(oontinuazione della ricostruzione dei fatti di Cefalonia secondo una ricostruzione del 1945)
«Il mattino del 12 settembre, domenica,- dice P. Formato-
ebbi modo di visitare, per la celebrazione della Messa, le batterie del mio
reggimento. Non le riconobbi più. Gli artiglieri, sempre bravi, sereni,
disciplinati mi apparvero in preda alla più preoccupante agitazione. Chi sa in
che modo fra essi, e ormai fra tutte le truppe, si era sparsa la voce che il
generale volesse «vigliaccamente» disarmare la divisione di fronte ad uno
sparuto numero di tedeschi, Il generale era ormai tacciato di «tedoscofilo», di
«vigliacco», di «traditore» e peggio. Con gli occhi di fuori, lividi di
indignazione, ufficiali e artiglieri mi urlavano di riferire che essi non
avrebbero mai obbedito a chi avesse ordinato il disonore, che essi non
avrebbero consegnato le armi a nessuno. L’eccitazione era impressionante ed
andava sviluppandosi con la rapidità di un incendio».
Quanto accadeva fra gli artiglieri del 33° reggimento,
accadeva pure, in misura forse minore ma sempre rilevante, in tutti i reparti
dell’isola; ed in special modo fra quelli stanziati in Argostoli e vicinanze.
L’ordine o comunque un preavviso ufficiale sulla cessione
delle armi non era stato peò ancora diramato.
Si trattava quindi, come dice P. Formato, di voci,
Ed anche il capitano Bronzini annota: «il diffondersi
della voce che il generale stesse per
concludere la cessione delle armi agitava la truppa».
Ma il fermento fra le truppe, anche senza ordini veri e
propri, pur proveniva da qualche cosa di fondato.
Come sappiamo, nel rapporto del mattino precedente presso
il comandante della divisione, non si era addivenuti ad «una chiara
conclusione» : la maggior parte dei comandanti si era però pronunciata a favore
della cessione delle armi.
E’ dunque più che verosimile che questi comandanti,
ritornati presso i loro reparti, abbiano ritenuto di non dover nascondere ai
propri collaboratori più vicini, e forse alle truppe stesse, lo stato delle
trattative in corso e le stesse loro opinioni. Ne è da escludere che essi
abbiano anche dato il via a qualche provvedimento preventivo per il caso,
ritenuto ormai probabile ed imminente, che alla cessione delle armi si dovesse
addivenire.
Comunque, la situazione del presidio di Cefalonia, il
mattino del 12, aveva assunto aspetti che si prestano ormai ad una definizione.
Il comandante della divisione, col consenso della maggior
parte dei comandanti in sottordine, persisteva nell’idea che la miglior
soluzione consistesse nella cessione «onorevole» delle armi.
Egli aveva ancora fiducia in una conclusione, in tal
senso, delle trattative.
Anzi, pur di giungere a tanto, sembra che non abbia dato
rilievo ad incidenti relativamente minimi ma tuttavia sintomatici: il disarmo,
da parte tedesca, di due nostri soldati e del drappello inviato ad Ankonas per
recuperare i due moschetti; le cannonate contro il «tre alberi» nella rada di
Argostoli (c’è però chi asserisce che il veliero tentasse veramente la fuga);
la presa di posizione del semovente tedesco contro il dragamine armato di
mitragliere.
E nemmeno, sembra, dette peso a quanto avevano riferito i
militari di Santa Maura : che cioè il presidio di quell’isola, una volta
arresosi, era stato, contrariamente ai patti, internato a Missolungi.
Aveva infine ceduto ai tedeschi ( e dato l’ordine, che fu
eseguito nel pomeriggio del 12) l’importante posizione di Kardakata.
Nei reparti, il fenomeno era grande più specialmente fra
le t, far i sottufficiali, fra gli ufficiali giovani, subalterni e capitani.
Il 33° artiglieria, come s’è già detto, era in testa a
tutti: ma qui però anche il comandante, col. Romagnoli, anche se non
esplicitamente, aveva aderito al movimento.
Negli altri reparti, invece, anche di artiglieria, gli
ufficiali superiori avevano assunto un atteggiamento temporeggiatore
manifestando apertamente l’intenzione di non voler contrastare alle decisioni
che stava per prendere il comandante della divisione.
Alla testa del movimento, il 33° artiglieria.
In questo reggimento si distinguevano particolarmente il
capitano Apollonio, il capitano Pampaloni, il capitano Longoni ed il tenente
Ambrosini.
L’Apollonio, triestino di nascita – suo padre fervente irredentista,
aveva subito trentanove processi politici da parte dell’Austria – è così
giudicato dal sottotenente Boni: «di vivace intelligenza capace di dominare le
più impensate situazioni, egli trovò campo fecondo per poter mettere in
evidenza le sue qualità negli avvenimenti del settembre 1943».
E dal cappellano don Luigi Ghilardini: «le sue qualità
sono molte, operanti sotto una viva intelligenza. I suoi soldati si
specchiavano nel viso ed a lui guardavano e gioivano; lo chiamavano «la prova
dell’onestà». E da P. Formato: «militare in tutta l’estensione della parola ha
sempre nutrito rigidissimo senso del dovere e dell’onor militare. Qualche
volta, per questo motivo, potè essere giudicato dai suoi artiglieri come troppo
severo. Tuttavia fu sempre circondato dalla loro illimitata stima e dal più
affettuoso attaccamento». E dal sottotenente Elio Esposito: «La sua figura
spiccava fra tutti per la volontà inflessibile, per una serietà e dignità che
veramente si imponevano».
La mattina del giorno 12, dunque, i capitani Apollonio,
Pampaloni, Longoni, i tenenti Ambrosini, Boni e Cei erano far coloro che
maggiormente propugnavano la lotta contro
tedeschi.
Dice il sottotenente Boni:«il capitano Apollonio assumeva
la direzione di tutto il movimento anche per il fatto che, trovandosi la sua
batteria all’ingresso della città, gli riuscivano facili i collegamenti con i
comandi, con i reparti di fanteria e di artiglieria dislocati in Argostoli, con
la Marina e con i patrioti greci. Disponeva inoltre di una buona rete di informazioni che gli permetteva
di controllare il benché minimo movimento di truppe tedesche».
Un altro aspetto della situazione, anch’esso chiaro, era
determinato dall’ormai aperta fraternizzazione, a fine antitedesco, della
popolazione greca dell’isola con i nostri soldati.
«La popolazione greca – dice P. Formato- era in gran
fermento. Molti ex-ufficiali greci si presentavano ai vari comandi chiedendo
armi e pregando di essere tenuti a disposizione nella lotta contro i tedeschi.
Dal comando artiglieria furono allontanato con durezza; altrove – e soprattutto
nei reparti minori – uomini e donne ottennero armi e munizioni in abbondanza».
Dichiara il capitano Apollonio: «verso le 10 ebbi degli
interessanti colloqui con gli ufficiali greci Migliaressi e Kavadias. Poco dopo
facevo intervenire al colloquio con le stesse persone il col. Romagnoli, il
quale accettava in linea di massima l’offerta di collaborazione dei patrioti
stessi. Il loro compito doveva consistere nel cooperare alle informazioni,
nell’eseguire colpi di mano contro nuclei tedeschi isolati, tener sotto
controllo con una compagnia il caposaldo tedesco isolato di Capo Munta, mentre
altre due compagnie, dislocate lungo la strada Argostoli-Kardakata, dovevano
intercettare, con guerriglia partigiana, autocolonne tedesche che eventualmente
tentassero di raggiungere Argostoli. Subito dopo l’accordo, consegnai al ten.
col. Kavadias ed al ten. Migliaressi gran numero di armi e munizioni per armare
i patrioti greci che numerosi affluivano nelle file dell’ELAS. Presso di me
veniva lasciato il sottotenente Gheorgopulo quale ufficiale di collegamento tra
il mio ed il comanda partigiano greco di Cefalonia».
I patrioti greci, tentarono di porsi in relazione con lo
stesso comandante della divisione.
«Si presentò al comando – informa il capitano Bronzini –
un ex capitano dell’esercito greco. Egli dichiarò al generale che per la lotta
contro i tedeschi erano già pronti nell’isola cinquecento uomini. Dal
continente ne sarebbero potuti venie, entro due o tre giorni, circa duemila.
Chiedeva di poter mettere le proprie forze al servizio della divisione e faceva
presente la necessità di esser fornito di armi e munizioni. Il generale rispose
che prendeva in considerazione la cosa e che si riservava pertanto di fargli
conoscere la sua decisione appena possibile».
Qual’era lo stato d’animo dei tedeschi, ufficiali e
truppa, in sì tempestose circostanze?
Non si può dare una risposta documentata. Ma è da
ritenere per certo che essi, pochi di fronte a molti, tenessero gi occhi ben aperti
su quanto stava succedendo nell’isola dalla sera dell’8 settembre. Non sarà
pertanto loro sfuggito che l’intento conciliatore del comando della «Acqui» era
infirmato dal comune e travolgente odio contro di loro delle truppe italiane.
Come non sarà sfuggita l’intesa, ormai aperta ed operante, delle truppe
italiane con la popolazione ed i partigiani greci. E’ quindi quasi certo che
essi, intimoriti dal rumore della valanga che stava per precipitarsi su di
loro, siano corsi ai ripari ed abbiano fra l ’altro riferito dello stato delle
cose – senza neppure aver bisogno di esagerarlo – al comando superiore tedesco.
Questi glia spetti della situazione di Cefalonia nei
riguardi del comando della «Acqui», delle truppe italiane, del rapporto fra
italiani e greci, dello stato d’animo del presidio tedesco.
Non rimane che un quinto ed ultimo aspetto: il contegno
del gen. Gandin di fronte alle intemperanze indisciplinari delle proprie
truppe.
Il generale era al corrente di quanto avveniva nei
diversi presidi dell’isola; sapeva inoltre di avere consenzienti al suo operato
gli ufficiali superiori e grandissima parte di quelli inferiori, i quali tutti,
pur contrari ad una cessione qualunque delle armi ai tedeschi, avevano
apertamente dichiarato che avrebbero eseguito i suoi ordini.
«In più di un comando – ha dichiarato verbalmente P.
Formato – gli elementi più accesi, ufficiali e soldati, venivano respinti con
queste parole: non c’è bisogno di uscire dai termini disciplinari; qui ci sono
soldati che conoscono i loro doveri ed uomini che non intendono abbandonare la
via dell’onore».
Perché, dunque, così stando le cose, non risulta che il
gen. Gandin abbia preso alcun provvedimento di rigore, sia pur formale, di
fronte agli evidenti straripamenti disciplinari delle sue truppe?
L’assoluta assenza di segnalazioni a tal riguardo pone in
luce un altro aspetto dell’animo generale.
Egli era nell’intimo solidale – pur nella contentezza
delle gravi responsabilità umane e militari che pesavano su di lui – col
sentimento dei suoi soldati.
Non poteva perciò avere alcun interesse di smorzare il
furore delle sue truppe; sia per ricavarne maggiore consistenza alle trattative
in corso per servirsene, in caso di fallimento delle trattative, quale miglior
lievito per la lotta.
Nelle prime ore del pomeriggio del 12, per iniziativa
d3el capitano Apollonio, venivano posti in libertà i prigionieri politici greci
che si trovavano nelle carceri di Argostoli sotto custodia italiana.
Verso le 17, si
diffuse la voce – risultata poi vera –che i tedeschi, nel settore di Lixuri,
avevano sopraffatto le stazioni di carabinieri e di guardie di finanza
dislocate nella cittadina di Lixuri e le due nostre batterie in posizione a San
Giorgio e a Kavriata.
«Gli incidenti non si contavano ormai più; - dice P.
Formato – ovunque si sentivano spari, detonazioni, di bombe amano, farsi provocanti e minacciose. Nessun ufficiale poteva più
permettersi di pronunciare parole esortanti alla serenità ed alla disciplina
senza essere all’istante tacciato di ».
aditore e di vigliacco. Il generale lavorava febbrilmente
per giungere ad un accordo onorevole: l’andirivieni dei parlamentari al comando
della divisione faceva però intravedere la difficoltà delle trattative».
« Il gen. Gandin – testimonia il capitano Bronzini – era
indignato. Subito dopo, essendosi a lui presentato il ten. col. Barge, il
generale gli chiese duramente spiegazione dei fatti di Lixuri. Il colonnello
tedesco, con la consueta cortesia, si scusò dicendo che lui non aveva dato
ordini, ma che erano stati i suoi soldati che avevano agito di iniziativa.
Prometteva però che sarebbero stati senz’altro posti in libertà gli uomini. Per
quanto riguardava le artiglierie, invece, si riservava di restituirle appena possibile».
Il ten col. Barge, però, appena terminata la discussione
su questo argomento, fece la seguente dichiarazione: il comando superiore
tedesco gli aveva tolto i poteri di trattare con il comando della «Acqui» e
pertanto erano da considerarsi nulle le trattative fino ad allora svolte. Il
comando superiore tedesco non intendeva più discutere: voleva soltanto sapere
dal gen. Gandin se la «Acqui» era contro i tedeschi oppure si decideva a cedere
le armi.
«Fu un colpo di scena – testimonia il capitano Bronzini –
che rovesciò interamente la situazione».
Mentre al comando si
svolgevano questi fatti un nuova voce corse come un baleno fra le truppe: il
gen. Gandin aveva deciso ed «ordinato» la cessione delle armi ai tedeschi.
Dice il capitano Apollonio: «Appena diffusasi la notizia,
mi recai presso il col. Romagnoli il quale me la confermò aggiungendo che egli
era stato il solo ad opporsi e che si sarebbe fatto rilasciare dal generale una
dichiarazione scritta che attestasse la sua opposizione. Io allora gli chiesi
di essere messo a rapporto col generale Gandin. Mi recai infatti presso il capo
di stato maggiore della divisione ed espressi il mio desiderio. Fui invitato a
ripresentarmi col colonnello Romagnoli. Nell’attraversare in macchina la città,
io e il mio colonnello, fummo fatti segno ad una entusiastica manifestazione di
simpatia da parte della popolazione greca. Ormai si era diffusa la voce che
l’artiglieria non intendeva consegnare la armi ma voleva combattere. In attesa
di essere ricevuti dal generale, telefonai al capitano Pampaloni ed al tenente
Ambrosini perché mi raggiungessero immediatamente al comando assieme a tutti
gli altri ufficiali di fanteria che volessero appoggiarmi nel tentativo che
stavo per compiere. Dopo pochi minuti parecchi ufficiali giungevano al comando
della divisione. Nei corridoi del comando alcuni ufficiali subalterni e gli
scrittuali si stringevano attorno a noi scongiurandoci di tentare l’impossibile
pur di non cedere le armi».
«Io ed il capitano Apollonio – testimonia il capitano
Pampaloni – entrammo in una stanza dove si trovavano il generale Gherzi,
comandante la fanteria divisionale, il col. Romagnoli ed i colonnelli dei
reggimenti di fanteria Cesari e Ricci. Apollonio ed io esprimemmo la nostra
indignazione contro un «ordine» che
ci imponeva la cessione delle armi. Tale ordine, aggiunsi io, non poteva essere
dato perché sarebbe stato giudicato un «tradimento». A questa parola, il
generale Gherzi mi richiamò duramente all’ordine e mi proibì di continuare su
quel tono. Il col. Romagnoli, seduto in un angolo, sopra un tavolo, con al testa
fra le mani, faceva segni di assenso a quanto io ed Apollonio dicevamo».
«Fummo introdotti alla presenza del generale – continua
il capitano Apollonio – io, il col. Romagnoli, il capitano Pampaloni ed un
ufficiale del 317° fanteria di cui non ricordo il nome».
Il colloquio, pur contenuto nei limiti della rigidità
militare, fu drammatico.
Il generale fece presente che, esclusi senz’altro il
primo ed il terzo dei punti imposti dai tedeschi, l’adozione del secondo non
avrebbe avuto per gli italiani un risultato positivo perchè i tedeschi
sarebbero stati subito soccorsi dalle forze nel continente greco e la loro
aviazione avrebbe imperversato senza contrasto su tutta l’isola. Aveva perciò,
sino ad allora, tentato l’impossibile per venire ad un accordo «onorevole».
Gli ufficiali presenti – e più specialmente i capitani
Apollonio e Pampaloni – ribatterono le argomentazioni del generale riaffermando
che, secondo loro, non vi erano che due vie: a andare con i tedeschi o andare
contro. La cessione delle armi era fuori del loro sentimento dell’onore
militare e poiché questo sentimento era condiviso da «tutte» le truppe del
presidio, essi desideravano che il generale venisse incontro alla loro unanime
volontà di combattere contro i tedeschi.
«Durante il colloquio, - dice il capitano Apollonio – il
generale Gandin stava ritto dietro al tavolo con le mani ad esso poggiate. Il
suo volto bianco ed imperlato di freddo sudore rivelava una indicibile interna
sofferenza. Il suo atteggiamento e le sue parole rivelavano un uomo
sovraccarico del peso delle sue responsabilità.
«Il generale Gandin, sebbene comandasse da poco tempo la
divisione, era molto conosciuto. Non passava giorno senza che visitasse i
reparti, senza che scendesse paternamente fra i suoi soldati portando loro doni
di ogni genere. Amava troppo i suoi dipendenti e questo amore, soprattutto,
l’indusse a temporeggiare».
A conclusione della discussione, il generale si riservava
libertà d’azione e pregava gli astanti di non prendere, frattanto, alcuna
iniziativa.
«Nel rientrare alle nostre batterie – dice il capitano
Apollonio – fummo accolti da altre grida di giubilo da parte dei nostri
artiglieri, i quali, ritenendo che fossimo stati arrestati, avevano già puntato
i pezzi carichi sul comando della divisione ed avevano già preparato un plotone
fortemente armato per andare ad arrestare il generale».
Era dunque vera o falsa la voce secondo cui il generale
aveva già dato l’ordine per la cessione delle armi? E, se non proprio l’ordine,
un preavviso o qualche cosa di simile?
Non è possibile una risposta esauriente a tali
interrogativi.
Resta il fatto che un tale ordine – per quanto abbiamo
visto e vedremo in seguito – non trova giustapposizione logica nel minuto
sviluppo dei fatti qui descritto. Ed è anche certo che dei testimoni finora
interrogati nessuno asserisce di aver visto l’ordine con i propri occhi.
Il generale, intanto, sulla base del nuovo dato di fatto
rappresentato dall’aggressione tedesca nel settore di Lixuri, convocò per le
ore 20 un consiglio di guerra nella sede del comando artiglieria divisionale.
Nel recarsi, qualche minuto prima, alla riunione, una
bomba a mano fu lanciata contro la sua automobile; ma esplose senza
conseguenze. Gruppi di soldati circondarono la macchina gridandogli
«traditore»; uno più audace strappò dal cofano il guidoncino di comando urlando
che il generale era indegno di portarlo.
Al consiglio di guerra intervennero: il capo di stato
maggiore della divisione ten. col. Fioretti, il col. Romagnoli, comandante
l’artiglieria divisionale, il ten. col. Cessari, comandante del 17° fanteria,
il col. Ricci, comandante del 317° fanteria, il maggiore Filippini, comandante
del genio divisionale, il capitano di fregata Mastrangelo, comandante «Marina
Argostoli», il capitano CC. RR. Gasco, comandante la 2ª compagnia carabinieri.
Non abbiamo notizia di quanto nella riunione fu discusso.
Alla fine di essa però – secondo la testimonianza del
capitano Bronzini – furono prese le seguenti decisioni: - il gen. Gandin,
offeso per il modo di procedere da parte del comando superiore tedesco, si
rifiutava d’ora in avanti di trattare un ufficiali tedeschi che non fossero
suoi pari gardo e che non si rivolgessero a lui con garantite funzioni
plenipotenziarie; - gli ufficiali tedeschi che fossero venuti d’ora in avanti a
trattare dovevano essere accompagnati da un ufficiale del comando dell’11ª
armata conosciuto dal gen. Gandin; - si intimava ai tedeschi di non effettuare
invii di rinforzi dal continente né movimenti nell’interno di Cefalonia prima
delle conclusioni delle trattative; - si garantiva infine, da parte italiana,
di non compiere atti ostili qualora i tedeschi avessero rispettato gli impegni
di cui sopra.
La lettera con queste decisioni venne direttamente
indirizzata al comando superiore tedesco e consegnata al ten. col. Barge perché
la trasmettesse con la sua stazione radio.
«A mezzanotte – informa il capitano Bronzini – ecco
finalmente che il presidio di Corfù si fa vivo. Il colonnello Lusignani,
comandante del 18° fanteria e comandante militare dell’isola, ci informa di
avere reagito alle richieste tedesche di cedere le armi. A Corfù il battaglione
tedesco è stato battuto e fatto prigioniero. Durante la lotta sono stati
abbattuti anche tre aerei. L’isola è ora sotto la completa sovranità delle
forze italiane.
«La notizia è accolta con un’esplosione di giubilo al
comando della divisione. Il generale però, dato il forte stato di eccitazione
delle truppe, ordina di procrastinare la comunicazione della gesta di Corfù ai
reparti di Cefalonia».
Dice il capitano Apollonio:«tutta la notte fra il 12 ed
il 13 di settembre la impiegai a coordianre quanto già era stato fatto con la
propaganda dei giorni precedenti.
«Intanto giungevano nella mia tenda altri ufficiali per
segnalarmi nuove adesioni.
«Fino a mezzanotte lavorai quasi esclusivamente con
patrioti greci ed insieme al capitano Lazaratos ed al sottotenente Gheorgopulo
andai a passare segretamente in rivista un’intera compagnia di patrioti greci
perfettamente armata ed alla quale portai gran quantità di viveri e di
munizioni.
«Mi misi poi in contatto con vari comandanti di fanteria.
«Questi ufficiali, con altri di artiglieria, furono
convocati nella mia tenda.
«La riunione si protrasse fino alle 5 del mattino e si
concluse con le seguenti decisioni: salvo gravi imprevisti, si sarebbe
mantenuta la calma per dare al generale tutte le possibilità di continuare le
trattative; ordini della divisione di deporre le armi o di eseguire movimenti
verso zone di concentramento indicate dai tedeschi non sarebbero stati eseguiti
senza preventivo accordo; impegno da parte di tutti che se l’artiglieria avesse
aperto il fuoco i reparti di fanteria di Argostoli avrebbero fatto prigioniere
le truppe tedesche di stanza nella città. Dopo di che il secondo battaglione
del 17° fanteria ed il terzo del 317°, autocarrati e scortati dalla terza e
quinta batteria, del 33°, anch’esse autocarrate, si sarebbero avviati alla
volta di Lixuri per costringere alla resa i due battaglioni tedeschi colà
dislocati. Realizzato, infine, tale piano, le truppe avrebbero dovuto
rioccupare le posizioni costiere precedentemente tenute contro il tentativo
tedesco di impossessarsi dell’isola».
Analoga opera svolgeva il capitano Pampaloni, il quale
però segnala un significativo episodio. «Verso le ore 2 di notte – egli scrive
– venne nel mio caposaldo il tenente del 317° fanteria, a riferirmi che aveva
ricevuto l’ordine della divisione di spostare il suo battaglione dall’attuale
posizione, il cimitero di Argostoli. Poiché tale spostamento veniva a scoprire
le spalle della mia batteria, mi recai, col ten. col. Siervo, dal col.
Romagnoli. Fui introdotto nella camera del colonnello, che misi al corrente
dell’ordine pregandolo con le lagrime agli occhi di farlo revocare. Il
colonnello, mentre si alzava e si vestiva, mi disse che mentre era sicuro degli
artiglieri non lo era dei fanti. Fu pertanto introdotto il ten. col. Siervo, a
cui il col. Romagnoli chiese: - se la rompiamo con i tedeschi ed i tuoi fanti
saranno sottoposti, indifesi, ad un intenso bombardamento aereo, sei sicuro che
non sbanderanno? – No assolutamente; non sono sicuro, rispose il ten. col.
Siervo.
«Dopo di che, il col. Romagnoli, rivoltosi a me, disse:
come vuoi, benedetto figlio, che io mi assuma questa terribile
responsabilità?».