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Questi indicano come la cronaca della guerra al terrore scali la classifica delle dieci notizie più trattate nel corso del 2015, mentre l’analisi e l’approfondimento fornito dalla politica estera restano invece in secondo piano. Se i Tg di Germania e Regno Unito confermano lo storytelling del 2014, nel 2015 si notano invece sensibili differenze nei notiziari televisivi in Spagna, Francia e Italia. Ard e la società tedesca L’analisi del telegiornale tedesco conferma la linea narrativa che trova guerra al terrorismo e argomenti esteri ai vertici della graduatoria. Se nel 2014 i due temi occupavano il primo e il terzo posto, nel 2015 è cresciutal’attenzione per i temi a valenza sociale connessi a dinamiche globali, come l’accoglienza e l’inclusione dei migranti. Tanto che la politica estera è scesa al secondo posto passando dal 25% delle notizie trattate nel 2014 al 18% del 2015 (-7%), mentre la guerra al terrore si è confermata al terzo, passando dal 10% al 13% (+3%). Il salto di qualità nel Tg del primo canale tedesco è rappresentato invece dalle questioni sociali e dai riflessi nella società tedesca che salgono dal 7% al 22%, con un aumento di ben 15 punti percentuali. Bbc One e la guerra al terrore Anche Bbc One conferma la narrazione seguita nel 2014. Il divario tra guerra e politica estera va però ampliandosi. La guerra al terrore è salita dal secondo al primo posto delle notizie trattate nel 2015, scavalcando l’economia. Mentre la politica estera è scesa dall’ottavo al decimo posto (dal 6% al 5%). Anche se è probabile che questo sia stato un riflesso degli attentati parigini, bisogna ricordare la consolidata narrazione del terrorismo sul suolo britannico: dai “Troubles” irlandesi, alla bomba di Lockerbie, all’attentato combinato bus/metro del 2005. La polarità fra guerra e politica racconta quindi un paese in prima linea contro il terrore. Rtve1 e la voglia di capire Differentemente dai telegiornali di Germania e Regno Unito, il notiziario della prima rete spagnola sembra esprimere un’altra chiave narrativa. Nel 2015, il racconto della guerra al terrorismo è salito dal settimo del 2014 (5%) al terzo del 2015 (10%). La politica estera scende invece di una posizione fermandosi al quarto, passando dal 12% al 9%. Con ogni probabilità, la vicinanza tra guerra e politica estera nel 2015 suggerisce il tentativo di contestualizzare gli eventi internazionali, sottraendoli al racconto della sola cronaca definendo anche interessi e strategie degli attori coinvolti. France2 e lo schema britannico Gli attacchi terroristici che hanno marcato a sangue tutto il 2015 francese, hanno trasformato il racconto del Tg francese, accostandolo a Bbc One. La polarità fra guerra al terrorismo e politica estera si evince dalla salita della prima dal quinto posto delle notizie trattate nel 2014, al primo del 2015. Come nel caso britannico la politica estera è scesa invece di diverse posizioni passando dal sesto al nono posto. Tanto che, se la politica estera è stata meno presente nel palinsesto (dall’8% del 2014 al 5% del 2015) , l’attenzione per la guerra al terrore è salita invece dall’8% del 2014 addirittura al 22% dell’anno successivo. Rai e ansia preventiva Anche il telegiornale della principale rete pubblica italiana ha evidenziato un sensibile cambiamento tra il 2014 e il 2015. La distrazione con cui i notiziari televisivi nazionali guardano a ciò che accade all’esterno dell’Italia è in parte mitigata dal principale notiziario televisivo nei confronti della guerra al terrore. Argomento che sale nel 2014 era al decimo posto del 2014 (4%) e nell’anno successivo arriva ad occupare addirittura il secondo (13%). L’attenzione nei confronti della politica estera che scende dal settimo posto del 2014 (5%) all’ottavo del 2015 (6%), sembra allora confermare la polarità narrativa riscontrata per France2 e Bbc One. Tuttavia, rispetto allo schema franco-britannico emerge una variante. Le notizie dedicate alla criminalità si confermano al terzo posto nei due anni considerati. Nonostante i dati di Istat e Ministero dell’Interno indichino da tempo un calo dei reati, l’accostamento della guerra al terrore alla criminalità contribuisce a una narrazione ansiogena, anche se in Italia da molti anni non si verificano attentati paragonabili a quelli di Londra e Parigi. Il che delinea uno schema informativo basato sull’“ansia preventiva”, piuttosto che sull’insicurezza motivata dai fatti. Fabio Turato insegna Relazioni internazionali presso la Scuola di Scienze politiche del DESP – Dipartimento Economia, Società e Politica dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. | ||||||||
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martedì 28 giugno 2016
La nostra informazione
giovedì 23 giugno 2016
Il pericolo mussulmano nei Balcani
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L'episodio non è stato praticamente registrato dai media europei, ancora sotto choc per i fatti di Parigi. Rappresenta tuttavia l'ennesimo attentato riconducibile al terrorismo islamista avvenuto nel paese balcanico a partire dal 2010. Nel giugno di quell'anno venne fatta esplodere una bomba fuori dalla stazione di polizia di Bugojno, in Bosnia centrale. Un poliziotto, Tarik Ljubuškić, morì, e sei suoi colleghi rimasero feriti. L'anno dopo, a Sarajevo, Mevlid Jašarević aprì il fuoco con un kalashnikov contro l'Ambasciata degli Stati Uniti, ferendo un poliziotto. Infine l'anno scorso, il 27 aprile, Nerdin Ibrić ha assalito con un fucile automatico i militari della stazione di polizia di Zvornik, nella parte del paese a maggioranza serba, gridando “Allah Akbar” e uccidendo l'agente Dragan Đurić prima di venire ucciso a sua volta. Balcani, serbatorio di foreign fighters La tipologia degli attentati avvenuti in Bosnia è diversa dalle stragi perpetrate dall'autoproclamatosi “stato islamico” nelle grandi capitali europee. Ad essere colpiti sono obiettivi stranieri, oppure rappresentanti delle locali forze di sicurezza, militari o poliziotti. I civili non sono stati finora coinvolti, il che lascia presupporre una strategia diversa dei gruppi radicali nei Balcani. Sporadicamente, singoli individui escono allo scoperto. Il ruolo principale assegnato alla regione, però, sembrerebbe essere quello di base logistica, ad esempio per il trasferimento di uomini o armi, e di serbatoio di potenziali “foreign fighters”. Secondo il professor Vlado Azinović, docente all'Università di Sarajevo e recentemente co-autore, con Muhamed Jusić, della ricerca “Il richiamo della guerra in Siria: il contingente bosniaco dei combattenti stranieri”, sarebbero circa 250 i bosniaci che hanno lasciato il paese per andare a combattere nel Medio Oriente, tra il 2012 e la fine del 2015. Non si tratta di una cifra rilevante in termini assoluti, se comparata ad esempio a quella dei “foreign fighters” provenienti dalla Francia, dal Belgio, dal Regno Unito o dalla Germania. In termini relativi però, cioè riportati alla grandezza della popolazione (circa 3.800.000), non si tratta di un dato insignificante. Bosnia, dove è facile procurarsi armi La Bosnia Erzegovina, inoltre, ha alcune specificità, sotto il profilo del rischio terrorismo che la distinguono dalla maggior parte degli altri paesi europei. La prima è la frammentazione delle diverse forze e agenzie di sicurezza, nel contesto della complicata struttura istituzionale definita dagli accordi di Dayton. Uroš Pena, vice capo del Direttorato per il Coordinamento delle forze di polizia del paese, ha recentemente dichiarato ai media locali che “la condivisione delle informazioni è un grosso problema. Ogni agenzia si tiene strette le migliori informazioni di cui dispone [...] Non abbiamo neppure una chiara definizione delle giurisdizioni”. Il secondo elemento di rischio, per la Bosnia Erzegovina, è la relativa facilità con cui, a vent'anni dalla fine della guerra, è ancora facile procurarsi armi. Quando sono stati firmati gli accordi di pace, molti hanno preferito conservare le armi, ad ogni buon conto. Queste armi possono ora finire nelle mani sbagliate nei modi più diversi, vendute sul mercato nero anche solo per aggiustare temporaneamente il bilancio familiare. Il fatto invece che poco meno della metà della popolazione della Bosnia Erzegovina sia di fede, cultura o tradizione musulmana, l'aspetto in genere più sottolineato dai media europei che si sono occupati del fenomeno terrorista nel paese, non rappresenta di per sé un elemento di rischio. La comunità islamica locale (Islamska Zajdenica, IZ) ha sempre denunciato con forza il terrorismo e la violenza, invitando i propri fedeli a tenersi distanti dai gruppi radicali che cercano di sovvertire le regole su cui da secoli si fonda l'Islam in questa regione. Alle origini dei mujaheddini in Bosnia Questi gruppi, secondo il giornalista Esad Hećimović, autore di “Garibi - Mujaheddini in Bosnia Erzegovina tra il 1992 e il 1999”, hanno cominciato a manifestare la propria presenza nel paese a partire dal 1992, anno di inizio della guerra in Bosnia. Alcune centinaia di combattenti (un numero verisimile è quello di 800 combattenti, secondo Hećimović), provenienti da paesi arabi o dall'Afghanistan, si unirono alla brigata “El mujahid” dell'Armija BiH, Esercito della Bosnia Erzegovina, o a formazioni minori, combattendo dalla parte dei bosniaco musulmani. Dopo la guerra, la loro influenza continuò in modi diversi, attraverso il lavoro di predicatori, l'assistenza finanziaria o la creazione di un sistema alternativo di welfare. Oggi, venti anni dopo la fine della guerra, è difficile valutare la diffusione e influenza dei gruppi radicali. Data la conformazione del paese, si tratta di una presenza localizzata soprattutto in villaggi isolati, in zone montuose o rurali, dove questi gruppi conducono una sorta di vita sociale e religiosa parallela. Non tutti sono naturalmente legati alle reti del terrorismo internazionale, né tutti credono nell'uso della violenza per la lotta politica o religiosa. La comunità islamica ha però cercato recentemente di ricondurre le 64 comunità ribelli censite all'interno della propria giurisdizione. Il difficile percorso non ha però sortito grandi risultati. Al termine dei colloqui, solo 14, delle 38 che hanno partecipato al processo, hanno accettato di (ri)entrare a far parte della comunità ufficiale. Andrea Oskari Rossini nel corso degli anni '90 ha lavorato in diversi progetti di assistenza ai profughi dell'ex Jugoslavia in Italia e poi in programmi di cooperazione comunitaria e decentrata nei Balcani. Giornalista professionista e documentarista, lavora con Osservatorio Balcani e Caucaso dal 2002. Quest'articolo è frutto di una collaborazione editoriale tra l'Istituto Affari Internazionali e Osservatorio Balcani e Caucaso. |
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