domenica 14 luglio 2013
Cefalonia VI La Figura del martire
Il giorno 10, alle 8, il
ten. col. Barge, accompagnato dal tenente Fauth, si presentò al gen. Gandin
Il colloquio si svolse a
porte chiuse, nell’ufficio del generale. Presente solo il capo di stato
maggiore della divisione, ten. col. Battista Fioretti.
Più volte però dal gen.
Gandin fu chiamato il capitano Saettone, capo ufficio operazioni. “Quando
questi ritornava – dice il capitano Bronzini – mi teneva informato della
situazione. Io e lui eravamo chiusi a chiave
in una stanza perché il generale aveva ordinato che noi due soltanto,
all’infuori di ogni contatto, anche con gli ufficiali del comando, dovessimo essere
messi al corrente e prender nota degli avvenimenti in corso”.
La richiesta del colonnello
tedesco – qualificatosi inviato del proprio Comando Superiore – era la
seguente: l’intero presidio di Cefalonia doveva cedere ai tedeschi tutte le sue
armi, comprese le individuali, e la consegna doveva avvenire entro le ore 10
dell’indomani, 11 settembre, nella piazza principale di Argostoli.
Il gen. Gandin ribattè che
non aveva fino allora ricevuto alcun ordine in tal senso dai propri superiori.
L’ordine era forse contenuto in un radiogramma dell’armata giunto la sera
precedente indecifrabile e che perciò era stato respinto e se ne attendeva
tuttora la ripetizione. Aggiunse che la consegna delle armi nel termine fissato
era, oltretutto, materialmente ineseguibile per la nota scarsità nel presidio
di mezzi di trasporto. Dichiarò che, eventualmente, qualora cioè gli ordini
superiori glielo avessero imposto, egli era del parere di consegnare solo le
artiglierie e l’armamento pesante, lasciando ad ogni uomo, ufficiali e truppa,
l’armamento individuale. Manifestò infine la sua decisa volontà di scartare la
piazza di Argostoli da luogo convenuto per la cessione delle armi, potendosi
l’operazione eseguire in posto più adatto, da scegliersi di comune accordo,
fuori dallo sguardo “ironico” dei greci.
Il ten. col. Barge,
“cordialissimo e disposto ad ogni concessione”, prese congedo promettendo di
riferire al suo comando i desideri del generale e di tornare al più presto con
la risposta.
“E’ evidente – nota il
capitano Bronzini – l’intenzione del generale di ottenere dal comando tedesco
una dilazione”.
Partito il ten. col. Barge,
il gen. Gandin convocò
A rapporto il comandante
della fanteria divisionale, gen. Gherzi, i comandanti dei due reggimenti di
fanteria col. Ricci e ten. col. Cessari, il comandante del reggimento di
artiglieria, col. Romagnoli, il comandante del genio divisionale, maggiore
Filippini, il comandante Marina Argostoli, capitano di fregata Mastrangelo.
Era anche presente il capo
di S.M. ten. col. Fioretti.
La situazione fu dai
convenuti ampiamente discussa.
Le opinioni, alla
conclusione del rapporto, furono tuttavia discordi: favorevoli alla cessione
delle armi il gen. Gherzi, i due comandanti dei reggimenti di fanteria ed il
comandante del genio divisionale; sfavorevole il comandante di marina; il
comandante del reggimento di artiglieria incerto, ma più propenso alla non
cessione.
Al termine della
discussione, i convenuti furono autorizzati dal gen. Gandin a comunicare ai
propri reparti il contenuto del radiogramma ricevuto nella notte dal comando
dell’11ª armata.
“E così – dice il capitano
Bronzini – nella mattina del 10 settembre i soldati vennero a conoscere gli
ordini che incombevano sulla divisione “Acqui” e l’incertezza della sorte che
li attendeva”.
“Le stazioni radio
nazionali – prosegue il predetto capitano – tacciono. Ad un tratto però, una
stazione che si spaccia per Roma suona “Giovinezza” ed una voce grida che in
Italia risorge il fascismo e con essi tempi migliori e più onorati. Ma che cosa
c’è di vero in tutto ciò? Le radio tedesche continuavano a riversare insulti
contro gli italiani; segno evidente che i tedeschi non ci sono più camerati”.
Dice padre Formato: “La
situazione, il giorno 10, è oltremodo confusa. Corrono voci che i tedeschi si
siano violentemente impadroniti del comando dell’11ª armata e dell’VIII corpo
d’armata. La truppa comincia ad elettrizzarsi nell’apprendere altre notizie
incontrollate, secondo le quali conflitti armati sarebbero in corso sul
continente greco contro le truppe tedeschi colpevoli di soprusi e violenze
contro gli italiani. Accresce la confusione la sfrenata propaganda greca, orale
e scritta. Migliaia di fogliettini volanti vengono diffusi, specialmente fra la
truppa. La propaganda viene fatta alla piena luce del giorno. I comandi
ordinano la requisizione dei volantini, ma nessun provvedimento, salvo qualche
reazione sporadica, viene preso contro i propagandisti”.
Dice il capitano Apollonio:
“nei singoli reparti si andavano discutendo animatamente le opposte tendenze di
cacciare i tedeschi o di deporre le armi. Quella però di continuare la lotta a
fianco delle truppe tedesche veniva perorata solo da elementi isolati, e senza
successo. Anche da parte della popolazione greca, che in quei giorni andava
sempre più fraternizzando con le truppe italiane, veniva propagandata
l’assoluta necessità che le truppe tedesche venissero cacciate dall’isola. Da
parte dei greci dell’ELAS venivano distribuiti ai soldati dei manifestini
stampati presso una tipografia clandestina di Cefalonia.
“Intorno agli
accantonamenti stazionavano gran numero di patrioti i quali chiedevano con
insistenza armi e munizioni ad ufficiali e soldati. Ufficiali greci della
riserva si erano poi rivolti direttamente ai vari comandi coll’intento di
ottenere armi.
“Io stesso, nei colloqui
con ufficiali, in brevissimi discorsi alla truppa, ribadivo il principio
dell’onore militare. A soldati di altre armi che si erano rivolti a me dissi:
fate vostro il motto dei miei artiglieri: “con i pezzi o sui pezzi”.
“Le batterie del 33°
artiglieria offrivano uno spettacolo commovente: tutti gli artiglieri, dal
primo all’ultimo, non solo erano decisi a combattere quando fosse stato
comandato, ma riusciva difficile impedire loro d’iniziare il fuoco da soli”.
La tesi di non deporre le
armi e di cacciare i tedeschi dall’isola trionfava dunque dappertutto.
Ufficiali, più specialmente
tenenti e capitani, prendevano contatti fra di loro e si consultavano sul da
farsi.
Dice il capitano Pampaloni, comandante la 1ª batteria del
33° artiglieria: “verso le ore 9, quattro ufficiali di fanteria si presentavano
al mio caposaldo per informarmi che il comando della divisione stava per
impartire l’ordine di consegnare le armi ai tedeschi e per sentire cosa ne
pensavo. A me la cosa sembrò impossibile, tuttavia li rassicurai che gli
artiglieri, piuttosto che cedere le armi, sarebbero morti accanto ai loro
pezzi. Chiamai poi a rapporto ufficiali e sottufficiali della mia batteria ed
ordinai di puntare i pezzi sul comando tedesco di Argostoli, sulla polveriera
tedesca, sulla rimessa dei semoventi tedeschi, sulla curva della strada
proveniente da Kardakata. Poco dopo giunse il col. Romagnoli che mi fece un
elogio per tale iniziativa e parlò ai miei soldati richiamandoli alle
tradizioni dell’Arma ed invitandoli alla calma”.
Informa il capitano
Apollonio: “Il sottotenente Boni aveva un colloquio con il sottotenente di
vascello Di Rocco e con il capitano di corvetta Barone i quali dichiaravano che
non avrebbero mai consegnato le armi e lasciavano intravedere che se qualcuno
avesse incominciato a combattere la Marina si sarebbe senz’altro affiancata
nella lotta. Io stesso mi misi in comunicazione telefonica col capitano
Pampaloni e precisammo la nostra perfetta identità di vedute”.
Colloqui ed accordi
analoghi intercorsero per tutta la mattinata fra ufficiali dello stesso
reparto, fra ufficiali di reggimenti diversi, fra ufficiali delle diverse armi.
Tuttavia, in questo coro
ardente ed unanime, c’è più di una battuta di arresto.
“Il capitano Grazioli –
dice l’Apollonio – pur aderendo al movimento antitedesco, si dimostrò sempre un
po’ incerto. Forse “più degli altri” prevedeva le disastrose conseguenze che si
sarebbero abbattute sui responsabili in caso di sconfitta. In serata mi recai
al comando di artiglieria per sondare gli animi. Tutti gli ufficiali del
comando manifestarono apertamente di rifuggire da iniziative che avrebbero
potuto portare a gravi conseguenze”.
Il maggiore Altavilla,
comandante del secondo battaglione del 17° fanteria, non si volle impegnare
dichiarando che avrebbe eseguito gli ordini del suo comandante di reggimento.
Il ten. col. Fiandini,
comandante un gruppo contraerei, dichiarò che rifiutava ogni collaborazione e
che avrebbe unicamente eseguito gli ordini del comandante della divisione.
E così di seguito.
Ma, nel pomeriggio, alle
parole cominciò a seguire qualche fatto concreto, dovuto ad iniziative
personali.
“Presi contatto – dice il
capitano Pampaloni – col comandante dei patrioti greci di Cefalonia e con altri
elementi del Fronte Nazionale di Liberazione: assicuratomi della loro
collaborazione completa, mi accordai per la consegna d’armi e munizioni. Feci
quindi ritirare dalla nostra polveriera armi e munizioni che furono messe a
disposizione dei greci”.
“Il capitano Grazioli –
dice il capitano Apollonio – mi mise a disposizione il deposito munizioni del
reggimento; sicchè nulla poteva essere asportato da tale deposito senza il mio
consenso. Il capitano Longoni metteva a disposizione tutti i suoi uomini, che
furono organizzati in squadre anticarro”.
A tarda notte, il ten. col.
Barge ritornò dal gen. Gandin per riferire dell’esito della missione assuntasi
nella mattinata.
Il comando tedesco era
disposto a rimandare a giorno da convenirsi tra il ten. col. Barge ed il gen.
Gandin la cessione delle armi. Accettava la cessione delle sole artiglierie e
delle armi pesanti. Dichiarava però che non poteva per il momento provvedere al rimpatrio della
“Acqui”, ma che lo avrebbe fatto appena consentito dalle disponibilità di
naviglio.
Il gen. Gandin chiese
allora che il comando tedesco gli offrisse definitive garanzie su tale accordo.
Lo assicurasse, cioè, che
tutti gli ufficiali della divisione, compreso lui, sarebbero stati lasciati ai
loro posti e prestabilisse chiaramente il trattamento alimentare ed economico
riservato a tutti i militari della divisione.
In quanto alla cessione
delle armi, egli di massima consentiva: ma a patto che le artiglierie sarebbero
state cedute all’atto della partenza da Cefalonia e le armi pesanti all’atto in
cui i reparti avessero posto piede in Italia.
“La mia impressione –
commenta il capitano Bronzini – era che il generale Gandin, fiducioso del
proprio prestigio presso i tedeschi – egli conosceva personalmente i capi
tedeschi, presso i quali aveva svolto delicati incarichi, e dai quali era
stimato – sperasse on abili trattative di riuscire ad ottenere per la “Acqui”
una soluzione onorevole sotto tutti i punti di vista e conveniente per tutti”.
“Del resto – continua il
Bronzini – questa sua linea di condotta era semplicemente doverosa. Egli capiva
che cosa significasse cedere le armi. Era il nostro onore di soldati che se ne
andava; era il nostro giuramento al Re ed alla Patria che veniva calpestato. E
questo dalla parte morale: dal lato pratico, poi, il cedere le armi, comunque
si svolgano le cose, non può mai avere effetti buoni. Ed allora? Cacciare i
tedeschi dall’isola approfittando del fatto che siamo undicimila contro
duemila? Ciò non sarebbe stato leale contro gli alleati di ieri. E poi, a noi
della “Acqui”, essi non avevano fatto finora alcuna violenza. In fondo, anche
l’ordine di Badoglio dice di non aggredire per primi. Aggredendoli e
cacciandoli dall’isola che cosa otterremmo? In un tempo più o meno breve, i
tedeschi della Balcania riunirebbero le loro forze contro di noi abbandonati in
quest’isola e finirebbero col sopraffarci. Con quale diritto un generale può
mandare al macello undicimila suoi soldati quando la sfortunata guerra per
l’Italia è finita e la Patria, bisognevole di pace, ha deposto le armi?”
E così conclude: ”Il generale dalla sera dell’8 non ha più
abbandonato la sua stanza di lavoro. Nella sua persona per noi che lo
attorniamo, si delinea già la figura del martire”.
I TRE PUNTI
All’alba dell’11, un
incidente: ad un “tre alberi” italiano, che si stava spostando nella rada di
Argostoli, la batteria dei semoventi tedesca, sospettando che il veliero
tentasse la fuga, sparò contro alcuni colpi di monito.
Poche ore dopo, un fatto
grave: la diffusione di foglietti volanti che invitavano i soldati a “ribellarsi
al Generale”. I manifestini terminavano con la scritta “Unione Ufficiali
Italiani Antifascisti”. Chi ne era l’autore? “Da indagini eseguite più tardi –
dice il capitano Apollonio – risultarono stampati nella tipografia greca
dell’EAM di Cefalonia. Erano scritti in un italiano del tutto sgrammaticato”.
I sospetti cadono pertanto
sulla propaganda greca, la quale, naturalmente,più che ad una soluzione
onorevole, era interessata a porre in conflitto armato italiani e tedeschi.
Certo è che la distribuzione
dei manifestini segnò l’inizio del dualismo, che si acuirà sempre più nei
giorni seguenti, fra le truppe e il generale comandante e cominciarono, da quel
momento, a circolare senza ritegno le parole “traditore” e “tradimento”.
Nel pomeriggio, altro incidente
più significativo.
Un gruppo di tedeschi con
un semovente da 75 si trasferì al porto e qui giunto puntò il pezzo contro un dragamine con l’evidente
intenzione di neutralizzare, all’occorrenza, l’azione di due mitragliere da 20
istallate a bordo del natante.
“Il nostro sottotenente
comandante la sezione – riferisce il capitano Apollonio – levati gli otturatori
alle mitragliere venne subito presso di me, ed io, col tacito consenso del col
.Romagnoli, apprestai due autocarri di volontari armati e mi recai al porto
per recuperare i due pezzi. Le due
mitragliere vennero trasportate nel caposaldo del capitano Pampaloni. Nel
mentre gli autocarri attraversavano la città di Argostoli, la popolazione
greca, che aveva seguito l’avvenimento, fece un’entusiastica manifestazione che
commosse e nello stesso tempo eccitò gli animi dei soldati”.
Nello stesso pomeriggio, un sottotenente del 17° fanteria si
recava in autocarretta ad Ankonas con l’incarico dal proprio comando di farsi
restituire dai tedeschi due moschetti che questi avevano tolto il giorno
prima a due nostri soldati. I tedeschi
catturavano l’autocarretta e disarmavano l’ufficiale e la truppa.
La sera, giungevano da
Santa Maura, dopo molte peripezie. Alcuni nostri soldati “portando la triste
notizia che il presidio di quell’isola aveva ceduto le armi ai tedeschi ed era
stato avviato verso i campi di concentramento nelle zone malariche di
Missolungi”.
Aumentavano intanto le
iniziative personali, specie fra gli ufficiali del reggimento di artiglieria.
Nel caposaldo del capitano
Pampaloni “a due ufficiali greci che offrivano la collaborazione di un
battaglione greco furono fornite armi e munizioni e furono impartite direttive
sulla condotta da seguire nei giorni successivi”.
Alla batteria del capitano
Apollonio affluivano in gran numero soldati che volevano combattere. “Marinai,
guardie di finanza, carabinieri, fanti venivano suddivisi in squadre e ad
ognuno era assegnato un compito. Si svolsero scene di commovente patriottismo”.
“Passai la notte intera –
dice il capitano Apollonio – in giro fra i vari reparti. Tutti erano pronti.
Patrioti greci e soldati accorrevano a me offrendosi per sopprimere il
generale. Mi opposi per varie ragioni. Ma sin da quel momento decisi che
bisognava agire senz’altro di iniziativa. Mi tratteneva soltanto il fatto che i
due comandanti dei battaglioni di fanteria, il secondo del 17° ed il terzo del
317°, non erano ancora propensi all’azione”.
Nei battaglioni di fanteria
infatti – sebbene “il fermento fra i soldati crescesse in maniera
impressionante” – nessun ufficiale, a tutto il giorno 11, aveva ancora preso
iniziative contrastanti con gli ordini dei propri comandi.
Frattanto,
nelle prime ore del mattino, quasi contemporaneamente all’incidente del veliero
nella rada, giungeva al comando della divisione – trasmessa dal ten. col. Barge
– la risposta del comando superiore tedesco alle proposte formulate dal gen.
Gandin la sera prima.
Le
richieste del generale erano, in linea generale, tutte accolte; salvo ulteriori
trattative sui particolari esecutivi.
Il
comando superiore tedesco, poiché doveva subito assumere, in sostituzione degli
italiani, la difesa di Cefalonia, prospettava la necessità che tutta la “Acqui”
lasciasse la costa e si trasferisse all’interno dell’isola: per zona di raccolta
si suggeriva la conca di Valsamata. Il comando della divisione, col quartier
generale, si sarebbe potuto trasferire a Samos.
La
comunicazione, però, così finiva: il comando tedesco desidera chiaramente
conoscere l’atteggiamento che la divisione “Acqui” intende di assumere in
questa situazione. Il generale deve quindi esplicitamente optare per uno di
questi tre punti: a favore dei tedeschi – contro i tedeschi – cessione delle
armi. Termine per la risposta: ore 19 dello stesso giorno.
“Questa
lettera, - commenta il capitano Bronzini – per quanto non redatta in termini
ostili, costringe il generale a dare quella definitiva risposta che era
riuscito finora ad evitare.”
“Un’ora
grave pesa su tutti noi”.
Subito dopo tale comunicazione, il
gen. Gandin chiamò a rapporto tutti i comandanti di corpo e di servizi della
divisione.”
Il
generale – testimonia il capitano Bronzini – pose la questione nei seguenti
termini: il primo punto è in contrasto con il giuramento al Re e costituisce
una violazione dell’armistizio. Il terzo è disonorevole. Del secondo, volendolo
adottare, quali saranno le conseguenze?”
La
riunione durò a lungo, quasi tutta la mattina: ma purtroppo nessuna traccia è
rimasta di quanto fu discusso.
“Non
si arrivò ad una chiara conclusione – dice il predetto capitano – ma, come nel
rapporto precedente, insistettero per la cessione delle armi la grande
maggioranza dei convenuti, manifestandosi contro solo il comandante di Marina ,
Mastrangelo, ed il colonnello di artiglieria, Romagnoli”.
Dopo
il rapporto dei comandanti, il gen. Gandin decise di sentire il parere dei
cappellani della divisione.
“La
conoscenza che essi hanno della truppa – commenta lo stesso capitano Bronzini –
per il quotidiano e più libero contatto con essa, nonché la serenità del loro giudizio,
sono elementi che il generale, in sì grave situazione, non poteva trascurare”.
I
cappellano giunsero al comando alle ore 18 circa.
Quanto
si svolse durante questa riunione è invece largamente descritto da padre
Romualdo Formato, il quale dice: “andiamo al rapporto pensando che il generale
voglia esortarci ad identificare la nostra opera sacerdotale per tenere alto
fiducioso e sereno l’animo della truppa in una contingenza così estremamente
critica e ripetiamo fra noi: se il generale riuscisse a mantenere senza
incidenti lo stato di reciproca cordialità con le truppe tedesche bisognerebbe
fargli un monumento d’oro.”
“Tanto
siamo lontani dall’immaginare quale ingrata sorpresa ci attende, quale grave
parere siamo chiamati a proferire”.
Il
generale è pallido, ritto dietro al suo tavolo.
“Incomincia
così:
“Dopo i comandanti
di corpo, ho voluto chiamare anche voi”.
“Voi siete
sacerdoti, ministri di Dio”.
“Voi conoscete
l’animo del soldato e potete essermi preziosi in questo momento”.
“Questo momento è
quanto mai tragico per me e per la mia divisione”.
“Ho sulla coscienza
la responsabilità della vita di oltre diecimila figli di mamma”.
“La vita di tutti
questi ragazzi può essere messa a repentaglio dalla decisione che sto per
prendere”.
“Un ultimatum del
comando tedesco di Atene mi invita a decidermi su uno dei seguenti punti:
continuare la lotta accanto ai tedeschi; combattere contro i tedeschi; cedere
le armi”.
“Premetto che siamo legati
davanti a Dio e davanti alla Patria da un giuramento di fedeltà alla Maestà del
Re. Non sarò io a ricordare ai sacerdoti che il giuramento è un atto sacro col quale chiamiamo Iddio stesso a diretta testimonianza
di quanto affermiamo e promettiamo. Il nuovo legittimo Governo del re ha
firmato un armistizio. Non possiamo dunque più impegnare le armi contro il
nemico di ieri.
«Dall’altra parte,
perché, senza grande motivo e provocazione, rivolgere le armi contro un popolo
che ci è stato alleato per tre anni combattendo la nostra stessa g e
condividendo i nostri stessi sacrifici?
«Resta la soluzione
di cedere pacificamente le armi.
«Mi hanno assicurato
che si tratterebbe soltanto delle armi pesanti, le quali ci sono state date
quasi tutte dai tedeschi stessi.
«Ma questo atto della
cessione non viola forse lo spirito dell’armistizio e, per conseguenza, non
verremmo egualmente meno al giuramento di fedeltà al Re?
«E ancora: dove se ne
andrebbe, cos’ facendo, l’onore delle armi, che è la cosa più cara al soldato e
ad un esercito sfortunato ma pur glorioso qual è l’italiano?
«Eppure, su uno di
questi tre punti devo decidermi.
«Riflettete che, se
dovesse verificarsi un conflitto armato contro i tedeschi, numerosi e forti
come siamo in quest’isola, avremo, in una prima fase, il sopravvento. Ma non
dimentichiamo che dietro di noi, sul vicino continente greco, ci sono oltre 300
mila tedeschi, certamente decisi qui con uomini e materiali. Essi possono
lanciare sull’isola le loro squadriglie di «Stukas» e massacrarci
indisturbatamente. La truppa, allora, combatterebbe di buon animo? Resisterebbe,
indifesa, sotto i bombardamenti aerei?
«Tenete presenti
queste osservazioni e siccome ho poco tempo a disposizione –sono le 18 ed il
comando tedesco vuole la risposta per le 19- ciascuno di voi, senza perdersi in
inutili discussioni, mi dichiari il suo parere significando quali dei tre punti
sente di potermi in coscienza suggerire come minore male».
«Eravamo in sette:
tutti, eccetto uno, ci pronunciammo per il terzo punto.
«Il generale ci congeda e conclude:«Pregate Iddio perché
mi assista in una ora così importante per la divisione e così tragica per la mia coscienza».
«Ci ritiriamo.
«Evitiamo di parlare con gli ufficiali che affollano i
corridoi e desiderano notizie.
«Appena sulla strada, ci guardiamo in viso stupefatti,
trasognati. Decidiamo di recarci nel vicino Istituto delle Suore Italiane.
Sostiamo a pregare dinanzi al Crocefisso. Poi ci riuniamo nel salone,
esaminiamo ogni lato della situazione, ne discutiamo a lungo: dobbiamo
convincerci che, tutto considerato, è un imperioso dovere quel consiglio che
abbiamo già suggerito.
«Immediatamente scriviamo e facciamo recapitare al
generale la seguente lettera:
«Signor Generale,
appena usciti dal vostro ufficio, ci siamo recati in Chiesa ad invocare l’aiuto
di Dio e ci siamo nuovamente riuniti nel salone dell’Istituto delle Suore
Italiane. Abbiamo, con maggiore calma, esaminato e ponderato quanto voi ci
avete esposto ed il parere che ciascuno di noi ha creduto, in coscienza, di
darvi in un momento così grave. Abbiamo dovuto, questa volta all’unanimità, nuovamente
constatare che il nostro consiglio non poteva essere che quello che vi abbiamo
schiettamente espresso. Per evitare un lotta cruenta e forse impari e fatale
contro l’alleato di ieri, per tenere fede al giuramento di fedeltà alla Maestà
del Re (giuramento che, come voi stesso ci avete ricordato, è un atto sacro,
col quale si chiama Dio stesso a testimonianza della parola data) e, infine, e
soprattutto, per evitare un inutile spargimento di sangue fraterno, signor
Generale, altra via non c’è. Non resta che cedere pacificamente le armi.
«Dinanzi al tenore
dell’ultimatum germanico, voi, signor generale, isolato da tutti,
impossibilitato di mettervi in comunicazione coi superiori comandi di Grecia e
d’Italia e di ricevere ordini precisi, voi vi trovate nella ineluttabile
necessità di dover cedere ad una dura imposizione per evitare l’inutile supremo
sacrificio dei vostri ufficiali e dei vostri soldati.
«Siamo profondamente
compresi della gravissima responsabilità che in questo tragico momento pesa sul
vostro animo.
«Ora, più che mai, i
vostri cappellani si sentono strettamente uniti a voi. Contate sul nostro
devoto affetto, sulla nostra opera, e soprattutto sulla nostra preghiera.
«Da Dio invochiamo
infatti luce al vostro intelletto e conforto al vostro cuore. Egli vi protegga
e vi benedica, signor generale! E benedica, con voi, la vostra famiglia lontana
e la vostra amatissima divisione.
«I vostri cappellani:
P. Romualdo Formato – Don Biagio Pellizzari – Don Angelo Ragnoli – Don Mario di
Trapani – P. Duilio Capozzi – P. Luigi Gherardini – P. Angelo Cavagnini».
Alle ore 19 il ten. Col. Barge si presentò al comando per
la risposta.
Il generale chiese una dilatazione fino al mattino del
giorno seguente.
Il colonnello tedesco ritornò a Liguri, si pose in comunicazione
col proprio comando, ritornò subito dopo dichiarando che la dilazione era stata
accordata.
Ma nella sera e durante la notte continuarono i colloqui
del generale col comandante tedesco.
Il generale ribadì le sue intenzioni: la cessione delle
armi sarebbe avvenuta nella misura e con le modalità precedentemente accordate.
I reparti sarebbero rimasti schierati sulle attuali posizioni fino al giorno
della partenza per l’Italia. A Cefalonia sarebbero state lasciate le sole
artiglierie; l’armamento della fanteria sarebbe stato invece consegnato ai
germanici a rimpatrio avvenuto.
Testimonia il capitano Bronzini: «il generale Gandin
richiamò l’attenzione del ten. col. Barge su altre importanti questioni. Dall’8
settembre, ad esempio, il presidio tedesco di Liguri riceveva giornalmente
rinforzi portati da aerei da trasporto (in media, due o tre al giorno) o con
zattere via amre. Ciò poteva essere interpretato come atto di ostilità verso di
noi, che invece stiamo dimostrando cameratesche intenzioni verso i tedeschi.
Era dunque necessario che, in attesa di un accordo definitivo, sia da una parte
che dall’altra ci si astenesse dal fare movimenti di truppe. I tedeschi inoltre
avevano, negli ultimi due giorni, trasferito ad Argostoli, dove già c’era la
loro batteria semoventi, circa una compagnia di fanteria: movimento
ingiustificato. Da chi ordinato? Infine, il gen. Gandin, per dare una sicura
prova delle sue buone intenzioni, dichiarò che era disposto a ritirare da
Kardakata il battaglione di fanteria che presidiava questa località.
«Kardakata era una posizione chiave, il cui possesso
significava il dominio della penisola di Liguri. Ed il generale Gandin non
voleva che l’occupazione italiana di questa località fosse interpretata come
minaccia od atto ostile verso i tedeschi.
«Né era opportuno – ai fini della soluzione pacifica
della questione- tenere a Kardakata, a stretto contatto col presidio tedesco di
Ankonas, truppe italiane che si andavano di ora in ora sempre più
elettrizzando.
«Col ten. col. Barge, che si diceva autorizzato dal suo
comando a trattare la cosa, il gen. Gandin stabilì, pertanto, quanto segue: -
il comando della divisione avrebbe subito ritirato da Kardakata il battaglione
di fanteria; - il comando tedesco si impegnava di non inviare più rinforzi ed a
non far più movimenti di truppe in Cefalonia fino a quando fossero durate le
trattative e si fosse giunti ad un accordo definitivo. Qualora tali impegni non
fossero stati dal comando tedesco rispettati, il comando della «Acqui» avrebbe
dovuto senz’altro agire secondo le direttive governative dell’8 settembre».
Mentre si svolgevano queste trattative, core voce (molto
probabilmente portata dai militari di Santa Maura) che il Governo italiano
fosse a Bari e il Comando Supremo a Bari od a Brindisi.
Il gen. Gandin volle allora fare ancora un tentativo di
collegamento attraverso il radio ponte di Corfù. Fu quindi redatto, e trasmesso
cifrato dalla stazione della Marina, un radiogramma diretto al Comando Supremo.
In esso, veniva esposta la situazione dell’isola e data notizia del radiogramma
del comando dell’IIª armata che aveva ordinato la cessione delle armi ai
tedeschi. Si chiedeva infine se detto ordine, forse apocrifo, e comunque in
contrasto con le direttive del Governo, dovesse o meno essere eseguito.
Il tentativo, come vedremo, ebbe fortuna.
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