il pensiero di trasportare solennemente a Roma la salma di un anonimo soldato per darne sepoltura al Pantheon venne espresso da Douhet nell’articolo Al suo soldato, l’Italia, sempre su «Il Dovere»[19]. Le argomentazioni sottese alla proposta non furono nascoste da alcuna forma di eufemismo:

 

Il vero vincitore della guerra fu il soldato, figlio del popolo italiano. Egli seppe vincere non solo il nemico, ma sopperire a tutte le manchevolezze dei suoi condottieri politici e militari. Egli fu il solo che si dimostrò veramente grande e la cui grandezza rimase indiscutibile, sempre.[20]

 

Nonostante si possa interpretare l’iniziativa di celebrare il Milite Ignoto come una rivincita efficacissima da parte di Douhet su quella gerarchia indifferente alle sorti degli uomini e sorda di fronte alle sue intuizioni, la lettura dei suoi Diari e l’integrità con cui mantenne fede ai propri principi permettono di propendere verso una sincerità d’intenti, seppur non del tutto pacifica.

Il contesto, per una volta, gli si dimostrò favorevole e la proposta, capace di aggregare intorno a sé un numero notevole di sostenitori, confluì in un iter formale. Al Soldato, Figlio d’Italia, non fu data però sepoltura al Pantheon accanto al Padre della Patria Vittorio Emanuele II: il sacello venne adagiato sull’Altare monumentale la cui imponenza lo avrebbe sovrastato, reificandone il profilo morale in elemento architettonico. Questa variazione, sostanziale e simbolica al contempo, amareggiò il Proponente che esplicitò il suo dissenso attraverso una lettera idealmente scritta dallo stesso Soldato in cui denunziava in tale cambiamento l’ultimo tentativo di appropriarsi del suo sacrificio: «le pietre che ricoprono le tombe più che a riparare i morti servono da gradini ai vivi, e quella che ricopirà la mia è troppo un bel gradino»[21].

Nemmeno ad un anno di distanza  dalla solenne celebrazione del 4 novembre 1921, ebbe luogo la Marcia su Roma e i ricordi della Grande Guerra, alterati nella loro essenza (il caso degli Arditi risulta esemplare), vennero assimilati dal Fascismo il quale non esitò a trasformarli in alimento per un mito artificiale dalle cui spire l’Italia si sarebbe liberata solo con grandi sofferenze.

Il tempo presente non è tempo di miti, bensì di verità storica, capace di preservare intatto il valore dell’esperienza umana.

 

Maria Luisa Suprani Querzoli

 



[1] L’epitaffio compare sulla tomba di Giulio Douhet (Roma, Cimitero del Verano).

[2] Cfr. DE ROSSI E., La vita di un Ufficiale italiano sino alla guerra, Milano: Mondadori, 1927, p. 285.

[3] Ivi, p. 52.

[4] DOUHET G., La difesa nazionale, Torino: Anonima libraria ita­liana, 1923, p. 10.

[5] «Qui a Reims volare è la cosa più normale di questo mondo ed ho avuto per questo un senso di sollievo poiché in Ita­lia si considerano gli aviatori ancora come dei pazzi o almeno dei temerari» (lettera di Francesco Baracca al padre, Reims, 5 maggio 1912, Museo del Risorgimento di Milano, raccolte storic­he: cartella n. 36, n. reg. gen. 31941, n. reg. AG 1994).

[6] Brano tratto dalla lettera di Douhet all’on. De Felice datata 5 agosto 1916  (DOUHET G., Diario critico di guerra 1915 – 1916, II vol. Torino: Paravia, 1921,  pp. 348 – 349).

[7]  Il riferimento è all’impulso dato (prima che giungesse l’autorizzazione) alla costruzione del Trimotore Caproni Ca. 31.

[8]  Cfr. LEHMANN E., La guerra dell’aria – Giulio Douhet stratega impolitico, Bologna: Il Mulino, 2013, p. 74.

[9] Cfr. CAPELLO L., Note di Guerra, vol. I,  Milano: Fratelli Treves, 1920,  pp. 188 – 191.

[10] GEMELLI A., Il nostro soldato. Saggi di psicologia milita­re, Mila­no: Treves, 1917, p. 27.

[11] Le indagini di Agostino Gemelli risultano esplicative a riguardo, indagando scientificamente le ripercussioni dell’ambiente bellico sulla coscienza individuale.

[12] DOUHET G., Diario critico di guerra (1915 – 1916), I vol. Torino: Paravia, 1921, p. 149.

[13] Brano tratto dalla lettera di Douhet all’on. De Felice del 5 agosto 1916  in DOUHET G., Diario critico di guerra (1915 – 1916), vol. II, cit., p. 349.

[14]Una volta istituito il Comando su­periore di aeronautica, l’allora direttore centrale di aviazione Douhet «fu chiamato a definire un program­ma dai contenuti molto più tradizionali di concerto con il Maggior Generale Luigi Bongiovanni […]» (DI MARTINO B., L’aviazione italiana nella grande guerra, Milano: Mursia, 2011, p. 291).

[15] Cfr. LEHMANN E., La guerra dell’aria, cit., p. 102.

[16] DOUHET. G., Diario critico di guerra (1915 – 1916), vol. II, cit., p. 346.

[17] DOUHET. G., La commissione d’inchiesta su Caporetto, «Il Dovere», 27 aprile 1919, p. 2.

[18] DOUHET G.,  Il Generale Giardino,  «Il Dovere», 12 – 13 maggio 1920,  p. 1.

[19] DOUHET G.,  Al suo soldato, l’Italia, «Il Dovere», 15 - 16 luglio 1920,  p. 1.

[20] Ibidem.

[21] DOUHET G ., Per le onoranze al soldato ignoto. Una lettera del Soldato Ignoto, «Il Dovere», 4 agosto 1921,  p. 2.