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Contro tutti e tutto. I soldati Italiani nei Balcani nel 1943

Il Volume "La Divisione "Perugia" Dalla Tragedia all'Oblio" è disponibile in tutte le librerie. ISBN 886134305-8, Roma, 2010, Euro 20,00 pag. 329.



Ordini: ordini@nuovacultura.it, http://www.nuovacultura.it/ Collana storia in laboratorio;

Un Triste destino per la Divisione "Perugia"

Un Triste destino per la Divisione "Perugia"
La Divisione "Perugia" avrebbe avuto miglior sorte se Informazioni ed Intelligence avessero trovato più ascolto presso i Comandi Superiori

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mercoledì 31 agosto 2016

.Italia. Affrontare l'emeergenza


Terremoto centro Italia
Sisma: come rispondere all’emergenza 
Alessandro Marrone
30/08/2016
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Il terremoto nel centro Italia ha attivato il sistema di sicurezza civile che affronta emergenze quali i disastri naturali, con una serie di misure che riguardano i soccorsi, gli alloggi e l’organizzazione delle attività per superare la crisi.

La Protezione civile e l’organizzazione dei soccorsi
Un cataclisma del genere (292 vittime, circa 400 feriti e oltre 2.900 sfollati) ha attivato il sistema di sicurezza civile che in Italia si occupa di affrontare disastri naturali o causati non intenzionalmente dall’uomo. Sistema che conta sul doppio pilastro del Servizio nazionale di protezione civile, coordinato dal Dipartimento omonimo in seno alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, e del Dipartimento dei Vigili del fuoco parte del Ministero dell’Interno.

Nei casi più gravi intervengono anche le Forze armate, ed infatti nei giorni successivi al sisma sono stati 1.250 i militari impegnati a fianco dei Vigili del fuoco (circa 1.200) e del personale della protezione civile. Quest’ultimo è composto prevalentemente da volontari, inquadrati nelle strutture locali, provinciali e regionali coordinate dal Dipartimento a Roma. Nel complesso si tratta di un sistema articolato con diversi attori coinvolti, incluse altre amministrazioni pubbliche e organizzazioni di volontariato come la Croce Rossa Italiana.

Il sistema è organizzato secondo il principio di sussidiarietà: in caso di crisi risponde per primo il livello locale, ed in base ad estensione ed intensità del disastro la gestione dell’emergenza passa al livello superiore. Quando si verificano calamità come quella dello scorso 24 agosto, la responsabilità passa immediatamente al livello nazionale, ed in particolare alla Presidenza del Consiglio dove il Dipartimento della protezione civile interagisce con i ministeri dell’Interno e della Difesa e gli altri attori coinvolti.

Ovviamente nel momento del disastro, come alle 3.36 della notte del 24 agosto, le “colonne mobili” costituite dai volontari della protezione civile, piuttosto che le unità dei vigili del fuoco o i militari della caserma di Rieti, partono autonomamente e appena possibile dalle province vicine – e meno vicine – per raggiungere e soccorrere le persone rimaste sotto le macerie. Con loro, la scorsa settimana c’erano anche molti semplici cittadini accorsi per dare una mano.

La fase attuale è quella della “risposta” all’emergenza, che dovrebbe essere subito seguita dalla fase della “ripresa” – ed in teoria preceduta da quelle di “prevenzione” e “preparazione” rispetto a disastri naturali ed antropici.

L’istituzione, il 28 agosto, a Rieti della Direzione di comando e controllo (DiComaC) della Protezione civile, assume le funzioni svolte nei giorni successivi al sisma dal Comitato operativo del Dipartimento a Roma, è un passaggio importante per l’organizzazione di attività più legate all'assistenza alla popolazione e al ripristino delle normali condizioni di vita.

Il confine tra “risposta” e “ripresa” dall’emergenza varia a seconda della gravità della crisi: nel caso del terremoto a L’Aquila del 2009, che ha visto circa 64.400 sfollati da assistere, la Protezione civile ha tenuto per otto mesi la guida del complesso delle attività in loco prima di passare il testimone alle autorità locali.

Casette e scuole per superare l’emergenza
Le attività ora in corso nelle zone del sisma riguardano in primo luogo gli alloggi per gli sfollati, anche considerando che l’inverno arriva rapidamente sull’Appennino. Aldilà delle tendopoli, per loro natura provvisorie, quattro sono le soluzioni possibili: l’alloggio in strutture alberghiere spesato dallo stato; i container, utilizzati l’ultima volta per il terremoto del 1997 in Umbria; i Moduli abitativi provvisori (Map) ovvero piccole case di legno ad un piano; i Complessi abitativi sismicamente ecocompatibili (Case), veri e propri edifici di tre-quattro piani poggiati su ampie piastre anti-sismiche.

I Map e le Case sono stati utilizzati estensivamente a L’Aquila, tanto che a dicembre 2009 – poco dopo la chiusura delle ultime tendopoli – ospitavano rispettivamente circa 7.000 e 17.000 sfollati, mentre gli altri erano alloggiati in strutture alberghiere, oppure erano in affitto finanziati tramite i Contributi di autonoma sistemazione (Cas) fino a 600 mensili. Considerando il numero attuale di sfollati, inferiore a 3.000, governo e sindaci si stanno orientando verso i Map e l’utilizzo di alberghi e residence per chiudere entro pochi mesi le tendopoli, mentre l’ordinanza della Protezione civile dello scorso 26 agosto ha già istituito Cas mensili fino a 600 euro.

Altra attività in corso consiste nella verifica dell’agibilità delle strutture scolastiche, per capire quali possono essere utilizzate e quali soluzioni trovare per quelle inagibili. La possibilità di mandare i propri figli a scuola è un elemento fondamentale nella decisione da parte delle famiglie se abbandonare definitivamente le zone terremotate, oppure se resistere al lungo periodo di ripresa dall’emergenza, nei Map piuttosto che negli alberghi.

A L’Aquila furono realizzati una serie di Moduli ad uso scolastico provvisorio (Musp), facendo sì che a settembre 2009 tornasse nelle scuole il 99% degli studenti dei comuni del “cratere” – il territorio che ha ricevuto il maggior danno e a cui si applicano le misure di risposta e ripresa dalla crisi – e questa soluzione è allo studio anche per l’emergenza odierna.

Altre misure adottate riguardano gli aspetti economici, altrettanto importanti per evitare lo spopolamento delle zone colpite dal terremoto: nei 16 comuni del “cratere”, dal 25 agosto è stato sospeso il pagamento dei mutui e delle bollette relative agli edifici distrutti o inagibili, e delle tasse statali – misura quest’ultima che a L’Aquila è durata due anni.

Ricostruzione: sicurezza, identità e comunità
Sebbene pochi giorni siano passati dal sisma e dal lutto, è importante pensare subito alla strada per la ricostruzione e all’idea, condivisa dal livello nazionale a quello locale, di come dovranno essere i centri abitati ricostruiti nelle zone terremotate. Dal punto di vista della sicurezza, è imperativo ricostruire gli edifici secondo i più alti standard anti-sismici per prevenire lutti e danni in caso di ulteriori terremoti, come fatto a Norcia dopo il sisma del 1997.

Dal punto di vista sociale e identitario, il principio “dov’era e com’era” per gli edifici storici, al fine di ricostruire rispettando l’impianto urbano pre-sisma, è oggi richiesto da più parti per Amatrice e gli altri borghi antichi – come fu chiesto e ottenuto a L’Aquila per il centro cittadino.

Dal punto di vista psicologico ed emotivo, tutte le suddette misure sono assolutamente necessarie – primum vivere – ma forse non sufficienti senza idee, simboli e attività che tengano vivo quel tessuto di relazioni umane che rende un paese o una città diversi da un cantiere e da un presepe – che li rende una comunità.

Alessandro Marrone è responsabile di ricerca del Programma sicurezza e difesa dello IAI (Twitter @Alessandro__Ma).

lunedì 22 agosto 2016

Le Banche: un grande Mistero

Economia
Ue, lo strano caso delle crisi bancarie italiane
Mario La Torre
28/07/2016
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In Europa il ‘nodo banche’ continua a preoccupare e confondere. In ragione dell’assetto istituzionale dell’Unione monetaria, tutte le decisioni prese sulle crisi bancarie sono state coordinate tra paesi membri e competenti autorità europee; la ratio è stata quella di assicurare trattamenti ‘concorrenziali’ nella gestione delle crisi bancarie, per non discriminare tra banche e tra paesi. Il principio alla base - quello degli aiuti di Stato - sancisce che, nell’Unione europea (Ue), la libera concorrenza e la circolazione di beni e servizi non può essere distorta da interventi statali che tendano a favorire specifici operatori o settori industriali. Dunque, anche le banche devono sottostare a questo principio e, se in difficoltà, possono essere aiutate con fondi pubblici solo in casi eccezionali.

Condizioni del bail-in
Il recente bail-in aggiunge un ulteriore elemento: il dissesto di una banca non deve gravare sui cittadini se non dopo aver chiamato in causa i privati che hanno rapporti con la banca stessa. Con l’’internalizzazione delle perdite’ il ricorso agli aiuti di Stato per le crisi bancarie, già soggetto ad una verifica del ‘disturbo di concorrenza’, diventa soluzione residuale rispetto all’utilizzo dei fondi dei privati coinvolti nel dissesto bancario.

La prima questione che si impone, quindi, è quella di definire il perimetro dei soggetti che, avendo rapporti con la banca, sono chiamati a rispondere delle perdite. Il bail-inestende tale perimetro dai classici azionisti ad altre tipologie di creditori, principalmente sottoscrittori di obbligazioni ‘subordinate’. Questa scelta dà per scontato che gli obbligazionisti abbiano piena consapevolezza del maggior rischio che assumono e ricevano rendimenti coerenti con tale rischio. Quanto avvenuto nei casi delle quattro banche italiane – Banca Marche, Banca popolare dell’Emilia Romagna (Bper), Cassa di risparmio di Ferrara, CariChieti – ha fatto emergere con evidenza come tali condizioni non fossero affatto rispettate.

Crediti deteriorati e aiuti di Stato
In questo scenario si innesta il tema attuale della gestione dei non performing loans(Npl), ovvero dei crediti deteriorati che le banche hanno nei propri bilanci; policy makerse operatori si preoccupano di evitare possibili nuove crisi bancarie ripulendo i bilanci delle banche più esposte. Le soluzioni percorribili potrebbero impattare ancora una volta su tutti, clienti bancari e non, determinando proprio quella esternalizzazione delle perdite che si vorrebbe evitare.

In tale prospettiva, la visione dell’Italia è avanzata, rispetto a quella di altri paesi Ue. Per la gestione dei Npl, l’Italia chiede, ancora una volta, alla Commissione europea il via libera a forme di sostegno più aderenti all’eccezionalità delle circostanze; in sostanza: maggiore apertura nel ricorso agli aiuti di Stato. La sentenza della Corte di giustizia dell’Ue del 19 luglio scorso, che ribadisce la legittimità del bail-in e conferma il ricorso agli aiuti di Stato subordinatamente ai fondi privati, non agevola una soluzione in tal senso. Determinata ancora una volta da una negoziazione one-to-one tra Roma e Bruxelles, qualunque decisione confermerà il rischio che, nel prossimo futuro, altre trattative, con altri Stati membri, possano trovare soluzioni o equilibri differenti. Prima ancora dei contenuti di risoluzione delle crisi, emerge una esigenza definire processi e criteri interpretativi del bail-in che minimizzino il rischio di fine tuning distorsivi in sede di singole negoziazioni.

Esiste, poi, un ben più grave tema di economia sostanziale. L’Europa rincorre disperatamente crescita sostenibile, stabilità finanziaria e coesione sociale. È palese che le regole di vigilanza, e quelle di risoluzione delle crisi bancarie, sono state costruite pensando unicamente alla stabilità finanziaria.

Conseguenze all’orizzonte
L’Ue ammette il ricorso agli aiuti di Stato solo subordinatamente ai fondi privati per evitare comportamenti di azzardo morale da parte delle banche: c’è da chiedersi quanto azzardo morale possa nascondere il business dei Npl, che si moltiplicherà nei prossimi mesi a seguito delle operazioni di pulizia dei bilanci bancari e del proliferare di bad bankse veicoli da cartolarizzazione.

L’Ue ammette aiuti di Stato solo in casi eccezionali, ovvero quando sia minacciata la stabilità finanziaria. C’è da chiedersi quanta instabilità finanziaria potrà derivare dal coinvolgimento degli obbligazionisti inconsapevoli nei dissesti bancari; la perdita di fiducia dei clienti si tradurrà facilmente in minore raccolta per le banche.

L’Ue tenta quotidianamente nuove politiche per la crescita sostenibile; c’è da chiedersi quanta crescita potremo avere con banche senza Npl, ma anche senza raccolta.

L’Ue promuove politiche di coesione sociale ed inclusione finanziaria; c’è da chiedersi quanta inclusione finanziaria stimolerà il coinvolgimento dei creditori nella gestione delle crisi delle banche.

Dobbiamo operare affinché le misure che l’Italia sta negoziando in questi giorni per il Monte dei Paschi, e che potrà trovarsi a negoziare in futuro per altre banche, trovino una Commissione in grado di mettere a sistema tutte le variabili in gioco. Non si tratta di salvare una banca italiana in un modo meno rigoroso rispetto ad una tedesca; né di incentivare le banche ad avere comportamenti opportunistici sulla base di aiuti pubblici assicurati indiscriminatamente. Si tratta di comprendere che ogni soluzione – se non calibrata opportunamente – può portare un effetto contrario a quello sperato. Si tratta di trovare i giusti equilibri tra aiuti pubblici e fondi privati anche alla luce degli effetti macroeconomici, di inclusione finanziaria e sociale. Ma questo lo si capisce solo se si alza lo sguardo oltre gli angusti confini dei tecnicismi regolamentari.

Mario La Torre è ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari all’Università La Sapienza di Roma

giovedì 28 luglio 2016

I Droni: le opportunità di impiego

Sicurezza e difesa
Droni: protezione e sicurezza oltre la difesa 
Alessandro Ungaro, Paola Sartori
19/07/2016
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Concepiti e impiegati inizialmente in ambito militare, gli Aeromobili a pilotaggio remoto (Apr) - entrati nel nostro gergo comune con il termine “droni” - si rivelano sempre più uno strumento a carattere prettamente duale, in grado di assolvere o contribuire a tutta una serie di missioni civili e/o di sicurezza.

Pensiamo ad esempio alla sorveglianza delle frontiere terrestri e marittime, al monitoraggio delle infrastrutture critiche, oppure a supporto di operazioni di ricerca e soccorso e in casi di disastri naturali e/o antropici, e così via.

Strumenti versatili per la sicurezza
Da un lato, la possibilità di scegliere tra diversi tipi di sistemi - da quelli semplici di pochi grammi a quelli più complessi e che possono arrivare a pesare anche migliaia di kg - consente applicazioni multiformi e variegate, in grado di soddisfare le esigenze di diversi utilizzatori finali, sia civili che militari.

Dall’altra, la modularità del payloade dei dispositivi elettronici (sensori, radar, ecc.) garantisce l’acquisizione di una grande varietà di dati a seconda dei requisiti di missione e delle specifiche esigenze.

Ciò li rende particolarmente flessibili e “spendibili”, ma soprattutto in grado di massimizzare l’informazione ottenuta: i dati raccolti nell’ambito di una determinata missione potrebbero risultare utili anche per altri tipi di esigenze affini e compatibili.

Ad esempio, i dati collezionati nel corso di un’operazione di disaster managementpotrebbero rivelarsi validi anche nell’ambito della ricerca scientifica. Oppure, durante un’attività di monitoraggio ambientale si potrebbero raccogliere informazioni sfruttabili altresì per la fase di prevenzione e/o ripristino in caso di disastri naturali o antropici.

Vulnerabilità cyber e potenziali rischi
L’assenza dell’uomo a bordo del velivolo rende l’aspetto della sicurezza - nella doppia accezione di security e safety - un elemento pressoché cruciale.

Gli Apr interagiscono con l’ambiente esterno tramite l’elettronica e lo spettro elettromagnetico, raccogliendo, processando e scambiando una grande quantità di dati e informazioni che viaggiano nel cyberspazio e tra le infrastrutture fisiche e di rete a loro dedicate.

Questa caratteristica li rende potenzialmente vulnerabili ad attacchi esterni perché ogni interazione e scambio di dati tra la piattaforma e ciò che la circonda potrebbe costituire una possibile porta di ingresso per un attacco in grado di minacciare la funzionalità del segmento di bordo e di quello di terra.

Ecco perché è determinante che tali sistemi siano “resilienti”, ovvero in grado di operare in sicurezza anche qualora siano vittima di un attacco e/o ne sia compromesso il funzionamento (dal concetto di cyber-defence a quello di cyber-resilience).

Ma non ci sono esclusivamente le interferenze di tipo elettronico o cibernetico. La sicurezza si declina anche in termini prettamente fisici. Gli Apr di piccole dimensioni fanno ormai parte della realtà quotidiana e la loro diffusione è in crescita esponenziale.

Sempre più spesso li vediamo volare vicino a noi, fare riprese e registrare video a centinaia di metri di altezza, mentre all’orizzonte si profilano nuove modalità didelivery, con Amazon e altre società di e-commerce in testa.

Per quanto si tratti di sistemi piccoli o piccolissimi, essi possono comunque rappresentare un rischio considerevole per le persone e per gli altri utenti del cielo, ostacolando e compromettendo l’effettiva integrazione di tali velivoli all’interno dello spazio aereo civile.

Si pensi, ad esempio, al numero sempre più rilevante di collisioni sfiorate tra velivoli commerciali e Apr, nonché ai diversi incidenti provocati da piccoli sistemi utilizzati da operatori privati e/o improvvisati in prossimità degli aeroporti, o in grado di volare a quote abbastanza alte per interferire con i corridoi di transito dei velivoli tradizionali. Per non parlare, infine, del potenziale impiego a fini malevoli o addirittura terroristici da parte di organizzazioni o singoli individui.

Fattori abilitanti e prospettive future: un convegno IAI
Uno dei principali fattori abilitanti per il futuro degli Apr è quello dell’integrazione negli spazi aerei non segregati e l’inserimento nell’ambiente Atm (Air Traffic Management).

Si tratta di un aspetto destinato a cambiare radicalmente l’aviazione civile e militare, e le sue modalità di gestione, controllo e supervisione. Questa dinamica vede legate a doppio filo l’innovazione tecnologica da un lato, e la necessità di stabilire standard, procedure e regole comuni e sinergiche tra le due sfere di applicazione, dall’altro.

In quest’ottica,il convegno IAI del prossimo 26 luglio cercherà di contribuire alla riflessione sul tema, presentando uno studio sui velivoli a pilotaggio remoto e la sicurezza nazionale ed europea.

Nella partita che si sta giocando, l’Italia ha dimostrato e dimostra di poter far leva sull’esperienza acquisita in campo militare e civile, su capacità industriali di rilievo e, infine, su un approccio di sistema che sta dando i primi positivi frutti.

Sebbene tanto sia stato realizzato in questi anni, molto resta ancora da fare. Il mercato dei sistemi Apr rappresenta un’opportunità per promuovere crescita economica ed occupazionale così come innovazione tecnologica e industriale.

La sfida è appena iniziata e richiede che tutti gli stakeholder in campo adottino o perseguano un approccio armonico, coordinato e sinergico. L’obiettivo è quello di garantire che il segmento dei velivoli a pilotaggio remoto cresca all’interno di un mercato unico europeo nel rispetto di adeguati livelli di sicurezza e protezione per i cittadini.

Alessandro R. Ungaro è ricercatore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI, twitter@AleRUnga
Paola Sartori è assistente alla ricerca del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI, twitter@SartoriPal
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sabato 9 luglio 2016

Serbia e Kosovo e

Balcani
Vite parallele di Serbia e Kosovo nell'Ue
Sara Bonotti
06/07/2016
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La via europea di Serbia e Kosovo procede su binari paralleli per la scelta strategica di Bruxelles di diluire le frontiere in un percorso negoziale sincronico. Obiettivo collaterale è la normalizzazione delle relazioni tra Serbia ed ex-provincia autonoma, autoproclamatasi indipendente nel 2008. I rapporti della Commissione europea del novembre 2015 tracciano un percorso speculare d’integrazione e concessioni reciproche.

Alla Serbia, candidata dal 2012, si riconosce una politica regionale di riconciliazione e buon vicinato per stabilizzare il Kosovo e gestire la crisi migratoria.

Anche i progressi del Kosovo sono valutati in relazione al dialogo con la Serbia sul Primo Accordo del 2013 e sugli accordi di attuazione, e nella misura in cui Pristina tiene il passo con Belgrado (tra gli altri, in materia energetica, di libero scambio e regime Schengen). La Commissione ha spesso rilevato come la normalizzazione dei rapporti sia cruciale per imprimere slancio al futuro europeo di entrambi i paesi.

Belgrado, equilibrio instabile tra Bruxelles e Mosca
Incognite sul sentiero europeo s’insidiano nella mobilità del quadro politico. La conferma alle urne, lo scorso aprile, del Partito progressista serbo di Aleksandar Vučić favorirebbe una posizione equidistante tra valori europei e atlantici e tradizionali legami con la Russia. Similmente, la sopravvivenza parlamentare del Partito democratico riequilibrerebbe gli orientamenti in direzione di Europa e Nato.

Sull’altro versante, Partito radicale serbo, Partito democratico della Serbia e Partito popolare serbo - quest’ultimo parte della coalizione governativa - potrebbero far oscillare l’ago della bilancia verso Mosca. All’indomani dei risultati, le congratulazioni a Vučić del premier russo prospettavano un’alleanza “interessante e utile” in chiave strategica ed energetica. Le dinamiche, attualmente fluide, dipenderanno dalla capacità di mediazione di Vučić e dal ruolo della Russia sullo scacchiere internazionale.

Pristina, freno ai negoziati europei 
A Pristina, il vuoto di potere tra le elezioni del giugno 2014 e la formazione di una debole coalizione governativa tra Partito democratico del Kosovo del presidente Hashim Thaçi e Lega democratica del Kosovo del premier Isa Mustafa nel novembre di quell’anno ha ritardato la cooperazione regionale. Il confronto ha assunto connotati etnici nell’ottobre scorso, quando l’opposizione di ‘Autodeterminazione’ e alleanza per il futuro del Kosovo ha ostruito i lavori parlamentari sui negoziati con la Serbia.

Intanto, la Corte costituzionale, interpellata dall’allora presidente Atifete Jahjaga sulla costituzionalità del Primo Accordo del 2013, ha dapprima temporaneamente congelato l’intesa, per poi dichiararla parzialmente incostituzionale nella sezione relativa all’Associazione delle municipalità serbe.

La natura dell’Associazione rimane di fatto controversa: largamente autonoma su modello altoatesino per l’esecutivo serbo; organizzazione non governativa senza poteri esecutivi secondo Pristina. L’Accordo ricorre alla formula volutamente ambigua di “full ownership” dell’Associazione per dissimulare tali discrepanze.

L’integrazione delle ’strutture parallele’ serbe del nord nella cornice istituzionale kosovara è parimenti questione interpretativa. La protezione civile su base etnica è ad esempio considerata dai serbi struttura d’intervento d’emergenza, mentre le autorità del Kosovo v’individuano un nucleo d’intelligence paramilitare finanziato da Belgrado, che evoca fantasmi di strutture analoghe anche nella Repubblica serba di Bosnia.

Zagabria, veto sulle trattative 
Le relazioni altalenanti con la Croazia hanno mostrato il fianco debole di Belgrado su una questione chiave per l’accesso all’Unione europea: i crimini di guerra. Zagabria ha bloccato i negoziati con la Serbia su giustizia e diritti umani a seguito dell’assoluzione in primo grado di Vojislav Šešelj, presidente del Partito radicale serbo, da parte del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia nel marzo 2016. Šešelj, imputato di crimini di guerra e contro l’umanità per nove capi d’accusa, era stato già rilasciato temporaneamente prima della sentenza, che attendeva a Belgrado con febbre elettorale e protagonismo mediatico.

Immediate le reazioni del governo croato: l’allora premier Tihomir Orešković ha parlato di regresso della giustizia internazionale, mentre il suo vice Bozo Petrov ha ricordato i freni all’accesso croato per questioni meno rilevanti, riferendosi al sentiero accidentato e puntellato di standard che nel 2013 aveva trasformato il paese nel ventottesimo membro dell’Ue.

Il ministro degli Esteri croato Miro Kovač ha condizionato le trattative con la Serbia alla rappresentatività parlamentare della minoranza croata, al rinvio di Šešelj all’Aja e a un dietrofront di Belgrado sull’arrogata giurisdizione universale per i crimini di guerra degli anni Novanta in ex-Jugoslavia.

La Serbia ha di contro interpretato la mossa come strumentale a distogliere l’attenzione europea da presunte involuzioni democratiche in Croazia, revival fascisti e discriminazioni della minoranza serba. In questo contesto, recenti orientamenti linguistici - come la rimozione delle targhe stradali bilingui a Vukovar in Croazia, nonché la proposta di Kovač di sostituire il termine “regione”, evocativo dell’ex-Jugoslavia, con il neutrale “vicinato” - si caricano di forti valenze simboliche ed emotive.

Sara Bonotti, Programme Manager Human Dimension, Organization for Security and Co-operation in Europe (Osce), Programme Office in Astana.

martedì 28 giugno 2016

La nostra informazione

Media
Tv, guerra al terrore e storytelling europeo
Fabio Turato
27/06/2016
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Palinsesti televisivi toccati dal terrorismo e dalla guerra per sconfiggerlo. A mostrarlo è lo studio dei cinque telegiornali continentali di prima serata, realizzato attraverso l’elaborazione dei dati forniti dall’Osservatorio di Pavia.

Questi indicano come la cronaca della guerra al terrore scali la classifica delle dieci notizie più trattate nel corso del 2015, mentre l’analisi e l’approfondimento fornito dalla politica estera restano invece in secondo piano. Se i Tg di Germania e Regno Unito confermano lo storytelling del 2014, nel 2015 si notano invece sensibili differenze nei notiziari televisivi in Spagna, Francia e Italia.

Ard e la società tedesca
L’analisi del telegiornale tedesco conferma la linea narrativa che trova guerra al terrorismo e argomenti esteri ai vertici della graduatoria. Se nel 2014 i due temi occupavano il primo e il terzo posto, nel 2015 è cresciutal’attenzione per i temi a valenza sociale connessi a dinamiche globali, come l’accoglienza e l’inclusione dei migranti.

Tanto che la politica estera è scesa al secondo posto passando dal 25% delle notizie trattate nel 2014 al 18% del 2015 (-7%), mentre la guerra al terrore si è confermata al terzo, passando dal 10% al 13% (+3%). Il salto di qualità nel Tg del primo canale tedesco è rappresentato invece dalle questioni sociali e dai riflessi nella società tedesca che salgono dal 7% al 22%, con un aumento di ben 15 punti percentuali.

Bbc One e la guerra al terrore
Anche Bbc One conferma la narrazione seguita nel 2014. Il divario tra guerra e politica estera va però ampliandosi. La guerra al terrore è salita dal secondo al primo posto delle notizie trattate nel 2015, scavalcando l’economia. Mentre la politica estera è scesa dall’ottavo al decimo posto (dal 6% al 5%). Anche se è probabile che questo sia stato un riflesso degli attentati parigini, bisogna ricordare la consolidata narrazione del terrorismo sul suolo britannico: dai “Troubles” irlandesi, alla bomba di Lockerbie, all’attentato combinato bus/metro del 2005. La polarità fra guerra e politica racconta quindi un paese in prima linea contro il terrore.

Rtve1 e la voglia di capire
Differentemente dai telegiornali di Germania e Regno Unito, il notiziario della prima rete spagnola sembra esprimere un’altra chiave narrativa. Nel 2015, il racconto della guerra al terrorismo è salito dal settimo del 2014 (5%) al terzo del 2015 (10%).

La politica estera scende invece di una posizione fermandosi al quarto, passando dal 12% al 9%. Con ogni probabilità, la vicinanza tra guerra e politica estera nel 2015 suggerisce il tentativo di contestualizzare gli eventi internazionali, sottraendoli al racconto della sola cronaca definendo anche interessi e strategie degli attori coinvolti.

France2 e lo schema britannico
Gli attacchi terroristici che hanno marcato a sangue tutto il 2015 francese, hanno trasformato il racconto del Tg francese, accostandolo a Bbc One. La polarità fra guerra al terrorismo e politica estera si evince dalla salita della prima dal quinto posto delle notizie trattate nel 2014, al primo del 2015.

Come nel caso britannico la politica estera è scesa invece di diverse posizioni passando dal sesto al nono posto. Tanto che, se la politica estera è stata meno presente nel palinsesto (dall’8% del 2014 al 5% del 2015) , l’attenzione per la guerra al terrore è salita invece dall’8% del 2014 addirittura al 22% dell’anno successivo.

Rai e ansia preventiva
Anche il telegiornale della principale rete pubblica italiana ha evidenziato un sensibile cambiamento tra il 2014 e il 2015. La distrazione con cui i notiziari televisivi nazionali guardano a ciò che accade all’esterno dell’Italia è in parte mitigata dal principale notiziario televisivo nei confronti della guerra al terrore. Argomento che sale nel 2014 era al decimo posto del 2014 (4%) e nell’anno successivo arriva ad occupare addirittura il secondo (13%).

L’attenzione nei confronti della politica estera che scende dal settimo posto del 2014 (5%) all’ottavo del 2015 (6%), sembra allora confermare la polarità narrativa riscontrata per France2 e Bbc One. Tuttavia, rispetto allo schema franco-britannico emerge una variante.

Le notizie dedicate alla criminalità si confermano al terzo posto nei due anni considerati. Nonostante i dati di Istat e Ministero dell’Interno indichino da tempo un calo dei reati, l’accostamento della guerra al terrore alla criminalità contribuisce a una narrazione ansiogena, anche se in Italia da molti anni non si verificano attentati paragonabili a quelli di Londra e Parigi. Il che delinea uno schema informativo basato sull’“ansia preventiva”, piuttosto che sull’insicurezza motivata dai fatti.

Fabio Turato insegna Relazioni internazionali presso la Scuola di Scienze politiche del DESP – Dipartimento Economia, Società e Politica dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”.
 
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giovedì 23 giugno 2016

Il pericolo mussulmano nei Balcani

Balcani
Bosnia Erzegovina, il rischio jihadista
Andrea Oskari Rossini
13/06/2016
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Il 18 novembre 2015, pochi giorni dopo gli attentati di Parigi, Enes Omeragić, un giovane di Sarajevo, è entrato in una sala per scommesse nel quartiere periferico di Rajlovac e ha aperto il fuoco su due militari bosniaci, uccidendoli. Rintracciato poche ore dopo nella sua abitazione, Omeragić si è a sua volta ucciso, facendosi saltare in aria con una bomba a mano.

L'episodio non è stato praticamente registrato dai media europei, ancora sotto choc per i fatti di Parigi. Rappresenta tuttavia l'ennesimo attentato riconducibile al terrorismo islamista avvenuto nel paese balcanico a partire dal 2010.

Nel giugno di quell'anno venne fatta esplodere una bomba fuori dalla stazione di polizia di Bugojno, in Bosnia centrale. Un poliziotto, Tarik Ljubuškić, morì, e sei suoi colleghi rimasero feriti.

L'anno dopo, a Sarajevo, Mevlid Jašarević aprì il fuoco con un kalashnikov contro l'Ambasciata degli Stati Uniti, ferendo un poliziotto. Infine l'anno scorso, il 27 aprile, Nerdin Ibrić ha assalito con un fucile automatico i militari della stazione di polizia di Zvornik, nella parte del paese a maggioranza serba, gridando “Allah Akbar” e uccidendo l'agente Dragan Đurić prima di venire ucciso a sua volta.

Balcani, serbatorio di foreign fighters
La tipologia degli attentati avvenuti in Bosnia è diversa dalle stragi perpetrate dall'autoproclamatosi “stato islamico” nelle grandi capitali europee. Ad essere colpiti sono obiettivi stranieri, oppure rappresentanti delle locali forze di sicurezza, militari o poliziotti.

I civili non sono stati finora coinvolti, il che lascia presupporre una strategia diversa dei gruppi radicali nei Balcani. Sporadicamente, singoli individui escono allo scoperto. Il ruolo principale assegnato alla regione, però, sembrerebbe essere quello di base logistica, ad esempio per il trasferimento di uomini o armi, e di serbatoio di potenziali “foreign fighters”.

Secondo il professor Vlado Azinović, docente all'Università di Sarajevo e recentemente co-autore, con Muhamed Jusić, della ricerca “Il richiamo della guerra in Siria: il contingente bosniaco dei combattenti stranieri”, sarebbero circa 250 i bosniaci che hanno lasciato il paese per andare a combattere nel Medio Oriente, tra il 2012 e la fine del 2015.

Non si tratta di una cifra rilevante in termini assoluti, se comparata ad esempio a quella dei “foreign fighters” provenienti dalla Francia, dal Belgio, dal Regno Unito o dalla Germania. In termini relativi però, cioè riportati alla grandezza della popolazione (circa 3.800.000), non si tratta di un dato insignificante.

Bosnia, dove è facile procurarsi armi
La Bosnia Erzegovina, inoltre, ha alcune specificità, sotto il profilo del rischio terrorismo che la distinguono dalla maggior parte degli altri paesi europei. La prima è la frammentazione delle diverse forze e agenzie di sicurezza, nel contesto della complicata struttura istituzionale definita dagli accordi di Dayton.

Uroš Pena, vice capo del Direttorato per il Coordinamento delle forze di polizia del paese, ha recentemente dichiarato ai media locali che “la condivisione delle informazioni è un grosso problema. Ogni agenzia si tiene strette le migliori informazioni di cui dispone [...] Non abbiamo neppure una chiara definizione delle giurisdizioni”.

Il secondo elemento di rischio, per la Bosnia Erzegovina, è la relativa facilità con cui, a vent'anni dalla fine della guerra, è ancora facile procurarsi armi. Quando sono stati firmati gli accordi di pace, molti hanno preferito conservare le armi, ad ogni buon conto. Queste armi possono ora finire nelle mani sbagliate nei modi più diversi, vendute sul mercato nero anche solo per aggiustare temporaneamente il bilancio familiare.

Il fatto invece che poco meno della metà della popolazione della Bosnia Erzegovina sia di fede, cultura o tradizione musulmana, l'aspetto in genere più sottolineato dai media europei che si sono occupati del fenomeno terrorista nel paese, non rappresenta di per sé un elemento di rischio.

La comunità islamica locale (Islamska Zajdenica, IZ) ha sempre denunciato con forza il terrorismo e la violenza, invitando i propri fedeli a tenersi distanti dai gruppi radicali che cercano di sovvertire le regole su cui da secoli si fonda l'Islam in questa regione.

Alle origini dei mujaheddini in Bosnia
Questi gruppi, secondo il giornalista Esad Hećimović, autore di “Garibi - Mujaheddini in Bosnia Erzegovina tra il 1992 e il 1999”, hanno cominciato a manifestare la propria presenza nel paese a partire dal 1992, anno di inizio della guerra in Bosnia. Alcune centinaia di combattenti (un numero verisimile è quello di 800 combattenti, secondo Hećimović), provenienti da paesi arabi o dall'Afghanistan, si unirono alla brigata “El mujahid” dell'Armija BiH, Esercito della Bosnia Erzegovina, o a formazioni minori, combattendo dalla parte dei bosniaco musulmani.

Dopo la guerra, la loro influenza continuò in modi diversi, attraverso il lavoro di predicatori, l'assistenza finanziaria o la creazione di un sistema alternativo di welfare.

Oggi, venti anni dopo la fine della guerra, è difficile valutare la diffusione e influenza dei gruppi radicali. Data la conformazione del paese, si tratta di una presenza localizzata soprattutto in villaggi isolati, in zone montuose o rurali, dove questi gruppi conducono una sorta di vita sociale e religiosa parallela. Non tutti sono naturalmente legati alle reti del terrorismo internazionale, né tutti credono nell'uso della violenza per la lotta politica o religiosa.

La comunità islamica ha però cercato recentemente di ricondurre le 64 comunità ribelli censite all'interno della propria giurisdizione. Il difficile percorso non ha però sortito grandi risultati. Al termine dei colloqui, solo 14, delle 38 che hanno partecipato al processo, hanno accettato di (ri)entrare a far parte della comunità ufficiale.

Andrea Oskari Rossini nel corso degli anni '90 ha lavorato in diversi progetti di assistenza ai profughi dell'ex Jugoslavia in Italia e poi in programmi di cooperazione comunitaria e decentrata nei Balcani. Giornalista professionista e documentarista, lavora con Osservatorio Balcani e Caucaso dal 2002.

Quest'articolo è frutto di una collaborazione editoriale tra l'Istituto Affari Internazionali e Osservatorio Balcani e Caucaso.

lunedì 30 maggio 2016

Roma, 8 giugno 2016 ore 17. Comunicato

ISTITUTO DEL NASTRO AZZURRO FRA COMBATTENTI DECORATI AL VALOR MILITARE

CENTRO STUDI SUL VALORE MILITARE
CESVAM

 Sito: www.istitutonastroaazzurro.it/cesvam

In Collaborazione con la Federazione Roma del Nastro Azzurro”, nel quadro dei
Mercoledì del Nastro Azzurro
Comunicato

INCONTRO CON L’AUTORE

  LUIGI MARSIBILIO

“Il Quadro di Battaglia dell’Esercito Italiano nel 1940”
(Progetto di ricerca 2015 presentato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri)


Nel 2015 l’Istituto del Nastro Azzurro ha presentato, tramite il Centro Studi sul Valore Militare – CESVAN, cinque progetti in base al bando di invito della Presidenza del Consiglio dei Ministri per celebrare e ricordare il 70° anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale ed in particolare la Guerra di Liberazione 1943-1945. Tra questi progetti vi era anche quello dedicato al “Quadro di Battaglia dell’Esercito Italiano nel 1940” avente lo scopo di illustrare, attraverso una ricerca dettaglia ed iconografica la reale consistenza dello strumento militare italiano al momento dell’entrata in guerra.

Il Progetto, ancorchè non finanziato, fu portato avanti secondo l’architettura proposta. Oggi, nel ricordare la data del 10 giugno 1940, giorno della dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna ed alla Francia, il capo progetto, Gen. Luigi Marsibilio, illustrerà i risultati della ricerca. Questa si è sviluppata tenendo conto dei dettami del volume “La ricostruzione di un avvenimento storico militare”, volume che è la base di partenza di tutte le ricerche relative ai progetti gestiti dal CESVAM.

L’Esercito Italiano, o come nel 1940 veniva definito, il Regio Esercito, era articolato su Scuole, Armi, Corpi e Servizi, ed includeva anche le Regie Truppe Coloniali ed un nuovo Corpo, La Guardia alla Frontiera. La pedina base era il reggimento, che raccoglieva e rappresentava la tradizione militare italiana. Ordinato sulla classica ripartizione delle forze, il reggimento comprendeva battaglioni, compagnie plotoni e squadre, mentre, a livello superiore, il reggimento vi erano la Divisione, il Corpo D’Arma l’Armata. Non vi era il livello di Brigata per via degli ordinamenti adottati a metà degli anni trenta. 

L’Autore illustrerà le tappe della ricerca ed i risultati e trarrà le conclusioni relative.

A seguire, per dare compiutezza alla ricerca sarà presentato ed illustrato il volume che è servito di matrice articolativa della ricerca stessa:

 “La ricostruzione e lo studio di un avvenimento storico militare”
Società Nuova Cultura, Università la Sapienza, Edizione “I Libri del Nastro Azzurro”
Roma 2016, pag, 287, E. 18,50 ISBN 8861342671


I progetti presentati dall’Istituto del Nastro Azzurro nel 2015, come già accennato, comprendevano oltre a quello oggi illustrato anche i seguenti:”Storia in laboratorio”, che aveva lo scopo di portare testimonianze nelle scuole, già precedentemente avviato, e quello avente lo scopo d predisporre, per il progetto “Storia in laboratorio” un “Dizionario Minimo della Guerra di Liberazione 1943-1945” più altri due, riguardanti la implementazione della ricerca informatica ed un secondo riguardante il valore militare. Tutti i progetti ebbero accoglienza degna di nota e tra quelli presentati, nell’ordine delle centinaia su scala nazionale, nella graduatoria che la Presidenza del Consiglio stilò in fase valutativa e giudicativa, si classificarono tra il trentaduesimo posto ed il cinquantesimo. Una buona classificazione; il rammarico è dovuto al fatto che che i progetti meritevoli di finanziamento erano solo quelli classificatesi  fino al 30 posto. Nonostante questa difficoltà si decise di proseguire nell’ambito CESVAM le ricerche previste nei progetti. Oggi è stato presentato quello relativo al quadro di battaglia dell’Esercito nel 1940, a breve sarà presentato quello relativo al Dizionario Minimo della Guerra di Liberazione.

Tutti i progetti, come detto, hanno riferimento al volume che oggi si presenta. Questo volume si prefigge di fornire, a studenti, frequentatori e ricercatori, predendo le mosse dai dettami e finalità del progetto “Storia in laboratorio” promosso a suo tempo, nel 2006, dal presidente Gen. Sen. Luigi Poli nell’ambito della Associazione combattentistica di cui era Presidente, uno strumento utile per ricerche di carattere storico. Con la morte del Gen. Luigi Poli, nel 2013, il progetto sembrava arenarsi. Ripreso in ambito CESVAM, il progetto continua e si è ben sviluppato, sempre avendo come base questo volume, che oggi è presentato nella edizione dei “Libri del Nastro Azzurro” continuando la sua funzione di divulgazione e studio delle tematiche storiche.

Prendendo a riferimento il fenomeno “guerra” il volume propone schemi attagliati, anche in combinazione tra loro, alla guerra classica, alla guerra rivoluzionaria e/o sovversiva, ed alle recenti peace support operations, ove in questo caso, i soggetti protagonisti da due passano a tre (parti in conflitto/forze di interposizione). Sono note e suggerimenti sia per coloro che voglio studiare la Storia, ma anche per coloro che voglio capire la “Storia” attraverso chiavi di lettura basate sul metodo storico. Un volume più da consultare e tenere presente che da leggere

Interverranno per approfondire gli spunti qui indicati alcuni componenti del Collegio dei Redattori dei “Quaderni” del Nastro Azzurro, che hanno adottato questo volume come strumento di lavoro e di studio.

La presentazione della ricerca e del volume si terra:
MERCOLEDI 8 GIUGNO 2016 ORE 17.00 nella Sede Nazionale del Nastro Azzurro, Sala Maggiore, Viale Regina Margherita/Piazza Galeno 1 Roma


La S.V. è invitata a partecipare e, se lo crede opportuno, intervenire..

venerdì 27 maggio 2016

Austria: un problema che rileva l'egoismo austriaco

Unione europea
Austria e minacce populiste assediano l’Ue 
Matteo Garnero, Eleonora Poli
19/05/2016
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Mentre a Londra il partito laburista festeggia il trionfo elettorale del proprio candidato, Sadiq Khan, in Austria i rappresentanti dei partiti tradizionali dovranno probabilmente considerare una ristrutturazione interna, dopo il fallimento dei loro candidati, il popolare Andreas Kohl e il socialdemocratico Rudolf Hundstorfer.

In effetti, durante le elezioni presidenziali dello scorso 24 aprile, i due partiti hanno ottenuto poco più dell’11% dei voti, lasciando via libera a Norbert Hofer, leader del Partito della Libertà, Fpö, guidato da Heinz-Christian Strache.

Con una campagna nazionalista e anti-immigrazione, l’Fpö è infatti riuscito a sbaragliare i partiti tradizionali, assicurandosi la maggioranza relativa dei voti (36,4%). Nel ballottaggio del 22 maggio, dovrà ora affrontare il candidato indipendente (ma comunque sostenuto dal partito dei Verdi) Alexander van der Bellen che ha ottenuto il 20,4% dei voti.

Il cancelliere socialdemocratico Werner Faymann ha rassegnato le proprie dimissioni, lasciando il posto a Christian Kern, nel tentativo di fermare il crollo di consensi del governo di coalizione.

L’importanza delle elezioni in questione è più simbolica che sostanziale, dal momento che il ruolo del Presidente, così come previsto dalla costituzione dell’Austria, è formalmente di rappresentanza. Ciononostante, il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali rappresenta un dato in linea con un allarmante trend, che vede i movimenti populisti assediare le porte dei governi europei.

Euroscettici e xenofobi a nord…
Pochi mesi fa l’Unione europea, Ue, era stata scossa dalla vittoria elettorale del partito euroscettico e di estrema destra francese, Front National, nel primo turno delle regionali con il 27,7% dei voti su scala nazionale.

In questo frangente, buona parte dell’elettorato ha sostenuto i candidati repubblicani (Les Républicains, 27%) e socialisti (Parti socialiste, 23%) nei ballottaggi, evitando che il FN ottenesse il controllo di qualsivoglia regione, sebbene abbia registrato il più consistente supporto elettorale della sua storia politica, con quasi 7 milioni di voti.

Più recentemente, in occasione delle elezioni in alcuni Stati federali tedeschi, il partito anti-immigrazione Alternative für Deutschland ha consolidato la propria posizione come terza forza politica della Germania, in aperta contestazione alle politiche della Cancelliera Angela Merkel.

Allo stesso tempo, con un sostegno che oscilla fra il 16-17% rispetto al 12,6% ottenuto nelle elezioni parlamentari dello scorso anno, la legittimità del partito indipendentista britannico, Ukip, sta aumentando grazie al referendum sulla Brexit del giugno prossimo.

…anti-austerity a sud 
Diversamente dal Nord Europa, il malcontento dei cittadini del Sud si è manifestato tramite partiti populisti di sinistra, soprattutto a causa delle politiche di austerità adottate dai governi nazionali per risanare le economie locali.

In Spagna, il partito eurocritico Podemos ha ottenuto un buon risultato nelle elezioni del dicembre scorso con oltre il 20% dei voti, mentre in Grecia, Syriza è ormai al potere da più di un anno. In Italia, invece, il Movimento 5 Stelle, che rifiuta ogni tipo di categorizzazione politica, ha però inserito nella propria piattaforma politica molte istanze della sinistra come la necessità di introdurre un reddito di cittadinanza.

Fpö punta sul malcontento
A prescindere dal colore politico del populismo austriaco, le ragioni del successo elettorale dell’Fpö vanno ricercate nella sfiducia comune a tutti i cittadini europei nei confronti della classe politica tradizionale, apparentemente incapace di rilanciare l’economia e gestire la crisi migratoria.

In Austria, il tasso di disoccupazione al 5,8% è decisamente inferiore rispetto alla media europea (10,2%), ma ha avuto un incremento ondivago, intorno al 2%, a seguito alla crisi finanziaria globale. A questo si deve aggiungere l’impatto determinato dagli oltre 90mila fra migranti e rifugiati, giunti in Austria nel corso del 2015.

Sul tema, il governo ha assunto posizioni contraddittorie, dapprima adottando una politica di accoglienza come fatto dalla Germania nel corso del 2015, per poi rivedere le proprie posizioni durante l'inverno, alla luce della crescita nei sondaggi dell’Fpö e del consistente afflusso di migranti e richiedenti asilo.

Il governo guidato dal cancelliere Faymann, (ora dimissionario), ha progressivamente introdotto nuovi controlli ai confini, oltre a fornire esplicito supporto alla chiusura della rotta balcanica. Dopo l'introduzione di quote di accesso e limiti alle richieste di asilo giornaliere, l'Austria ha concentrato la propria attenzione sul confine meridionale, annunciando il progetto di introdurre nuovi controlli e recinzioni al passo del Brennero.

Già nel 2014, le elezioni del Parlamento europeo avevano reso evidente il crescente peso esercitato dai partiti populisti, mettendo in luce la necessità di politiche efficaci in risposta alle domande dei cittadini. Poco sembra essere cambiato.

Con una crescita economica in media limitata (+0,5% nel primo trimestre del 2016), una disoccupazione giovanile al 19,1% e i tentativi tardivi e poco ortodossi di controllare le onde migratorie, i governi dei Paesi membri dell’Ue non sembrano in grado di far fronte ai problemi che attanagliano i cittadini europei.

Le recenti elezioni di Londra hanno dimostrato che il cambiamento, quando abbracciato da partiti tradizionali, risulta vincente. Questa è una lezione che i partiti tradizionali europei devono prendere in considerazione per non lasciare maggiore spazio ai partiti populisti che, catalizzando sul diffuso malcontento dei cittadini, hanno terreno fertile per un pericoloso consolidamento nella scena politica europea.

Matteo Garnero è stagista dell’area Europa dello IAI.
Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI
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lunedì 16 maggio 2016

I Mari italiani e l'ambiente

Politica marittima
Non solo trivelle: la protezione dei mari d’Italia
Fabio Caffio
10/05/2016
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Rilanciare la tutela ecologica del mare da tutti i rischi che lo minacciano potrebbe essere un obiettivo da perseguire in attesa che le rinnovabili assumano priorità secondo l'Accordo di Parigi sul clima (Cop21).

Magari, avendo di mira la cooperazione transfrontaliera con i paesi vicini. Ed assumendo un approccio pragmatico sulle attività offshore energetiche, in linea con la visione dell'Unione europea (Ue) che non è certo sostenitrice ad oltranza del fossile.

Offshore europeo
La Ue ha valutato, all'indomani dell'incidente del Golfo del Messico del 2010, l'opzione della moratoria delle trivellazioni, ma ne ha escluso la fattibilità per motivi economici.

Non a caso, le istituzioni europee hanno approvato la strategia della Energy Security, volta a conseguire stabilità e abbondanza energetica anche mediante sfruttamento delle risorse nazionali di idrocarburi, ad evitare dipendenza extra Ue, in primis dalla Russia.

Come precondizione è stata però varata la direttiva 2013/30 relativa alla sicurezza delle operazioni in mare, fissando standard di responsabilità, prevenzione e controllo che il ministero dello Sviluppo economico ha prontamente recepito con il decreto legislativo 145/2015.

Inoltre, la Ue ha indicato, nell'ambito della direttiva 2014/89 sulla pianificazione spaziale marina, l'esigenza che la creazione di zone di giurisdizione nazionale tenga anche conto dei rischi associati agli usi del mare, compresi l'estrazione di idrocarburi con impianti di trivellazione e la produzione di energie rinnovabili in wind farms marine di gigantesche pale eoliche.

Ecologismo marittimo italiano
L'impegno del nostro paese nella tutela dell'ambiente marino è testimoniato dall'ultradecennale applicazione della legge 979/1982 sulla difesa del mare: normativa organica che ha generato aree marine protette, lotta agli inquinamenti costieri, capacità antinquinamento gestite da Marina militare, Guardia costiera e società private in convenzione con il ministero dell'Ambiente.

La legge 61/2006 ha successivamente previsto la possibilità di istituire, al di là del mare territoriale, la zona di protezione ecologica (Zpe). Vale a dire una zona economica esclusiva (Zee) di genere minore, relativa alla sola protezione ecologica e non alla pesca, il cui regime di prevenzione e repressione si applica a tutte le forme di inquinamento marino, comprese quelle "da attività di esplorazione e di sfruttamento dei fondi marini".

La spinta alla creazione di Zpe si è esaurita con la nascita (ad opera del Dpr 209/2011) di quella del Tirreno e del Mar Ligure, speculare rispetto alla Zee francese e sovrapposta al già esistente santuario dei mammiferi italo-franco-monegasco.

C'è da chiedersi, sull'onda referendaria, se l'istituzione di nuove Zpe in altre zone specifiche dei mari d'Italia non sia opportuna, per proteggere anche dal largo - in quello che ora è alto mare - l'ambiente costiero minacciato da vari rischi.

Del resto, la Croazia lo ha fatto nel 2003 senza negoziare con noi il confine, la Tunisia nel 2005, la Libia nel 2009. Per non parlare delle varie iniziative cipriote di delimitazione congiunta di Zee e piattaforma continentale.

Foto: aree offshore della Croazia (Fonte Sole-24 Ore).

Certo è che nuove Zpe (o addirittura Zee integrali, considerando il trend della prassi mediterranea) verrebbero incontro alle istanze ecologiste di regioni come l'Abruzzo, la Puglia e la Sicilia.

Pragmatismo Ue
È illusorio pensare di arroccarsi nella difesa ambientale dei mari italiani quando a poche miglia altri stati pianificano ed attuano un sistematico sfruttamento energetico secondo regole non sempre adeguate.

Italia e Croazia, superando le incomprensioni derivanti dall'iniziativa del 2003, potrebbero riavviare la cooperazione italo-jugoslava iniziata nel 1974 con la Commissione per la protezione dell'Adriatico, associando magari Montenegro ed Albania.

Senza dubbio, un'intesa ecologista con la Tunisia verrebbe incontro ad esigenze reali, oltre che essere politicamente fruttuosa. D'altronde, simili accordi sono previsti dal Protocollo offshore del 1994 sulla protezione del Mediterraneo dall’inquinamento da esplorazione e sfruttamento della piattaforma continentale, già ratificato da Tunisia ed Ue. Peraltro, la moratoria italo-maltese sulle trivellazioni a sud est della Sicilia di fatto va in questa direzione.

L'unilateralismo ecologista ed energetico può certo accreditare un'immagine virtuosa dell'Italia. Questa policy, a prescindere dai suoi costi economici nel medio periodo e dal beneficio che ne trarrebbero paesi concorrenti, rischia tuttavia di isolarci. Nella Ue certe logiche sono invece improntate al pragmatismo, pur nel rispetto degli impegni internazionali sul clima.

Se così è, tanto vale allora attuare gli strumenti della sicurezza delle operazioni in mare nel settore idrocarburi, del Protocollo offhore e della pianificazione spaziale marina (in cui si inquadrano iniziative di nuove Zpe) per realizzare, in tempi ragionevoli ed in forma coerente e razionale, legittime aspettative di riduzione dell'impatto sul mare dell'offshore energetico.

Fabio Caffio è Ufficiale della Marina militare in congedo, esperto in diritto internazionale marittimo
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venerdì 6 maggio 2016

Un caso infinito. Le condizioni del rientro dei Marò

Caso Marò
Girone in Italia, in attesa di mosse diplomatiche
Natalino Ronzitti
08/05/2016
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In attesa della costituzione del Tribunale arbitrale, che sarebbe dovuto entrare in funzione a norma dell’annesso VII alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, l’Italia aveva chiesto al Tribunale internazionale del diritto del mare (Amburgo) una misura provvisoria volta al rientro di Salvatore Girone e alla permanenza di Massimiliano Latorre in Italia.

Ma il Tribunale, con l’ordinanza del 24 agosto scorso, aveva congelato la situazione: permanenza in Italia di Latorre per motivi di salute; libertà vigilata in India di Girone. Di qui la mossa italiana di chiedere al Tribunale arbitrale, una volta istituito, una nuova misura provvisoria consistente nel rientro di Girone in Italia.

Il Tribunale, con ordinanza del 29 aprile resa pubblica qualche giorno dopo, ha accolto la richiesta italiana, con alcune condizioni, che non hanno reso possibile l’immediato rientro di Girone, tuttora a New Delhi, ospitato dalla nostra Ambasciata, e con l’obbligo di firma settimanale presso la polizia indiana.

Il Tribunale arbitrale dovrà decidere se la giurisdizione sull’affare dei due fucilieri di marina, imbarcati sul mercantile italiano Enrica Lexie e accusati di aver ucciso nel 2012 due pescatori indiani scambiati per pirati, spetti all’India o all’Italia. I tempi sono già stati calendarizzati e la sentenza non è prevista prima del 2018. I due Marò dovranno quindi vivere nell’incertezza, tranne che un negoziato diplomatico sblocchi la situazione e porti ad una estinzione anticipata della controversia.

Le condizioni del rientro 
Per consentire alla domanda italiana di rientro in Italia di Girone in attesa della decisione finale sulla giurisdizione, l’India ha preteso e ottenuto adeguate garanzie, prima fra tutte il ritorno di Girone in India qualora il Tribunale dovesse optare per la competenza indiana a giudicare i Marò. A tal fine, l’Italia ha formalizzato l’impegno in una dichiarazione ad hoc, accettata dal Tribunale come un atto giuridicamente vincolante.

Sul punto è da rimarcare l’atteggiamento non ostativo dell’India, che, durante il procedimento presso il Tribunale internazionale del diritto del mare sopra ricordato, aveva rimarcato come l’Italia non è uno stato che rispetta il diritto internazionale, non avendo dato esecuzione alla sentenza Germania c. Italia resa dalla Corte internazionale di giustizia nel 2012.

Ma vi è di più. India e Italia dovranno cooperare, anche di fronte alla Corte suprema indiana, cui spetterà decidere le precise condizioni per il rientro, tra cui: obbligo per l’Italia di assicurare che Girone faccia rapporto, ad intervalli regolari, ad un’autorità italiana designata dalla Corte suprema indiana; consegna del passaporto alle autorità italiane e proibizione per Girone di lasciare l’Italia senza il permesso della Corte suprema; obbligo per l’Italia di informare la Corte suprema ogni tre mesi sulla situazione di Girone in Italia.

Infine, Italia e India dovranno informare il Tribunale sulle misure intraprese per dare effetto alla decisione del Tribunale e se, entro tre mesi non viene consegnato nessun rapporto, il presidente del Tribunale potrà acquisire autonomamente tutte le informazioni necessarie (e successivamente quando lo riterrà opportuno). Di qui la speranza che entro tre mesi siano soddisfatte tutte le condizioni e Girone rientri in Italia, quantunque non sia stata fissata una data certa.

Permanenza di Latorre in Italia 
Girone potrà rientrare in Italia, ma resta sotto la giurisdizione della Corte suprema indiana fino a quando il Tribunale arbitrale non deciderà a quale dei due ordinamenti giuridici spetti di giudicare. Lo ha detto a chiare lettere il Tribunale e lo ha subito ribadito il ministro dell’informazione indiano. Comunque per il momento teniamoci il successo e operiamo affinché Girone possa rientrare sollecitamente in Italia, prima della data limite dei tre mesi.

Piuttosto sorge un altro problema, che riguarda l’altro Marò, Latorre, attualmente in Italia per motivi di salute. L’ordinanza del Tribunale riguarda solo Girone e, da parte italiana, nel richiedere le misure provvisorie era stato saggiamente ribadito che il procedimento riguardava il solo Girone, dando per scontato che la situazione di Latorre era stata congelata dall’ordinanza del Tribunale internazionale del diritto del mare e che quindi l’India non ne avrebbe potuto richiedere la riconsegna.

Interpretazione, tuttavia, non avallata da parte indiana, che è rimasta silente di fronte alle prese di posizione delle nostre autorità. Sta di fatto che la Corte suprema indiana ha concesso a Latorre una serie di proroghe per la permanenza in Italia, l’ultima delle quali risale a qualche giorno fa, avendo la Corte concesso un’ulteriore proroga fino al 30 settembre 2016. Cosa succederebbe se a fine settembre la Corte suprema con concedesse una nuova proroga. Si aprirebbe un altro contenzioso?

La fase delicata del post-ordinanza
Nel commentare l’ordinanza, qualcuno ha detto che l’Italia ha scoperto il diritto internazionale! Un giudizio un po’ affrettato, poiché l’Italia ha seguito il diritto internazionale nella vicenda, poiché ha sempre avanzato argomentazioni giuridiche per difendere il principio della sua giurisdizione esclusiva sui Marò. Anche il ricorso a misure unilaterali, come il maldestro tentativo di non far rientrare in India i Marò dopo la licenza elettorale, era comunque ammantato da considerazioni giuridiche.

Piuttosto è vero che il ricorso all’arbitrato ha impresso una nuova svolta, abbandonando la tattica errata di difendersi “nel” processo invece che “dal” processo dinanzi alle giurisdizioni indiane.

Ora si pone una fase delicata. Occorrerà che Italia ed India diano prova di grande duttilità e cooperazione per non rendere nuovamente incandescente la controversia. Meglio sarebbe se il negoziato diplomatico, che con alterne vicende non si è mai interrotto, portasse a una soluzione anticipata della controversia senza attendere i tempi lunghi del Tribunale.

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (Luiss Guido Carli) e consigliere scientifico dello IAI.
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mercoledì 27 aprile 2016

Una minaccia alla stabilità

Europa
Obama a Londra, Brexit spaventa anche Usa
Riccardo Alcaro
22/04/2016
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Nonostante il sostegno popolare di cui ancora gode in Europa, Barack Obama non si è mai contraddistinto come un entusiasta sostenitore della relazione transatlantica.

Il presidente Usa vede l’alleanza con gli europei in chiave pragmatica, se non strumentale: essa serve gli interessi americani nella misura in cui gli europei contribuiscono alla sicurezza del loro vicinato orientale e meridionale - un’area di interesse strategico per l’America - e alla gestione delle questioni di governance globale come il riscaldamento climatico.

Durante il suo mandato, Obama ha più volte sollecitato gli europei a offrire questo contributo, qualche volta con buoni risultati (Iran, Russia), altre con risultati decisamente più scoraggianti (Afganistan, Libia). Quando il contributo è mancato, Obama si è raramente speso per ottemperarvi con risorse proprie.

Alla luce di ciò, può sorprendere che il presidente Usa abbia accettato l’invito del premier britannico David Cameron a perorare apertamente la causa della permanenza del Regno Unito nell’Ue. Cameron spera che la visita di Obama dia una mano alla campagna per il Sì (a restare nell’Ue) nel referendum in programma il prossimo 23 giugno.

Al momento, i sondaggi danno i due campi più o meno alla pari. La possibilità di una Brexit - dell’uscita, cioè, del Regno Unito dall’Ue - è pertanto un’ipotesi plausibile, tanto plausibile, anzi, da spingere il più importante leader politico del mondo ad impegnarsi personalmente per scongiurarla.

La relazione speciale con il Regno Unito
Ma perché la Brexit interessa tanto un presidente che si è caratterizzato più che altro per la sua vocazione verso il Pacifico e per la sua tendenza a trasferire maggiori responsabilità agli europei?

In primo luogo, perché la relazione speciale con il Regno Unito perderebbe parte del suo appeal se Londra dovesse abbandonare l’Ue; in secondo luogo, perché la Brexit potrebbe risultare in un processo di generale destabilizzazione economica e politica dell’Europa, in un momento in cui invece gli americani hanno bisogno di partner affidabili, coesi e propositivi per far fronte al revanscismo russo da una parte e dall’altra per arginare l’instabilità dilagante in Nord Africa e Medio Oriente.

La special relationship tra Londra e Washington si fonda su tre capisaldi: la cooperazione militare e di intelligence; il sostegno britannico alle maggiori iniziative internazionali degli Usa; la capacità di convogliare i desiderata americani all’interno dell’Ue, garantendo così agli Stati Uniti una maggiore influenza a Bruxelles.

La Brexit ridurrebbe il valore della relazione anglo-americana sotto tutti e tre questi profili. Impegnato nel difficile negoziato di separazione dall’Ue, il Regno Unito potrebbe non essere in grado di assicurare lo stesso livello di cooperazione in campo militare offerto agli Usa nel post-Guerra fredda.

Già ora, nonostante il referendum sia ancora da tenersi, è la Francia piuttosto che un Regno Unito assorbito dai suoi problemi interni a fornire a Washington le migliori garanzie di appoggio militare, dal Sahel al Golfo Persico.

Fuori dall’Ue, un paese isolato
Uscito dall’Ue, il Regno Unito si troverebbe più isolato internazionalmente e vedrebbe il suo prestigio e status diminuire. Invece che guidare uno dei principali paesi di un’organizzazione integrata e di un mercato comune di 500 milioni di consumatori, il governo britannico non rappresenterebbe che se stesso. La sua capacità di contribuire alle iniziative internazionali degli Usa verrebbe pertanto ridotta.

Infine, una volta fuori dall’Ue i britannici perderebbero la capacità di veicolare il consenso interno all’Ue su questioni che stanno a cuore agli Usa, come la gestione della sicurezza in Medio Oriente o il rafforzamento dei legami con i paesi dell’Europa orientale minacciati dalle interferenze russe, il libero commercio o il gran numero di iniziative di cooperazione su cui l’Ue ha voce in capitolo (come il trasferimento di informazioni in chiave anti-terrorismo).

Più preoccupante di tutto è, però, per Obama la prospettiva che una Brexit inneschi una crisi di governance e legittimità irreversibile in Europa, favorendo l’ascesa di partiti anti-sistema che possa infine portare alla frammentazione dell’Ue e ad ulteriori sconvolgimenti nei mercati internazionali.

La magia del presidente
A ben vedere, quindi, al presidente Usa non mancano davvero buone ragioni per ignorare le accuse di ingerenza esterna rivoltegli dalla campagna per il No e ammonire i sudditi di Sua Maestà delle conseguenze - tutte negative - di una Brexit.

E come ad Obama non mancano nemmeno a tutti gli altri governi europei. Non resta che sperare che al presidente Usa sia rimasto ancora quel pizzico di magia che gli ha tanto ingraziato le folle europee nel 2008 e che il pubblico britannico sia ricettivo al suo messaggio. L’alternativa potrebbe andare a danno di tutti.

Riccardo Alcaro è responsabile di ricerca dello Iai e non-resident fellow presso la Brookings Institution di Washington.
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martedì 12 aprile 2016

Corso di Alta Formazione: Dal Peacekeeping al Peaebulding:gestire i conclitti per la pace. Bando ed Iscrizione. Scadenza 25 aprile 2016

SCUOLA DI AGGIORNAMENTO E ALTA FORMAZIONE
“Giuseppe Arcaroli ”

Chi è interessato può contattare: massimo coltrinari all'indirizzo di posta:coltrinari2011@libero.it


Anno Accademico 2015-2016

Enti promotori

La Scuola di aggiornamento e alta formazione “Giuseppe Arcaroli”, istituita dall’ANVCG - Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra Ente Morale (D.C.P.S. 19 gennaio 1947) e dall’ANRP  - Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento, dalla Guerra di Liberazione e loro familiari  (Ente Morale D.P.R. 30 maggio 1949), è rivolta in particolare alla trattazione dei temi relativi ai diritti umani e ai conflitti, al fine di esaminare le conseguenze di questi ultimi nei confronti degli stessi belligeranti, dei prigionieri o feriti e della popolazione civile, nonché allo scopo di sottolineare che  la  violazione dei diritti umani, sempre di più, accende la responsabilità penale dei singoli di fronte alla Comunità internazionale in quanto tale.
Il tratto distintivo della Scuola è la multidisciplinarietà, caratteristica che permette di approfondire la tematica dei diritti umani nelle sue varie sfaccettature e di promuovere, inoltre, l'insieme delle attività formative in linea con le attuali dinamiche, volte ad assicurare un pieno rispetto dei diritti e dei bisogni delle vittime dei conflitti armati, a ridurre mali superflui e sofferenze inutili, nonché a facilitare il processo di riconciliazione e pace.



Corso di alta formazione anno accademico 2015-2016

Dal Peacekeeping al Peacebuilding:
gestire i conflitti per costruire la pace




Documentazione scaricabile:


giovedì 24 marzo 2016

venerdì 18 marzo 2016

Mosca: il suo ritorno nella scena internazionale

Putin centometrista o maratoneta?
La forza della Russia alla prova dei tempi lunghi
Paolo Calzini
13/03/2016
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Il ritorno di Mosca sulla scena internazionale, caratterizzato da un risoluto utilizzo dei mezzi militari nella conduzione della politica estera, è un evento insieme di notevole rilievo ed inatteso, che ha provocato forte preoccupazione nelle cancellerie occidentali, confrontate a un’iniziativa che mira esplicitamente a riequilibrare il sistema dei rapporti tra stati nel contesto mondiale.

L’uso dei militari annuncia la mobilitazione nazionale
Attivo su diversi fronti, il governo di Putin ha saputo, per generale riconoscimento, far ritrovare al paese un ruolo globale, facendo leva su una strategia allo stesso tempo aggressiva ed efficace.

Pesantemente ridimensionata dalla sconfitta subita nella guerra fredda, la Russia è stata in grado di compiere un primo importante passo per superare quella riduzione a mera potenza regionale, nella quale era stata confinata.

Dopo l’intervento in Ucraina, che ha assunto un grande valore emblematico, grazie alla riannessione della Crimea, Mosca è passata, dando prova di rilevante capacità operativa, all’appoggio diretto al governo alleato di Assad in Siria, assicurandosi una posizione decisiva per la gestione di quel conflitto.

Si è trattato, in ambedue i casi, di operazioni portate avanti con particolare destrezza, approfittando delle esitazioni degli Stati Uniti e degli alleati europei, nella certezza che non vi sarebbero state, in nessun caso, da quella parte, azioni di contrasto sul piano militare.

Anche se parlare di una svolta a senso unico della strategia intrapresa da Mosca appare prematuro, siamo senza dubbio di fronte a un rilancio ispirato a nuovi parametri della politica estera russa.

Alla base dei recenti successi, figura una linea d’azione fondata su un dichiarato apprezzamento dello strumento militare nella conduzione dei rapporti internazionali. Il venir meno dell’atteggiamento di cautela, che nel recente passato aveva di norma caratterizzato l’azione politico-diplomatica di Mosca, non deve stupire più di tanto.

Il ricorso all’uso della forza, in una situazione giudicata di potenziale minaccia all’interesse nazionale russo, si conferma in piena continuità con una pratica comune alla storia del paese, sia in epoca zarista che sovietica. Questa pratica e stata fatta propria dal presidente Putin, rivelatosi artefice convinto di una piena rivalutazione delle funzioni delle forze armate, nel quadro di una campagna di promozione, a tutti i livelli, di una cultura patriottico-militarista.

Nel motivare una conduzione della politica estera ispirata alla realpolitik, interpretata in chiave difensiva-offensiva, Mosca fa riferimento a esigenze, ritenute imprescindibili, di sicurezza. La nozione di sicurezza adottata in questa occasione presuppone uno stretto collegamento ai diversi livelli dell’impegno militare, politico, economico e sociale, in vista di un generalizzato processo di mobilitazione delle risorse materiali e umane del paese.

Una mancata riuscita della linea di attivazione delle energie nazionali, rilevano osservatori sia russi che occidentali, potrebbe far si che un’operazione oggi vincente, possa rivelarsi in prospettiva un successo solo temporaneo.

Impegni troppo gravosi?
Molteplici e di varia natura, in effetti, risultano gli interrogativi riguardo alla capacità e all’opportunità di proseguire nel corso intrapreso, insistendo in una politica di forza proiettata su un così esteso campo d’azione.

La Russia di Putin, con il carico di problemi irrisolti che pesano sull’assetto interno del paese, si trova ad agire da una posizione di relativa debolezza rispetto alle altre grandi potenze, in un contesto dominato da un’aspra competizione fra gli stati.

Il documento di dottrina strategica internazionale, varato nel novembre del 2015, non fa mistero dell’apprensione di Mosca di fronte alla prospettiva di dover tener testa al rafforzamento del dispositivo della Nato sul fronte europeo, al centro del continente. È in quest’area cruciale dello spazio post-sovietico, infatti, a ridosso dei confini nazionali, che si giocherà, in rapporto agli sviluppi della crisi ucraina, una partita decisiva sotto il profilo della sicurezza per la Russia.

Procede nel frattempo, sul fronte della Siria, l’azione di Mosca diretta ad assicurarsi una base di influenza in Medio Oriente, in una situazione di grande confusione caratterizzata dal faticoso processo di cooperazione in corso fra Russia e Stati Uniti, solidali nella lotta al terrorismo islamico nonostante le persistenti divergenze strategiche.

Si tratta di un’iniziativa carica di incognite, considerata la difficoltà di arrivare a un congelamento dei conflitti endemici in una regione strutturalmente instabile, distinta dalla presenza di una molteplicità di attori tradizionalmente divisi da interessi contrastanti.

Scontata la soddisfazione del governo russo, e in primo luogo del presidente Putin, per i benefici ottenuti sul piano della legittimità politica, grazie all’abilità dimostrata facendo ricorso con successo allo strumento militare nella promozione dell’azione diplomatica, resta aperto il problema di come salvaguardare le posizioni di potere guadagnate in sede internazionale in questa fase.

I limiti di una politica per diversi aspetti azzardata, tesa a sfruttare in situazioni di emergenza le opportunità offerte da una congiuntura favorevole sotto il profilo dei rapporti di forza, sono evidenti. Occorre a questo proposito aver chiara la distinzione fra l’abilità sul piano tattico di reagire a eventi imprevisti nel breve periodo, e la capacità di affrontare in una prospettiva strategica, a lungo termine, le tendenze di fondo del periodo.

Nell’attuale congiuntura, caratterizzata da grandi cambiamenti, una cosa è certa: la Russia, in tempi forse anche non troppo lontani, vedrà messe a dura prova le sue ambizioni di grande potenza globale da una somma imprevedibile di sfide sia interne che internazionali.

Paolo Calzini è Associate Fellow della Johns Hopkins University Bologna Center.
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