Un nuovo indirizzo per questo blog

Dal 2019 questo blog ha riportato la collaborazione del CESVAM con la Sezione UNUCI di Spoleto. Con la presidenza del Gen Di Spirito la Sezione ha adottato un indirizzo di ampio respiro che si sovrappone a molti indirizzi del CESVAM stesso. pertanto si è deciso di restringere i temi del blog al settore delle Informazioni in senso più ampio possibile, e quindi all'Intelligence in tutti i suoi aspetti con note anche sui Servizi Segreti come storia, funzioni, ordinamenti. Questo per un contributo alla cultura della Sicurezza, aspetto essenziale del nostro vivere collettivo

Traduzione

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

This blog is written in Italian, a language base. Those who wish to translate into another language, may use the opportunity of the function of "Translation", which is reported in the pages.

Contro tutti e tutto. I soldati Italiani nei Balcani nel 1943

Il Volume "La Divisione "Perugia" Dalla Tragedia all'Oblio" è disponibile in tutte le librerie. ISBN 886134305-8, Roma, 2010, Euro 20,00 pag. 329.



Ordini: ordini@nuovacultura.it, http://www.nuovacultura.it/ Collana storia in laboratorio;

Un Triste destino per la Divisione "Perugia"

Un Triste destino per la Divisione "Perugia"
La Divisione "Perugia" avrebbe avuto miglior sorte se Informazioni ed Intelligence avessero trovato più ascolto presso i Comandi Superiori

Cerca nel blog

martedì 31 agosto 2021

Luci ed Ombre del Poeta Soldato

 


Maria Luisa Suprani Querzoli

Durante la Prima Guerra Mondiale le figure degli intellettuali rivestirono un ruolo essenziale nella comunicazione. Il più noto di essi coniò addirittura parte del lessico che rimane tuttora presente nel linguaggio: il termine ‘velivolo’ o la denominazione ‘Battaglia del Solstizio’, ad esempio, si debbono al Vate. Egli non si fece scudo della propria penna ma partecipò in prima persona alla guerra, impegnandosi in imprese anche rischiose (il Volo su Vienna) senza paura di perdervi la vita.

Si può parlare nel suo caso di ‘coraggio’ o forse sarebbe più opportuno riferirsi al concetto di  ‘temerarietà’ in obbedienza ad un gusto estetico capace di richiedere totale identificazione fra ideali professati ed esistenza?

D’Annunzio era immerso profondamente nel clima bellico in cui, forte della sua cultura notevolissima dei classici, poteva sperimentare dal vivo le dinamiche proprie della ferinità che si sprigionano dal conflitto. Ne era consapevole e non ne faceva mistero:

 

Ricordo una disputa alla mensa di Comando a Vi­cenza – Villa Camerini – (Cadorna non vi parteci­pava) quando un ufficiale, pensoso di problemi osò parlare di guerra e di pace a proposito del ro­manzo di Tolstoi. Il D’An­nunzio reagì con violenza – fors’anche per un istintivo timore di confronti coll’ombra del grande «barbaro». Reagì pallido e iroso. Non so se nel suo sdegno, come spesso av­veniva in lui, non si confondesse a una reale ma­nifestazione di sentimenti autentici, una certa vo­luta drammaticità dell’attore – e quale attore! – ben co­sciente della scena su cui recitava. Ma ciò che di lui in quel momento mi parve schietto è la confessione di ciò che gli appariva essenziale nel­le supreme finalità del nostro intervento. Non ba­stavano Trento e Trieste per giustificarlo. Non era ragione sufficiente l’antico con­flitto contro l’Au­stria reazionaria. L’Italia aveva bi­sogno di una prova esaltatrice e rinnovatrice – di un «bagno di sangue».

«L’Italia ha bisogno di un lavacro per purificarsi dalle sozzure, dalle pusillanimità, dalla vigliac­cheria di seco­li» - insisteva - «è necessaria una ecatombe colossale per rinvigorirla, per farne una ‘unità d’acciaio’. Guai ai pacifici! È necessario che gli italiani siano condotti dal­l’esasperazione a nu­trirsi delle cervella del proprio ne­mico» (sic).[1]

 

L’esperienza bellica incide profondamente nella sfera morale di un Paese. La coesione che il giovane Regno d’Italia guadagnò con la Grande Guerra gettò le basi sostanziali di un concetto di ‘Nazione’ presente nelle menti ancora di pochi. Ciò non toglie che la pars destruens richieda la pietas necessaria di fronte al sacrificio della vita della gioventù combattente, anche avversaria. Charle Montague afferma che la furia (e non il valore) è propria di chi non combatte: tale osservazione parrebbe pertinente alla figura del Poeta Soldato, impegnato più in senso estetico che propriamente militare. La conferma a ciò traspare dalle parole dello stesso D’Annunzio:

 

Dovetti confessare al Poeta a che punto i suoi amici soffris­sero nel vederlo ad ogni istante rischiare la propria vita: che non volasse più, per piacere! Che si riposasse fi­nalmente, aveva dato al suo paese tutto quello che i mi­gliori cittadini potevano dare alla patria, la sua anima e il suo spirito, la sua volontà, la sua energia, il suo sangue, la sua vita quasi … «Ma non la propria vita!» esclamò allo­ra. «Come potete voi, che dite di essere mio amico, non de­siderare una morte in combattimento, in cielo? A quale vecchiaia mi volete destinare? A quella di un uomo di let­tere in mezziguanti che scriverà opere, seduto come un travet [figura di ‘colletto bianco’ schiavo del dovere] alla sua scrivania? Oh, no! Ho assaggiato troppo la vita teme­raria, la vita sublime dello spazio e del vento, ho troppo goduto del pericolo, ho a oggi troppo bisogno di tentare, di osare! Amo con passione il volo. Vorreste da me che con­ducessi la vita di un comandante gottoso che firma carte? Mai mi sento più felice che lassù, lontano da tutte le po­vertà e i languori umani … E poi, se lo si può confes­sare, adoro la guerra. […] Non fosse per il sangue altrui che gronda, sarei tentato di aver paura della fine stessa della guer­ra».[2]

 

Il terribile amore per la guerra[3] che pervadeva il Poeta si arresta, umanamente, di fronte al sangue versato.

Le forze potentissime che si sprigionano dalle dinamiche del conflitto costituiscono invece per il Militare non un elemento di fascino a cui soggiacere bensì un fattore psicologico essenziale da gestire efficacemente: solo la consapevolezza del Dovere permette il distacco necessario al raggiungimento di un’affermazione indirizzata al disegno di nuovi sofferti equilibri.

L’estetica del pensiero strategico risponde a criteri altri da quelli dell’edonismo.

Gabriele D’Annunzio rimane un grande Poeta ma non fu un Soldato.



[1] T. Gallarati Scotti, Idee e orientamenti politici e religiosi al Co­mando Supremo: appunti e ricordi, Roma: Edizioni Cinque Lune, 1963, p.7 (in M.L. Suprani Querzoli, La Grande Guerra di Francesco Baracca, Forlì: CartaCanta, 2020, pp. 159 – 160).

[2][2] M. Boulenger, Chez D’Annunzio - a cura di A. Pietrogiaco­mi, prefazione di G. B. Guerri - Rimini: Odoya, 2018, pp. 40 – 41.

[3] Il riferimento è all’omonima opera di James Hillman.

venerdì 20 agosto 2021

Franesco Baracca. Dalla Cavalleria all'Aviazione

 

Maria Luisa Suprani Querzoli


 

Il nove maggio del 1888 nasceva a Lugo di Romagna Francesco Baracca, futuro Asso dell’Aviazione militare italiana.

La vita di paese nell’Ottocento era scandita dai ritmi della natura e ogni evento capace di interrompere la prevedibilità propria di quell’ordine veniva accolto con grande meraviglia e conservato dall’eco dei ricordi. Proprio a Lugo nel 1878 un aeronauta aveva sfidato la forza di gravità innalzandosi in cielo sul suo globo aerostatico (salvo poi precipitare nelle campagne circostanti)[1]. Nel 1904 in occasione della festa del Re Vittorio Emanuele III un’imponente rivista militare a cui parteciparono ben ottomila uomini[2] coinvolse la cittadina romagnola: Francesco Baracca, sedicenne, ebbe modo di assistervi e probabilmente ne conservò un’impressione tale da indirizzare le sue scelte future, incurante delle reazioni del padre e dello zio militare[3] non proprio concordi con il suo intento già ben radicato. Gli studi non riuscirono a diminuire la sua passione per il movimento: alla sua predilezione per cavalli si affiancò l’interesse per le moto.

Conclusi gli studi alla Scuola Militare di Modena, proseguì la formazione alla Scuola d‘applicazione di Cavalleria di Pinerolo, culla della tradizione sabauda, dove l’ambiente dalle frequentazioni internazionali accrebbe di molto le sue prospettive. La cittadina piemontese conservava in quegli anni viva memoria della figura brillante di Federico Caprilli, scomparso prematuramente in circostanze mai del tutto chiarite. Oltre che Ufficiale di Cavalleria capace di sovvertire rapidamente con il suo Sistema Naturale di Equitazione  i canoni obsoleti ancora in auge, Caprilli fu addentro all’ambiente che vide la costituzione dell’Automobile Club d’Italia e la fondazione della FIAT: in lui, la vocazione al movimento propria della Cavalleria si rivolgeva con autentico interesse agli sviluppi tecnologici che avrebbero informato il nuovo secolo appena agli albori.

Francesco Baracca seppe farsi portatore di tale eredità impegnativa.

Nel 1911 a Tor di Quinto, durante un’esercitazione a cavallo, si trovò ad assistere a un incidente di volo che si rivelò letale per Raimondo Marra, pilota impegnato nella prova dei sei giri del Tevere pressoché suo coetaneo: la conquista dell’aria, a pochi anni dal fatidico 1903 (anno legato all’invenzione dei fratelli Wright) iniziava a suscitare un interesse e a esercitare un fascino difficilmente descrivibile. Gli inevitabili incidenti costituivano quasi nell’immaginario collettivo il sacrificio necessario per compensare la conquista del cielo, pregna di fortissime valenze simboliche, prossime al mito. Anzi, il pericolo accresceva il fascino: «[a] Mirafiori, quando arrivammo, si vedeva già qualche aereo per il cielo. Noi si stava a guardare a bocca aperta e ci sembrava un miracolo. Quei pochi piloti che vi erano, a noi allievi, non sembravano degli uomini ma dei semidei. Spesso si sentiva parlare di disgrazie mortali, ma ciò aumentava per noi di più il loro prestigio»[4].

L’interesse nei riguardi del volo trovava però un argine tenace nella diffidenza; l’impiego dei velivoli per scopi militari venne poi decisamente sottovalutato nonostante la voce di Giulio Douhet si levasse alta, a sostegno delle prospettive future (che si delineavano già distinte al suo sguardo) dell’arma aerea.

Francesco Baracca, conquistato dalle potenzialità che intravvedeva nella sua scelta, nel 1912 si recò a Parigi (tacendone alla madre, preoccupata circa tale eventualità) per conseguire il brevetto: «[q]ui a Reims volare è la cosa più normale di questo mondo ed ho avuto per questo un senso di sollievo poiché in Italia si considerano gli aviatori ancora come dei pazzi o almeno dei temerari»[5], confida al padre.

L’ingresso in guerra dell’Italia avvenne fra molteplici criticità di ordine diverso che non mancarono di riversarsi anche sull’ l’Aviazione, allora ai primordi. L’urgenza dettata dalle necessità ridusse però i tempi necessari all’assimilazione delle novità tecnologiche: «[v]i sono in paesi qui vicino moltissimi reggimenti di cavalleria e vengono spesso miei colleghi a vedere gli apparecchi e mi invidiano perché io posso fare azioni utili col mio apparecchio mentre per ora i regg. di cav. sono qua tutti inutilizzati»[6] scrive Baracca a pochi mesi dall’inizio del conflitto.

Le parole dell’allora Tenente Baracca colgono il momento in cui l’Aviazione subentra alla Cavalleria e, soprattutto, in cui la diffidenza si muta in quella considerazione generale nei riguardi del volo che di lì a breve avrebbe dato luogo ad una trasformazione irreversibile, non solo in ambito bellico.



[1] Le informazioni riguardanti l’ascensione di Raffaele Rossini sono state tratte dalla mostra I Lughesi e il sogno del volo (Biblioteca ‘Trisi’ di Lugo, 4 maggio – 15 giugno 2019).

[2] Cfr. E. Iezzi, Francesco Baracca. Luci e ombre di un grande Italiano, Lugo: Walberti, 2008, p. 12.

[3] Cfr. Lettera di Gaetano Chetoni a Francesco Baracca, Catanzaro, 24 luglio 1907 in Archivio Storico dell’Aeronautica Militare, archivio di persona Francesco Baracca: lettera 2.

[4] G. Aliperta, Memorie di volo e di guerra, Bari: Arti Grafiche Favia, 1976, p. 12.

[5] Lettera di Francesco Baracca al padre, Reims, 5 maggio 1912, Museo del Risorgimento di Milano, raccolte storiche: cartella n. 36, n. reg. gen. 31941.

[6] Lettera di Francesco Baracca alla madre, Campoformido, 28 agosto 1915, Biblioteca ‘Trisi’ di Lugo, fondo Baracca, Corrispondenza: faldone I, fascicolo B, documento 19.

martedì 10 agosto 2021

UN protagonista della Prima Guerra Mondiale

 


Maria Luisa Suprani Querzoli

Coraggio e umanità: Ettore Viola

 

Una breve riflessione sul pensiero del Fondatore dell’Istituto Nazionale del Nastro Azzurro permetterà di comprendere come il Valore Militare sia di matrice prevalentemente morale. Risulta superfluo sottolineare il coraggio e la valentia del giovane Ettore Viola[1], Medaglia d’Oro, ma, per dissipare il sospetto diffuso che confonde il concetto di ‘valore’ con quello di ‘bellicosità ferina’, converrà riportare alcuni episodi narrati dallo stesso Protagonista dove il rispetto per l’Uomo e la stima per l’Avversario denotano una visione della vita che, anche nei suoi aspetti più critici,  ha in sé i semi potenziali della pace.

 

In una notte ugualmente fredda e triste, quasi duemila anni prima, era nato il Redentore, ma l’umanità continuava a rimanere sorda al suo insegnamento.

Gli austriaci vollero darci prova di vedere ancora in noi, nonostante tutto, uomini della loro stessa fede religiosa, partecipando a un singolare sciopero d’armi, che durò fino al giorno dopo, e uscendo finanche dalle trincee per abbracciare, in qualche caso, coloro che avrebbero poi continuato ad essere loro nemici.

I superiori comandi presero tutte le misure per evitare il ripetersi di scene così significative ed anche così squisitamente umane. Non so se agli effetti della disciplina militare e degli obiettivi di guerra che bisognava  raggiungere, essi fecero bene; so soltanto che se gli uomini che presiedono alla sorte delle nazioni si nutrissero un po’ dei sentimenti che furono comuni ai combattenti italiani e austriaci nel primo Natale di guerra, la pace – grande mito – regnerebbe forse sulla terra.[2]

 

Il Natale di guerra è un topos legato, nella sua intrinseca contraddizione, agli aspetti emotivi più profondi. La stima del nemico continua però ad essere ribadita anche nel combattimento più aspro, dove la forza morale che sostiene le ondate dell’avversario suscita comunque la solidarietà del Soldato:

 

Gli austriaci cadevano a diecine, mietuti dall’inesorabile falce della morte; e nonostante il terribile destino, continuavano a venire avanti, ondata dietro ondata.

Benché con l’animo in sospeso per la sorte dei nostri, osservando dalla Rocca non si poteva non simpatizzare per quelle valorose truppe nemiche che davano una così fulgida prova di sprezzo della vita.[3]

 

La trincea, al termine dei combattimenti, verrà presa dagli Italiani.

Le riflessioni di Ettore Viola e il valore di cui diede prova dimostrano che nel fenomeno bellico può essere vita una manifestazione estrema delle dinamiche che presiedono all’ordine cosmico. Gli equilibri raggiunti molto devono al Valore Militare che connotò le gesta dei Soldati: ricordare le fondamenta di tale equilibrio, di per sé instabile, permette di continuare ad alimentarlo.

 

 

 



[1] Ettore Viola di Ca’ Tasson (Fornoli, 21 aprile 1894 – Roma, 25 febbraio 1986).

[2] E. Viola, Vita di guerra, Roma: Danesi Editore, 1952, p. 50.

[3] Ivi, p. 51.

sabato 31 luglio 2021

La Medaglia ai Benemeriti della Salute Pubblica. di Tommaso Cherubini

 




 

Durante i mesi di isolamento imposti da un letale virus che ha sconvolto la nostra quotidianità, nei numerosi momenti di riflessione il pensiero è andato spesso a tutti coloro che con sacrificio e con valore hanno affrontato quella che può definirsi una guerra virica globale. In tale doloroso frangente sono nate numerose iniziative popolari che hanno trovato eco soprattutto sui social media. Tra queste, come cultore della materia faleristica, ricordo la proposta di insignire con la Medaglia dei Benemeriti alla Salute Pubblica coloro che, con professionalità e spiccato senso del dovere hanno permesso di alleviare le sofferenze causate da una drammatica emergenza sanitaria: dottori, infermieri, appartenenti alle Forze Armate, Forze di Polizia dello Stato e Polizie Locali, Protezione Civile, volontari civili.

La Medaglia ai Benemeriti della Salute Pubblica, una delle più longeve onorificenze del sistema premiale italiano, relazionata nei principi istituzionali con le emergenze sanitarie di carattere epidemico, fu creata da S.M. Re Vittorio Emanuele II con Regio Decreto del 28 agosto 1867 n. 3872. Già negli stati preunitari si era riscontrata la necessità di premiare coloro che si fossero distinti durante le numerose epidemie che flagellavano la penisola italiana nel XIX secolo. A mero titolo esemplificativo si ricorda la medaglia del Ducato di Parma e Piacenza creata con tale finalità da Maria Luigia[1], imperatrice dei Francesi e sposa di Napoleone, poi Duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla. In oro o argento ed appesa a un nastro verde, fu creata il 2 novembre 1836 con il fine di premiare coloro che si fossero distinti durante l’epidemia di colera del 1836. La medesima decorazione, con le stesse motivazioni, venne rinnovata dalla Duchessa reggente Luisa Maria Borbone-Francia[2] con Decreto n. 482 del 12 novembre 1855. Coniata nelle tre classi, oro argento e bronzo, e appesa a un nastro turchino listato di rosso nei lembi reca al recto il profilo del Duca Roberto e della madre reggente e al verso la scritta ALLA CARITÀ CORAGGIOSA. (Fig. 1)

Anche il Regno di Sardegna creò nel 1854 una prima medaglia a favore di coloro che si resero benemeriti in occasione dell’epidemia di colera dello stesso anno. Tale medaglia fu istituita da Vittorio Emanuele II, su proposta di Urbano Rattazzi, all’epoca Ministro dell’Interno, con Regio Decreto del 13 settembre 1854. Il decreto non prevedeva né la portabilità, né la denominazione dell’insegna né tanto meno i criteri di concessione. Le medaglie erano incise nel rovescio con il nome e cognome del decorato e l’anno di concessione con in cerchio una corona di rami di alloro e quercia; al recto l’effigie di Vittorio Emanuele II guardante a destra con la scritta VITTORIO EMANULE II. La concessione e distribuzione di tale primo tipo di benemerenza continuó fino al 1861, quando con la proclamazione del Regno d’Italia, venne coniata una nuova medaglia. Secondo la consuetudine dell’epoca non fu emanato un decreto che avesse definito le nuove caratteristiche dell’insegna, pertanto non si conosce l’esatta datazione della nuova insegna; bisogna attendere il 1867 per la creazione di una nuova medaglia. Con Regio Decreto n. 3872, pubblicato sulla G. U. n. 235 del 28 agosto 1867 fu creata la denominata Medaglia ai Benemeriti della Salute Publica in tre classi, oro, argento e bronzo, per coloro che si erano contraddistinti nel combattere il colera, riapparso nel frattempo nella penisola nello stesso 1867. Infatti l’art. 1 del citato decreto stabiliva che la benemerenza fosse “destinata a premiare le persone che si rendono in modo eminente benemerite in occasione di qualche morbo epidemico pericoloso, sia prodigando personalmente cure ed assistenze agli infermi, sia provvedendo ai servigi igienici ed amministrativi, ovvero ai bisogni materiali o morali delle popolazioni travagliate dal morbo, e massimamente quando non ne correva loro per ragione d'ufficio o di professione un obbligo assoluto e speciale”. La medaglia, di 35 mm. di diametro, finalmente prevedeva per la sua portabilità un nastro largo 36 mm di colore celeste orlato di nero su entrambi i lati, l’uso del quale fu autorizzato con Regio decreto n. 4394 del 1868, anche per coloro che furono insigniti della medaglia preunitaria del 1854[3]. Al recto la medaglia portava l’effigie del Re guardante a sinistra e al verso una corona di quercia, talmente grande da non permettere l’incisione del nome dell’insignito, con la legenda posta in giro AI BENEMERITI DELLA SALUTE PUBBLICA (Fig. 2). Nonostante non fosse contemplato nel decreto del 1867, è utile ricordare che la Medaglia contava già all’epoca con una variante, coniata dalla ditta Johnson di Milano, nella quale la scritta al rovescio era in latino anziché in italiano (SALUTIS PUBLICAE BENEMERENTIBUS). Non esiste una spiegazione ufficiale a tale variante: forse la medaglia sarebbe stata destinata a cittadini stranieri o forse la legenda si giustifica con il fatto che il latino nel XIX secolo era ancora la lingua d’uso nella terminlogia della scienza medica; certo è che si trattava di un’iniziativa privata fosse anche scaturita da una prestigiosa ditta come la Johnson di Milano. Nonostante non esistesse alcun decreto per modificare le caratteristiche della medaglia, con la proclamazione di Umberto I il recto della stessa cambiò con l’effigie del nuovo Re (Fig. 3). Con l’ennesima epidemia di colera, che colpì l’Italia centro-meridionale nel 1884, fu coniata un nuovo tipo di medaglia che prevedeva al verso all’interno della corona di quercia l’iscrizione ANNO 1884. Il Regio Decreto n. 2773 dello stesso anno introdusse la possibilità delle commissioni circondariali, adibite allo studio delle proposte di conferimento, di concedere un’attestazione di benemerenza a favore di quelle persone i cui titoli di merito non erano sufficienti a raggiungere quelli previsti per una delle tre classi della medaglia. Tale attestazione di benemerenza fu ufficialmente sancita come quarto grado della benemerenza con Regio Decreto n.  3706 del 25 febbraio 1886.  Giova ricordare che anche il Re Umberto I si fregiava della Medaglia ai Benemeriti della Salute Pubblica nella classe oro, per aver accorso in aiuto alla popolazione di Napoli, colpita da un’epidemia di colera. Il Consiglio dei Ministri, con procedura inusuale, il 18 novembre 1884, deliberava “pregare la Maestà del Re perché accolga la medaglia d’oro dal Grande Suo genitore istituita col R.Decreto del XXI agosto MDCCCLXVII pei Benemeriti della salute publica…”. L’insegna gli fu consegnata il 14 marzo del 1885, in occasione del 60º genetliaco del Re. Come con Umberto I, con il suo successore Vittorio Emanuele III si cambiò il recto della medaglia con il profilo del nuovo Re, senza che tale variante fosse sancita da alcun atto ufficiale. (Fig. 4).

Con la proclamazione della Repubblica il Decreto Provvisorio del Capo dello Stato n. 344 del 25 ottobre 1946 confermò la vigenza dei Regi Decreti n. 3872 del 28 agosto 1867 e il n. 3706 del 25 febbraio 1886 istitutivi della Medaglia e delle sue classi. Secondo il citato Decreto presidenziale le medaglie e l'attestazione di benemerenza sono conferite con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri all’epoca, oggi dal Ministro della Salute, sentito il parere di una Commissione centrale permanente incaricata di esaminare le motivazioni di merito che costituiscono il presupposto del conferimento stesso previa istruttoria svolta, di norma, dalle competenti prefetture. Ancora oggi i candidati per il conferimento sono quelli previsti dal decreto istituzionale: le persone fisiche che si siano particolarmente distinte durante gravi epidemie o gravi calamità. La Commissione, che si riunisce presso la sede del Ministero della Salute ed è nominata dallo stesso Ministro della Salute per un triennio, è composta da: un consigliere di Stato che la presiede; il segretario generale del Ministero della Salute; il direttore generale dell'Istituto Superiore di Sanità; il direttore generale dei servizi medici ed il direttore generale dei servizi veterinari del Ministero della Salute; un ufficiale generale medico dell'Esercito; un ufficiale generale medico della Marina; un ufficiale generale medico dell'Aeronautica; un funzionario del Ministero della Salute in qualità di secretario.

Un successivo Decreto presidenziale, il n. 637 del 1952 stabilì le caratteristiche definitive della Medaglia adeguandole ai simboli repubblicani. Coniata in oro, argento e bronzo secondo le classi di merito, oggi ha un diametro di 30 mm con al recto l’emblema della Repubblica e al verso una corona di quercia con la legenda AI BENEMERITI DELLA SALUTE PUBBLICA posta in giro (Fig. 5). Il nastro su cui è appesa la medaglia non ha subito alcuna modifica rispetto al nastro di matrice monarchica, pertanto è ancora celeste orlato di nero su entrambi i lati. Tale benemerenza non va confusa con la Medaglia al Merito della Sanità Pubblica, altro segno d’onore concesso dal Ministero della Salute con maggiore generosità e istituita successivamente alla Medaglia ai Benemeriti della Salute Pubblica, con Decreto Luogotenziale n. 1048 del 7 luglio 1918.

Desidero finalmente dedicare questo breve articolo su una medaglia poco conosciuta nel panorama onorifico della Repubblica a tutti gli appartenenti alle FF.AA e FF.OO., che hanno pagato con la vita, la dedizione e il senso del dovere con cui hanno affrontato la drammatica pandemia che ha colpito così violentemente il nostro Paese.

 

Bibliografía

A.Brambilla, Le medaglie italiane negli ultimi 200 anni, Parte prima seconda edizione, Milano, 2012.

E. Ercoli, Le medaglie al valore, al merito e commemorative militari e civili nei Regni di Sardegna, d’Italia en ella Repubblica Italiana 1793-1976, I.D.L., Milano, 1976.

https://www.quirinale.it/page/salutepubblica

www.iagiforum.info

 



[1] Maria Luigia d’Asburgo Lorena figlia primogenita dell’imperatore Francesco I d’Austria e di Maria Teresa Borbone Napoli. Il padre la concesse in sposa per procura a Napoleone l’11 marzo del 1810. Caduto Napoleone, grazie alla protezione del padre, le fu concesso, con il trattato di Fontainbleau dell’11 aprile 1814, il diritto alla sovranità del Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, senza tener conto della legittima aspirazione dei Borbone Parma a tornare sul proprio trono. Lavori pubblici, beneficenza, opere caritative furono gli ambiti nei quali Maria Luigia intervenne con sensibilità e proficuamente, tanto da essere ricordata benevolmente dai suoi sudditi. Morì a Parma il 17 dic. 1847 di pleurite reumatica.

 

[2] Luisa Maria Borbone-Francia (1819-1864) era la figlia maggiore di Carlo Ferdinando, duca di Berry (figlio di Carlo, conte d'Artois, poi re di Francia con il nome di Carlo X), e di sua moglie, la Principessa Carolina di Napoli e Sicilia, figlia di Francesco I delle Due Sicilie. Dopo la morte di Maria Luisa d'Austria, due anni dopo, i Borbone di Parma riottennero i loro ducati, ma il suocero di Luisa, il duca Carlo II di Parma, legittimo sovrano dovette abdicare di fronte alla pressione popolare in favore del marito di Luisa, Carlo III, che a sua volta fu assassinato nel 1854. Gli succedette Luisa come reggente del figlio Roberto fino al 1859, quando le truppe di Vittorio Emanuele II esiliarono definitivamente i Borbone-Parma.

 

[3] Fino al 1868 gli insigniti della Medaglia per l’epidemie coleriche, dal 1854 fino all’istituzione della Medaglia ai Benemeriti della Salute Pubblica, per fregiarsi della medaglia dovevano munirla di appiccagnolo.

lunedì 19 luglio 2021

Von Moltke e la scelta degli ufficiali di Stato Maggiore






 Il Turkmenistan è un Paese al confine tra il mondo turco e quello iraniano che ha ottenuto l'indipendenza alla fine del XX secolo. E' considerato l'unico Stato totalitario nella zona post-sovietica ed è incredibilmente ricco di risorse naturali (sopratutto gas) per cui viene accostato agli Stati del Golfo. Il Paese è noto per il bizzarro culto della personalità dei suoi due primi presidenti. Ma la loro politica riesce a creare da una unione di clan e tribù, una vera nazione? Tuttavia la cosa più interessante è la loro politica religiosa, dove l'insegnamento del primo presidente Niyazov viene presentato come una alternativa all'Islam, ed il suo libro Ruhnama come alternativa al Corano.


 Questa la sintesi dell'articolo di Vladimir Pachkow, S.I., apparso sul numero 4102 della rivista "La Civiltà Cattolica", Anno 172, Quindicinale, 15 maggio 5 giugno 2021. Il numero e la Rivbista è disponibile presso la Emeroteca del CESVAM

sabato 10 luglio 2021

Nicola della Volpe. I MIlitari per la Guerra Partigiana. 1943 - 1945

 


NICOLA DELLA VOLPE. I MILITARI PER LA GUERRA PAETIGIANA 1943 -1945, Roma, Società Editrice Nuova Cultura – Università Sapienza, Collana I Libri del Nastro Azzurro, Pag. 426, ISBN 978 88 61 344785, Euro 28,

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                             

Il Volume documenta, con ricchezza di particolari, il contributo dei militari italiani alla Guerra di Liberazione, guerra che si è combattuta sul territorio accanto alla Campagna d’Italia, come gli Alleati chiamavano il loro impegno sul fronte italiano, e guerra sul fronte meridionale, come i tedeschi chiamavano il loro impegno per la difesa dei confini del sud del loro Reich.  Aver tracciato le origini della Guerra di Liberazione, con note relative ai Partiti Politici sorti dopo la crisi armistiziale, il CLN, e la situazione nel Paese, un capitolo è dedicato all’addestramento ed alla logistica delle forze che sono a disposizione nel Regno del Sud. Indi si descrive le operazioni prima nell’Italia centrale e la progressione verso nord, indi le operazioni nell’Italia settentrionale. Segue un preciso e puntuale capitolo dedicato alle Missioni che unità scelte operano dietro le linee nemiche sia in modo autonomo che in collaborazione con le missioni alleate. Il volume si conclude con una parte dedicata ad aspetti particolari della Guerra di liberazione (la ferocia del nemico, i rastrellamenti, eccidi, rappresaglie, i rapporti con le bande, i patrioti, la propaganda)  e alcune considerazioni come l’analisi dei meriti e riconoscimenti, l’appropriazione della Resistenza, militari e vertici militari, e la questione della frontiera orientale. In copertina la foto della Medaglia d’Oro al Valor Militare ten. Renato Del Din della Brigata “Osoppo”.

 

 Nicola Della Volpe, generale, ha prestato servizio presso l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito dal 1974 al 2001, dove è stato Vice Direttore e ha diretto l’Archivio. E’ autore di numerose opere di Storia e iconografia militare.

 


Il volume è acquistabile in tutte le librerie. Oppure

Presso la Casa Editrice, (Società Editrice Nuova Cultura attraverso la email:

ordini@nuovacultua.it o il sito: www.nuovacultura.it/ collane scientifiche)

Presso la Segreteria dell’Istituto del Nastro Azzurro (segrreteriagenerale@istitutonastroazzurro.org)

Informazioni e dettagli su www.cesvam.it

 


mercoledì 30 giugno 2021

La Guerra di Liberazione 1944. Il fronte nemico Verso il baratro

 

Per la Repubblica Sociale Italiana il 1944 fu un anno che all’inizio dava grandi speranze e grandi aspettative; nel prosieguo dei mesi si passò via via sempre più verso la rassegnazione e il velleitarismo, con la sensazione di essere sempre più isolati e lontani dalla popolazione, con un consenso che quasi giornalmente era sempre più labile. Tutte le offensive lanciate contro le forze ribellistiche non avevano dato i risultati sperati; il movimento partigiano anziché scomparire, ad ogni offensiva portata a termine, convinti di aver raggiunto una vittoria, si ripresentava ancora più forte e non minimamente indebolito. Vi erano zone praticamente perse e sotto il controllo dei ribelli. Nelle città la sicurezza era labile e qui si dimostrava tutto il carattere di questo avversario imprendibile. Con i mesi il rapporto con i tedeschi, anche sul campo militare, si logorò. E questo era la conseguenza di un aspetto della Repubblica Sociale che ormai era sotto gli occhi di tutti. Non vi era concordia, con vi era unità di comando, non vi era una linearità di intenti. Vi era L’Esercito di Graziani, l’esercito apolitico, le Brigate Nere di Pavolini, l’esercito del partito in armi, la Guardia Nazionale Repubblicana di Ricci, una miriade di altre reparti ed unità semi dipendenti; mentre praticamente inesistente per mancanza di mezzi la Marina Militare, l’Aeronautica si immolava con i pochi aerei rimati. In più erano sorte ad opera di capi improvvisati, le varie polizie speciali, vere bande di delinquenti, ladri, torturatori sadici che terrorizzavano la popolazione. Tutto questo, era evidente, per mancanza di un potere centrale che doveva essere nelle mani del Duce, capo carismatico; ma Mussolini come già nel Regime, voleva i suoi collaboratori l’uno contro l’altro, in lotta fra di loro, e questa scelta era la fonte primaria del suo potere personale. Potere molto limitato, peraltro, perché quello vero era in mano ai tedeschi, cioè ai rappresentanti di Hitler ed Himmler in Italia. Il vero smacco per la Repubblica Sociale fu il perenne diniego dei tedeschi di inviare reparti della Repubblica al fronte. Le quattro divisioni che rientrarono dalla Germania furono impiegate in funzione antipartigiana, scavando ancora di più il fossato tra la Repubblica Sociale e gli Italiani, mentre la vera destinazione sarebbe stato il fronte di Cassino. Su questo fronte, altro smacco per la Repubblica Sociale, vi erano presenti solo un reparto di Valerio Borghese, che aveva stipulato un patto privato tra lui ed i tedeschi, e soprattutto vi erano dei soldati italiani; come gli ex paracadutisti della divisione “Ciclone”, o i volontari nelle Waffen-SS italiane che si erano arruolati nelle fila della Whermacht con uniforme tedesca e giuramento ad Hitler, per non aderire alla Repubblica Sociale, di cui avevano perso ogni stima. Anche se non a conoscenza dei dirigenti della Repubblica, in primis Mussolini, a ottobre del 1944 i tedeschi iniziano contatti segreti con gli Alleati in Svizzera per arrivare ad una pace separata, (operazione Sunrise), contatti che continueranno fino all’aprile successivo e che porterà alla firma della resa a Caserta del 29 aprile 1945 dei tedeschi In Italia, senza alcun rappresentante della RSI presente. L’ultimo oltraggio tedesco, espressione della disistima sempre coltivata dai nazisti, per alleato fascista italiano.

 

 

domenica 20 giugno 2021

La Guerra di Liberazione 1944. Il V Fronte la Prigionia: rimanere fedeli o collaborare?

 

Il 1944 fu un anno terribile per i prigionieri italiani in mano alleata. La crisi armistiziale aveva fatto sperare a tutti un rapido ritorno a casa. In realtà un armistizio, dal punto di vista giuridico, non prevede la restituzione dei prigionieri. Nelle clausole firmate dal Governo Badoglio, peraltro, questi sì “era dimenticato” di chiedere la restituzione dei prigioneri italiani in mano alleata, suscitando negli Alleati sospetti pesanti sulla sua credibilità e sulla sua lealtà. Badoglio si era ricordato di loro nel momento in cui si pose mano alla ricostruzione delle forze armate predisponendo piani per l’approntamento di Armate con personale da tratte dai campi di prigionia alleati. Il progetto fu ovviamente osteggiato dagli Alleati che vedevano i prigionieri italiani in loro mano solo come forza da impiegare nel settore logistico: in pratica, con condizioni più umane, quello che facevano i tedeschi con gli Internati Militari in loro potere. Anche per i prigioneri in mano alleata si poneva il dilemma se aderire o non aderire, se rimanere fedeli al giuramento prestato a quel Re, il cui governo non dava alcuna indicazione su come comportarsi fuggendo ancora una volta dalle sue responsabilità, lasciando ancor più il singolo abbandonato a sé stesso. In tutti l’alto senso della disciplina e dell’onore militare era un freno a prendere decisioni, soprattutto per il fatto che al rientro in Italia sapevano tutti che il loro comportamento in prigionia sarebbe stato oggetto di attento giudizio. Anche questo fronte si divise in collaboratori e non collaboratori, con le conseguenze nel lungo periodo che questa scelta a posteriori fu etichettata ideologicamente.

Addirittura per quelli in mano alla URSS furono gettate le premesse per quelle violentissime polemiche sui prigionieri in mano sovietica che caratterizzò i primi anni del secondo dopoguerra. Anche per i prigionieri il 1944 fu un anno di speranze, delusioni, di difficoltà, senza prospettive di vedere realizzato quello che tutti aspettavano: rientrare in Italia.

 

giovedì 10 giugno 2021

La Guerra di Liberazione 1944 Il IV Fronte. I soldati combattenti all'estero: come sopravvivere?

 

Per i militari italiani all’estero, che avevano scelto di andare in montagna e dare guerra al tedesco, il 1944 fu un anno di difficili prove. Venuto meno il vincolo disciplinare che, bene o male, era stato un elemento di riferimento all’indomani della proclamazione dell’armistizio, nel 1944 i militari italiani erano stati nella maggior parte assorbiti nelle formazioni locali partigiani. Tattiche di guerriglia, gerarchia, disciplina, logistica erano completamente diverse e spesso in contrasto anche con il proprio pensiero sia politico che nazionale. In ottobre un altro dramma: il conflitto interno greco, al momento della ritirata tedesca, coinvolge i militari italiani che rappresentano, spesso, l’unico motivo di concordia per i Greci che si combattono: gli italiani erano e sono solo dei fascisti invasori. In Albania e in Jugoslavia, pur cercando di mantenere la propria identità, i soldati italiani, accettati e rispettati come combattenti, vengono via via assorbiti dalle scelte ideologiche di questi movimenti, soprattutto quella comunista che al momento è accettata ma che in prospettiva sarà di grande peso al termine della guerra, senza che il singolo soldato italiano se ne rendesse conto. Per i soldati italiani combattenti all’estero è imperativo sopravvivere, cercare di abbreviare il più possibile la guerra, nella speranza di ritornare cercando di barcamenarsi al meglio tra tedeschi e partigiani locali, anche per loro in un contesto di solitudine ed abbandono da parte delle Autorità in Italia.

 

lunedì 31 maggio 2021

Maria Luisa Suorani Quersoli

 

La scomparsa improvvisa del Capo di Stato Maggiore Alberto Pollio

alla vigilia della Grande Guerra

 

Chi si accinge allo studio della Grande Guerra   incontra  la figura di Alberto Pollio inevitabilmente collegata alla nomina a Capo di Stato Maggiore del Generale Luigi Cadorna (avvenuta a seguito della subitanea scomparsa del Generale casertano, suo predecessore). In prospettiva, lo spazio dedicato alla figura del Generale Pollio è davvero minimale rispetto sia al suo spessore sotto il profilo militare, sia alla portata delle conseguenze inerenti alla sua morte sulle sorti del Paese.

Egli era un convinto triplicista.

Proveniente dalla Nunziatella, approdò infine alla Scuola di Guerra di Torino. Le notevoli doti gli valsero la considerazione del Re Umberto I[1], anch’egli più vicino all’Austria di quanto non lo fossero gli Ufficiali piemontesi che vedevano in essa prevalentemente il nemico storico. 

Il regicidio colpì profondamente Pollio.

Se si compara, anche per sommi capi, l’indirizzo politico preso successivamente dall’Italia con le convinzioni radicate e lo spessore militare notevole[2] di Pollio i dubbi che circondano tuttora la sua prematura scomparsa sembrano assumere una certa consistenza. Il viaggio a Torino in ottime condizioni di salute, una lieve indigestione rivelatasi subdolamente fatale, le inspiegabili  infrazioni sul piano formale[3] rendono legittimo interrogarsi sulle reali dinamiche della morte dell’uomo di vertice dell’Esercito Regio: la sua presenza costituiva un fiero ostacolo sul piano politico, insormontabile  tanto da oscurare le sue innegabili capacità sul comando degli uomini e sull’impiego efficace delle nuove tecnologie. Inutile riflettere su ciò che non fu. Risulta opportuno invece ricordare che, dopo la XII Battaglia dell’Isonzo, il comando del Regio Esercito fu affidato al generale Diaz, fermo nel trattare con l’interlocutore politico, vicino al Generale Pollio da molti anni[4], allo stesso Diaz al quale per primo pervenne la comunicazione della morte improvvisa del Capo di Stato Maggiore con la pietosa consegna di comunicare la notizia ferale alla famiglia.  



[1] «L’ultima volta che lo vidi a Napoli fu il giorno dell’attentato di Passanante. Eravamo schierati davanti al Palazzo Reale, attendendo l’arrivo del Sovrano che faceva il suo ingresso ufficiale. Ad un tratto da Toledo vedemmo spuntare Pollio al galoppo, passare davanti a noi stravolto in viso e l’udimmo gridare al mio capitano: «Hanno pugnalato il Re» e poi sparire entro il palazzo» (E. De Rossi, La vita di un ufficiale italiano sino alla guerra, Milano: Mondadori, 1927, p. 22).

[2] L’anno precedente alla nomina a Capo di Stato Maggiore così veniva descritto Alberto Pollio da un suo Superiore: «ha tutti i requisiti per raggiungere i più elevati gradi della gerarchia; e più si troverà in posizione eminente, meglio potrà esplicare tutta la sua intelligenza, operosità ed iniziativa e saprà acquistare quell’ascendente tanto necessario per ottenere il volonteroso concorso di tutti nella attuazione dei suoi concetti … Auguro, nell’interesse dell’Esercito, che egli possa in più vasto ambiente mettere in luce tutto il suo valore» (I Capi di Stato Maggiore dell’Esercito – Alberto Pollio – 4 Roma: Comando del Corpo di Stato Maggiore dell’Esercito, 1935, p. 10  in G. Catenacci, F. M. Di Giovine, Il Generale Alberto Pollio: dalla Nunziatella ai vertici dello Stato Maggiore del Regio Esercito Italiano, Scuola Militare Nunziatella, Società di Storia di Terra di Lavoro; Associazione Nazionale ex Allievi Nunziatella; Sezione Campania e Basilicata, Civitella del Tronto, 21 marzo 2015, p. 9). La testimonianza di un giovanissimo Eugenio De Rossi è conferma al giudizio espresso dal Superiore circa l’ascendente personale: «Ritornammo a Napoli ed alla stazione trovammo il capitano Pollio di Stato Maggiore. Rassomigliare a Pollio era il sogno di noi ragazzi. Egli allora era un bellissimo giovine, sempre inguantato, profumato, calzato a pennello. Alle parate non mancava mai di avvicinarsi a noi e rivolgerci qualche piacevolezza, facendo danzare un suo vivace morello» (E. De Rossi, La vita di un ufficiale italiano sino alla guerra, cit., p. 22).

[3] Il medico (la cui carriera paradossalmente decollò dopo l’infausto esito del suo operato) che si prese cura del Capo di Stato Maggiore non era un medico militare  (G. Catenacci, F. M. Di Giovine, Il Generale Alberto Pollio: dalla Nunziatella ai vertici dello Stato Maggiore del Regio Esercito Italiano, cit. p.15).

[4] Nel biennio 1895 – 96, Armando Diaz era in forze presso la segreteria del Generale Pollio.

giovedì 20 maggio 2021

La Guerra di Liberazione 1944 Il Terzo Fronte L'Ulteriore tradimento

 

La scelta di non aderire alle proposte di collaborazione al nazifascismo da parte degli Internati Militari Italiani fu una sorpresa sia per i tedeschi che per Mussolini.  Sia i tedeschi, come mano d’opera volontaria, sia Mussolini, come soldati delle forze Armate repubblicane, molto avevano contato su questa massa di giovani che nella sostanza era stata educata dal fascismo, nelle fila della Gioventù Italiana del Littorio. Il loro massiccio rifiuto fu la certificazione del fallimento del fascismo come regime, e per la Repubblica Sociale, una ennesima dimostrazione di debolezza agli occhi dei tedeschi. A tutto questo si cercò di porre rimedio con una operazione di vertice, ovvero trasformando lo status di Internato Militare in quello di “lavoratore civile”, accordo tra Hitler e Mussolini del 20 luglio 1944, firmato in circostanze drammatiche proprio nel giorno dell’attentato di von Stauffenberg alla Tana del Lupo. Nella sostanza poco cambiava: gli Internati, a prescindere da come era il loro status continuarono ad essere trattati dai tedeschi come schiavi, mentre quelli che avevano aderito avevano condizioni poco migliori dei non aderenti, ma sempre lavoratori coatti. Questo ennesimo tentativo di mascherare la non adesione sottolinea il significato di una decisione che rappresenta una delle scelte più difficili della Guerra di Liberazione. Cercare di minimizzare, o mascherare questa scelta è stata la caratteristica di questo fronte nel 1944, a cui si risposte da parte degli Internati Militari, in un contesto di disperata solitudine, con coerenza e determinazione a continuare nelle scelte iniziali. Per chi era cresciuto nella Gioventù Italiana del Littorio, ovvero quasi tutti fu un ulteriore tradimento.

 

 

lunedì 10 maggio 2021

La Guerra di Liberazione. 1944 Il Secondo fronte. Il movimento ribellistico . L'unità come regola base

 

Il 1944 per il II fronte, il movimento ribellistico nasceva dalle ceneri dei disastri dei mesi precedenti. Si era compreso che la rivolta armata non poteva essere condotta con i criteri della guerra classica. Occorreva adottare nuove tattiche, per evitare di essere sempre soccombenti di fronte ad un nemico agguerrito e più forte, con un armamento più potente ed adeguato.  Inoltre occorreva provvedere ad una logistica partigiana più accorta, meno labile, dipendente dal caso e dalla improvvisazione. Basilare la ristrutturazione del settore informativo, con contrasto efficace alle spie, ai delatori, agli opportunisti e ai doppiogiochisti.  Dal punto di vista militare le bande si organizzarono in modo tale da evitare lo scontro diretto, la difesa ancorata e soprattutto di attaccare in massa il nemico. Inizia una progressione di qualità militare che porterà le formazioni ribellistiche ad essere sempre più agguerrite. Oggi si direbbe la strategia del debole verso il forte, in cui non solo la guerriglia ma anche gli atti singoli, detti di terrorismo, furono adottati. Sulle montagne prese quindi sempre più forme dirette di guerriglia, mentre nelle città, i GAP e le SAP adottarono le tecniche terroristiche, con attentati e colpi di mano diretti a personalità e simboli della Repubblica Sociale italiana e dei tedeschi. Fu una progressione di miglioramento costante, mese dopo mese.  La reazione delle forze avversarie fu sostanzialmente inefficace e improduttiva, tutto basato sulla rappresaglia e sulla violenza incontrollata verso la popolazione, che sostanzialmente conquistare la quale era il vero obiettivo del movimento ribellistico che fu realizzato sul finire del 1944.

 Per i responsabili della Resistenza, risolto il problema militare, rimaneva quello principale, ovvero mantenere unite le forze che avevano deciso di ribellarsi.  I tedeschi fecero ogni sforzo per dividere le varie componenti del movimento ribellistico, soprattutto quelle di democrazia liberale, monarchica, cattolica e in genere, centrista. Ogni sforzo fu sventato e l’unità del fronte ribellistico fu mantenuta integra. Paradossalmente il vero colpo mortale al movimento fu portato, a metà novembre, da chi meno lo si aspettava: gli Alleati. Il proclama di Alexander del 20 novembre che invitava i ribelli a smobilitare e a tornarsene a casa per l’inverno fu in sostanza interpretato da amici e nemici come un invito ad abbandonare la lotta armata. Fu un momento molto difficile, che diede vigore agli avversari e metteva in discussione tutta l’architettura della Resistenza. Il 1944 fu un anno di crescita, di successi, di speranza che tutto si concludesse entro l’inverno ma che si concluse con una momentanea botta d’arresto, soprattutto politica e morale.