domenica 24 marzo 2013
Seconda Guerra Mondiale
Il preludio della guerra: la conferenza
di Monaco del settembre 1938
di Giovanni Cecini
La Grande Guerra nella sua travolgente evoluzione e nel riassetto dell’Europa, attraverso la Conferenza
della pace di Parigi, ridisegnò completamente la carta geografica del
continente. Tra i nuovi stati che videro la luce in quell’occasione vi fu la
Cecoslovacchia. Essa venne creata con il
trattato di Saint-Germain-en-Laye (10 settembre 1919) accorpando alcune
regioni, storicamente separate, dei vecchi Imperi tedeschi, del Regno
d’Ungheria e delle piccole nobiltà polacche. Il territorio si suddivideva così
tra la Boemia e la Moravia, per cultura, etnia e lingua più vicine al mondo
tedesco, la Slovacchia e la Rutenia subcarpatica, legate invece per storia al
contesto slavo e magiaro, e Teschen di origine polacca.
La situazione
variegata e per nulla omogenea della popolazione, con posizione dominante degli
slovacchi e dei cechi, questi ultimi forti della designazione di Praga a
capitale, non favoriva una buona conciliazione tra le diverse realtà regionali
che componevano il giovane stato. Per di più il contesto generale della
Mitteleuropa, uscito traumatizzato dal conflitto mondiale, non era di per sé
fattore di stabilità. Una menomata Germania, le umiliate Austria e Ungheria da
una parte e le rafforzate nazionalità polacca e rumena dall’altra erano tutti
fattori di forte agitazione nel
contesto geopolitico della zona e quindi elementi scatenanti di revisionismi e
recriminazioni.
Se gli anni
Venti erano passati senza troppi turbamenti, a fronte della moderata politica
di Gustav Stresemann da parte tedesca e per merito della decisa politica della
Piccola Intesa,[1] l’ascesa al potere di
Adolf Hitler nel 1933, mostrò all’Europa come la zona tra le Alpi e i Carpazi
fosse un’area calda non meno dei cruenti Balcani. In questo senso la politica
aggressiva nazista, dopo aver occupato militarmente la Renania nel marzo del
1936 ed essersi annessa l’Austria (Anschluss)
nel marzo del 1938, puntava i suoi rapaci artigli sullo Stato cecoslovacco,
serio baluardo contro l’espansione tedesca verso lo spazio vitale a Est (Lebensraum im Osten). Rispetto ai
precedenti colpi di mano, Berlino però in questa circostanza doveva giocare la
partita con molta più prudenza. Infatti oltre a una forte difesa naturale
costituita dall’arco montagnoso al confine con la Germania e a una solida
capacità economica e industriale (Škoda), la Cecoslovacchia poteva contare su
un presidente incorruttibile come Edvard Beneš e sulle alleanze con Francia e
Unione Sovietica, a cui Praga si sarebbe sicuramente appellata in caso di
imminente minaccia tedesca.
Lo stato di
cose portò quindi Hitler a progettare un piano molto sottile da abile giocatore
d’azzardo quale era. Attraverso l’opera «squadrista» del partito nazista sudeto
(Sudeten Deutsche Partei), capeggiato
da Konrad Henlein, la Germania iniziò a reclamare la tutela della popolazione
germanofona abitante nella regione dei Sudeti, che secondo le accuse tedesche,
come minoranza, era oggetto di vessazioni da parte dello Stato cecoslovacco. In
realtà gli oltre 3 milioni di tedeschi di questa zona, se da un lato si
sentivano diversi dalla maggioranza boema e morava, dall’altra non avevano
mostrato tutto quell’entusiasmo di separarsi da Praga e essere inglobati sotto
la protezione totalitaria del Führer,
che invece il movimento di Henlein con ostinazione diffondeva.
In questo
clima, a tratti conciliante e a tratti aggressivo, davanti a una folla immensa
Hitler il 13 settembre 1938 si profuse in un discorso molto violento in cui
presentò richieste estreme di cessione territoriale, che Beneš non solo
rifiutò, ma rigettò come vero e proprio ultimatum
militare. A questo punto, dopo anni di tacita indifferenza, le diplomazie di
Londra e Parigi, garanti dell’integrità e dell’indipendenza della
Cecoslovacchia al tavolo della Pace, tentarono di intervenire per riportare a
buoni consigli le pretese espansionistiche tedesche. Le astute argomentazioni
del Führer, intervallando suppliche e
minacce, e le azioni violente dei nazisti sudeti, presentate come difesa contro
il razzismo antitedesco dei cecoslovacchi, portarono le grandi potenze europee
a intervenire affinché si preservasse l’incerta pace, convinti della buona fede
del cancelliere tedesco.
Neville
Chamberlain, primo ministro britannico, iniziò quindi un’intensa trattativa per
risolvere la questione senza l’uso delle armi. Il 15 settembre si recò nel
rifugio alpino di Hitler a Berchtesgaden per incontrarsi con il dittatore.
Questi si dimostrò risoluto nelle sue posizioni, disposto anche a intraprendere
una guerra totale pur di salvare i connazionali dei Sudeti, tuttavia accettò
una dilazione dei suoi propositi, per attendere le consultazioni del governo a
Londra. Tornato in patria e ottenuto l’appoggio del suo esecutivo, il premier inglese
si mise in contatto con il governo francese di Édouard Daladier e
arrivò alla conclusione che per il mantenimento della pace era necessario
sacrificare l’integrità della Cecoslovacchia. Per questo Londra e Parigi fecero
intendere a Beneš che ogni ulteriore resistenza nazionale, avrebbe comportato
da parte anglo-francese l’abbandono del suo popolo al proprio destino. In tale
clima a Praga le reazioni a questa ipotesi furono decisamente negative creando
inquietudine e instabilità, anche perché a questo punto anche la Polonia aveva
la possibilità di inoltrare rivendicazioni su Teschen.
Nonostante la
crisi non mostrasse via d’uscita, Chamberlain incontrò di nuovo Hitler il 23
settembre a Bad Godesberg, accordando la disponibilità di Gran Bretagna e Francia
a favorire il Reich nei Sudeti. La
risposta tuttavia, secondo il gioco al rialzo del Führer, era arrivata troppo tardi. Le agitazioni al confine,
secondo Hitler, imponevano alla Germania di agire e farlo subito. L’inglese non
sapendo come controbattere a questo nuovo ultimatum,
chiese quindi il motivo dell’incontro e se fosse stato possibile un ulteriore
rinvio dell’attacco. Il dittatore sembrò inamovibile, pronto a entrare nei
Sudeti il 1° ottobre.
I contatti
diplomatici tra i governi a questo punto si fecero febbrili, frammisti da
dichiarazioni di disponibilità a mobilizzare le truppe in caso di guerra e
tentativi di trovare un’ultima possibile conciliazione. Ecco quindi che
Chamberlain cercò di giocare l’ultima carta e il 28 settembre chiese a Hitler e
a Mussolini di superare la crisi in una conferenza internazionale per risolvere
pacificamente la situazione.
La Gran
Bretagna e la Francia, sentendosi impreparate di fronte a uno sforzo bellico
lontano e impegnativo, scelsero la negoziazione a tutti i costi, puntando sulla
reciproca simpatia che il Duce, considerato allora uomo saggio e moderato dalle
democrazie occidentali, accordava al dittatore austriaco. In extremis per il giorno successivo venne convocata una conferenza
a Monaco su proposta del «mediatore» Mussolini
(in realtà su iniziativa del maresciallo Hermann Göring), spinto
dall’impreparazione dell’Italia a una guerra su vasta scala e dal timore di un
eccessivo rafforzamento della Germania. Facendo un grosso favore a Hitler,
l’italiano era riuscito a convincere gli interlocutori diplomatici a un
incontro con francesi, inglesi e tedeschi, senza però il coinvolgimento del
governo di Beneš, che rimaneva escluso dalle decisioni finali. Questa scaltra
mossa non poteva che indispettire la Cecoslovacchia, oggetto stesso del
contendere, dovendo i rappresentanti valutare la legittimità delle
rivendicazioni tedesche su una porzione del proprio territorio e quindi
stravolgere l’integrità fisica e sociale del suo Stato sovrano.
Il congresso
aprì la sessione dei lavori il 29 settembre, alla quale parteciparono le
quattro delegazioni, anche se il peso dei padroni di casa si rivelò sin
dall’inizio preponderante. Considerata l’impreparazione e la mancanza di
coordinamento tra inglesi e francesi, Chamberlain e Daladier arrivarono a
Monaco come semplici comparse, lasciando la scena alla teatralità di Hitler e
di Mussolini. Il Führer ricevette di
persona il dittatore italiano al confine di Kufstein, concordando con lui la
linea politica da seguire e spettacolarizzò al massimo l’evento con
ostentazioni e riviste militari.
Dopo
un’intensa giornata dove Hitler si dimostrò sempre più intransigente sui suoi
propositi, i rappresentanti dei quattro paesi convenuti firmarono l’accordo
(ricalcando quasi alla lettera i contenuti espressi nell’ultimatum di Bad Godesberg) con dei protocolli esecutivi
aggiuntivi, nei quali si sanciva il passaggio della regione dei Sudeti al Reich a partire dal 10 ottobre, senza
che il governo di Praga potesse esprimere obiezioni. Tale cessione comportava
per la Cecoslovacchia la perdita di una superficie di oltre 25.000 kmq,
costituita da una regione ricca di risorse minerarie e di vitale importanza
militare, in quanto unico baluardo naturale nei confronti di un’eventuale
successiva aggressione tedesca sull’intero paese.
In maniera
ingenua Chamberlain e Daladier si reputarono soddisfatti e non mossero riserve,
anche perché il Führer ribadì in
quella circostanza di chiedere solo cittadini tedeschi, non cecoslovacchi.
Assicurò che questa sarebbe stata la sua ultima pretesa territoriale, avendo
sanato in pieno le ingiustizie della Conferenza della pace del 1919, che aveva
reso i suoi compatrioti stranieri tra loro e soggetti a paesi diversi.
Mussolini insieme al ministro degli Esteri, nonché suo genero, Galeazzo Ciano
tornò in Italia pieno d’orgoglio per il ruolo di arbitro internazionale
ricoperto, ma vide di cattivo auspicio il largo entusiasmo degli italiani verso
la pacifica soluzione raggiunta. Cosciente dell’impreparazione del suo paese
per una possibile nuova guerra, concretizzò ancora di più il forte allineamento
tra Italia e Germania, che porterà alla firma del «Patto d’acciaio», sancendo
un’alleanza difensiva-offensiva e consacrando le due nazioni come sorelle,
solidali e compagne sia in pace che in guerra.
Anche
Chamberlain, al rientro in patria, fu accolto trionfalmente come garante della
pace, a fronte anche della firma di un patto di reciproca amicizia tra Germania
e Regno Unito, siglato sempre a Monaco il 30 settembre. Appena sceso dall’aereo
in un commovente discorso, esibendo alla folla di curiosi e di giornalisti la
firma di «Herr Hitler» accanto alla sua sui trattati, il premier non mancò di
lodare oltre misura quello che in realtà era un simulacro giuridico come un
atto di concordia e di pace. Tra le poche voci critiche oltre la Manica, si
alzò quella di Winston Churchill, allora senza incarichi governativi, il quale
sostenne, in un discorso polemico tenuto davanti alla Camera dei Comuni il 5
ottobre, che non si stava profilando la fine, ma l’inizio di un incubo: «Regno
Unito e Francia potevano scegliere tra la guerra e il disonore. Hanno scelto il
disonore. Avranno la guerra».
Come era
facilmente intuibile per il futuro premier britannico, Hitler fino ad allora
aveva solo ripetuto il suo ritornello preferito e sei mesi dopo l’accordo
siglato a Monaco, il Führer gettò la
maschera e occupò la Boemia e la Moravia. L’avanzata fu fulminea e il 15 marzo
le truppe tedesche entrarono a Praga. L’annessione ora comprendeva territori
mai appartenuti a stati tedeschi, annullando qualsiasi scusante di tipo
nazionale o etnico. Il presidente ceco Beneš venne obbligato a dimettersi e a
esiliare; al suo posto i tedeschi crearono un protettorato tedesco in Boemia e
Moravia e il governo fantoccio filonazista (primo di una lunga serie) del
monsignor Jozef Tiso nell’«indipendente» Slovacchia. L’annullamento della
Cecoslovacchia se da una parte cancellava una costruzione artificiale della
Pace di Parigi, dall’altra dava un pesante colpo non solo alla stabilità
d’Europa e alla «santità dei trattati» (per usare le parole del ministro
britannico Antony Eden, fortemente critico verso l’Appeasement), ma ai concetti stessi di libertà e democrazia.
L’occupazione infatti garantiva ai tedeschi un numero ragguardevole di uomini
validi da utilizzare come schiavi, ampie risorse economiche e un trampolino di
lancio verso Est, avendo annullato un altro impedimento strategico alla propria
avanzata, che doveva con la conquista dello spazio vitale, portare alla
costruzione della «Grande Germania».
Di fronte alla
barbaria nazista i governi britannico e francese non si rivelarono all’altezza
delle responsabilità di cui erano portatrici e furono incapaci di reagire,
ancora nella speranza di preservare «la causa della pace» nella logica ingenua
del dialogo e della sincerità dei propositi hitleriani. Per di più questa
estrema arrendevolezza delle democrazie occidentali lasciò il diritto
internazionale in balia degli eventi. Se tra la fine del 1938 e l’inizio del
1939 Ungheria e Polonia si annettevano alcune porzioni di territorio
cecoslovacco ai loro confini, anche l’Italia nella primavera del 1939 volle
saldare i conti con le sue rivendicazioni, attaccando e occupando l’Albania. Stessa logica seguì Stalin, che nella politica
antibolscevica del governo conservatore di Londra non era stato né considerato,
né interpellato a proposito delle trattative sulle sorti dei Sudeti. Per
questo motivo l’Unione Sovietica si
sentì autorizzata anch’essa a trattare con Hitler, per preservare e rafforzare
il suo fianco europeo, questa volta a spese degli Stati baltici e della
Polonia. Era la prova generale della guerra, ormai con una Germania consolidata
nelle sue posizioni strategiche e con in campo potenti forze armate, in
procinto di terrorizzando il mondo.
[1]
L’alleanza, nata contro il revisionismo ungherese nel 1920 tra Cecoslovacchia e
Jugoslavia, a cui si aggiunse poi anche la Romania, negli anni Trenta trovò la
sua principale ragione nell’ostacolare l’espansionismo tedesco, anche grazie
all’appoggio politico esterno della Francia.
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