sabato 25 maggio 2013
Cefalonia V Quello a cui nessuno voleva credere.
LA NOTTE FRA IL 9
E IL 10
Il radiogramma dell’armata
pose al gen. Gandin un duro dilemma: od ubbidire al Governo e disubbidire al
comandante dell’armata o , viceversa, ubbidire al comandante dell’armata e
disubbidire al Governo.
“Presso il comando – dice
il capitano Bronzini – il miraggio del rimpatrio, da qualunque parte venga, non
illude nessuno. Ognuno invece si preoccupa di quello che potrebbe accadere di
noi quando fossimo diventati disarmati”.
Gli ordini del Governo,
invero, non imponevano atti di ostilità contro l’ex alleato: ma solo la reazione
nel caso che questo fosse ricorso ad atti di violenza.
In pratica, questa formula,
malgrado ogni buona volontà, non poteva trovare attuazione:la denuncia stessa
dell’alleanza si tramutava, per forza irresistibile di cose, in aperta
ostilità.
Impadronirsi del presidio
tedesco di Cefalonia era certo impresa assai facile.
Ma che cosa sarebbe
avvenuto dopo?
Il gen. Gandin era il solo
nell’isola che potesse valutare in pieno il quadro della situazione generale ed
il rapporto fra le forze tedesche ed italiane sul continente greco.
E che tal rapporto fosse a
noi sfavorevole, ne era una riprova il radiogramma stesso del comando dell’11ª
armata.
In esso, anziché il grido
di riscossa o la direttiva sicura e conforme alla nuova situazione politica
italiana, affiorava il compromesso.
Un compromesso pietoso,
fondato sulla promessa tedesca (inattuabile, anche se sincera, per deficienza
di trasporti) del rimpatrio delle grandi unità italiane.
Il quadro, poi, della
situazione generale diceva crudamente questo:che gli anglo – americani non
potevano ormai avere alcun interesse a distrarre delle forze dalla direttrice
principale delle operazioni per portarle in Balcania; e che essi non avrebbero
certo sacrificato aliquote del loro tonnellaggio all’azione aerea tedesca nello
Jonio e nell’Egeo per ritirare le truppe italiane che in qualche isola greca
fossero riuscite a sopraffare i tedeschi.
I dati reali, in
conclusione erano solo questi: la madrepatria paralizzata; esclusa la
possibilità di aiuto da parte delle nostre forze dislocate sul continente
greco; esclusa la speranza di aiuto da parte degli anglo – americani.
Sicchè, una volta
sopraffatto il presidio tedesco, Cefalonia si sarebbe trovata isolata di fronte
alla reazione tedesca che non avrebbe tardato a manifestarsi.
Dice il capitano Bronzini:
”Abbiamo l’impressione che il comando di armata, dopo questo messaggio, non
abbia più niente da dire. In ognuno di noi vi è
il presentimento che d’ora in poi saremo lasciati per qualunque decisione
in balia di noi stessi”.
Tutti gli elementi di tale
situazione il gen. Gandin prospettò agli ufficiali dello stato maggiore della
divisione convocati nel suo ufficio.
Il capitano Bronzini,
presente, così commenta: ”Avvertiamo il dilemma che si agita nell’animo
generale. Cedere le armi significava mettere una grande unità in balia di
chiunque; andare contro i tedeschi significava mandare quasi sicuramente alla
morte undicimila italiani”.
La proposta fatta da alcuni
ufficiali (“sono pochi a pensare questo” – nota il capitano Bronzini) di
passare armi e bagagli ai tedeschi fu dal generale senz’altro respinta.
Il radiogramma dell’armata
non fu però subito comunicato ai reparti dipendenti: il gen. Gandin decise di
rimandarne la trasmissione ad ora che avrebbe lui stesso stabilita, nell’eventualità
che altri fatti potessero modificare la situazione.
L’ipotesi, affacciatasi
durante il rapporto, che il radiogramma potesse essere apocrifo, cioè compilato
dai tedeschi venuti in possesso, sul continente greco, dei nostri cifrari,
consigliò invece di respingerlo al comando dell’VIII corpo d’armata (per il cui
tramite era pervenuto) come “parzialmente indecifrabile”.
Continuava intanto, senza
interruzione e sempre invano, il lavoro delle radio inteso a riallacciare le
comunicazioni con l’Italia, col continente greco, con le altre isole.
( le note precedenti si trovano su www.unucispoleto.blogspot.com)
Cefalonia IV Il contesto in cui si sviluppò il dramma
LA SITUAZIONE
GENERALE
Nella prima decade di
settembre, gli anglo – americani avevano effettuato il passaggio dello stretto
di Messina ed iniziato le operazioni di sbarco sulla costa salernitana.
Questi due fatti
riconfermavano, dopo l’occupazione della Sicilia, che il loro indirizzo
operativo nel Mediterraneo si era decisamente orientato verso l’invasione
dell’Italia. Ossia era divenuto ormai
evidente che fra le due linee più dirette – Italia e Balcania – per l’assalto
alla cosiddetta “fortezza europea” gli anglo – americani avevano scelto la
prima.
In Grecia, all’8 settembre,
il contingente tedesco segnava una marcata superiorità di armamento nei
confronti del contingente italiano. Superiorità acuita dagli effetti del
reciproco schieramento: mentre infatti le forze tedesche si trovavano
concentrate in grosse masse di manovra di immediato impiego, le truppe italiane
erano disposte a cordone per la difesa costiera o frazionate in minuti presidi
per il controllo delle forze partigiane greche operanti nell’interno.
Insignificante o quasi era
infine il contingente d’aviazione italiano rispetto a quello tedesco, forte di
circa 350 apparecchi efficienti.
Il definitivo orientamento
operativo degli Alleati nel Mediterraneo aveva prodotto, in sostanza, due
effetti opposti: di vantaggio per i tedeschi, che si trovarono così liberati
dalla preoccupazione di grosse operazioni in Balcania; di svantaggio per gli
italiani che, nel mentre erano colpiti, con l’invasione della madrepatria, alla
fonte stessa della loro vita, non potevano ormai più far conto – ed a tempo
indeterminato – su aiuti da parte alleata.
Così stando le cose, era
dunque possibile da parte tedesca porre
meglio in opera la propria superiorità di armamento e di mobilità per
soverchiare il contingente italiano ed assumere – come era indispensabile nel
quadro della loro guerra – la padronanza esclusiva della penisola greca e delle
sue importanti appendici insulari
CEfalonia III L'Inizio del Dramma
L’INIZIO DEL
DRAMMA
Tutta la notte tra l’8 e il
9 le stazioni radio dell’isola tentarono invano, come s’è detto, il
collegamento col continente greco e con le altre isole Jonie.
Né il continuo ascolto
delle normali trasmissioni radio, nazionali ed estere, dette apprezzabili
risultati.
“Le stazioni italiane –
dice il capitano Bronzini – tacevano; e quelle straniere davano notizie tra
loro contraddittorie poiché ogni belligerante, naturalmente, prospettava la
situazione secondo i propri fini propagandistici. Nel complesso, dopo aver
ascoltato le trasmissioni dei vari paesi, si cadeva in una maggiore confusione di
idee”.
All’alba del giorno 9, la
propaganda greca, fino ad allora costretta ad agire di nascosto, operò
apertamente presso le nostre truppe.
Si distribuirono per le vie
di Argostoli manifestini in cui si proclamava che “Grecia e Italia, custodi di
civiltà millenaria, dovevano unirsi nella lotta contro la barbarie teutonica”.
A siffatte argomentazioni
generiche, se ne aggiunse però una assai più concreta ed acuta che trovò largo
credito nell’animo dei nostri soldati:bisogna cacciare i pochi tedeschi che sono
nell’isola; una volta cacciati i tedeschi, gli inglesi che ormai sono padroni
dell’Italia e del Mediterraneo, verranno a liberare noi ed a riportare voi, con
le loro navi, alle vostre case.
O che tale argomentazione
fosse esclusivo frutto della propaganda greca o della valutazione affrettata dei nostri soldati, o l’uno e
l’altro, il certo è che essa divenne in breve comune convinzione ed
incontenibile programma d’azione.
“L’idea della casa – dice
il capitano Bronzini – lusingava i nostri soldati, la più gran parte dei quali
da più di trenta mesi ne era lontana e moltissimi, in tutto questo periodo, non
erano stati in licenza una sola volta”.
Alle ore 7, una piccola
colonna tedesca si presentò al ponte di Argostoli per effettuare i quotidiani
prelevamenti di viveri: ma questa volta portava al seguito quattro pezzi da 75
anticarro. I soldati della batteria italiana che aveva il compito del controllo
del ponte si ritennero provocati dall’insolito seguito e, corsi ai pezzi,
avrebbero fatto fuoco se l’intervento immediato del comando artiglieria
divisionale non lo avesse impedito.
Cominciò poi a circolare un
interrogativo accompagnato da aspre critiche: perché non vengono ritirate
subito le nostre batterie che sono nel settore di Lixuri, in mezzo ai tedeschi?
Il nervosismo, il mattino
del 9, era già grande fra le truppe dell’isola: le più strambe notizie,
opinioni, supposizioni, qualora conformi al comune sentimento e desiderio,
trovavano assai più sostenitori che oppositori.
L’odio contro i tedeschi,
da lunga propaganda sopito ma non spento, dava forti segni, ora, di voler, in
un modo o nell’altro, esplodere.
Anche al comando della
“Acqui” c’era nervosismo, trattenuto dalla “consueta serenità” del comandante.
Stando all’ordine ricevuto,
il gen. Gandin non poteva considerare rotti i rapporti con i tedeschi. E
pertanto, nelle prime ore del mattino del 9, egli convocò presso di sé il ten.
col. Barge per comunicargli il telegramma del comando di armata e il relativo
atteggiamento che la divisione “Acqui” doveva sin d’allora assumere nei
riguardi dell’ex alleato.
Il comandante tedesco
rispose di nona aver ricevuto alcuna direttiva dal suo comando, ma che avrebbe
senz’altro collaborato col comando della “Acqui” perché non si manifestassero
dissidi fra militari tedeschi e italiani.
Appariva non turbato; quasi
rassegnato e convinto della nuova situazione.
Invitato a colazione dal
generale non oppose rifiuto ma addusse – com’era in effetti – che la sua
presenza, per quel brusco capovolgimento di situazione, era indispensabile fra
le sue truppe a Lixuri: chiedeva perciò di farsi rappresentare dal tenente
Fauth, di stanza, con la batteria, in Argostoli.
Il ten. Fauth, alle 13, si
presentò alla mensa della divisione.
“Finito il pasto, -
testimonia il capitano Bronzini – approfitta del brindisi per augurare
all’Italia, tanto provata da una guerra sfortunata, una sorte ed un avvenire
migliori e per dichiarare che, qualunque siano i rapporti che dovessero
stabilirsi fra i tedeschi e la “Acqui”, anche se si dovesse combattere, da parte
tedesca vi sarebbe stata sempre cavalleria e lealtà”.
A pomeriggio inoltrato del
9, la situazione nell’isola, e più specialmente in Argostoli, presentava in
germe già qualche segno del suo prossimo sviluppo.
Evidente da parte del
comandante della “Acqui” l’intenzione di
eseguire gli ordini ricevuti dall’armata.
Infatti il gen. Gandin non
ha ritirato le batterie italiane dislocate, fra le truppe tedesche, nel settore
Lixuri: atto che sarebbe stato ritenuto di sfiducia, ed in definitiva ostile,
dal comandante Barge.
Fra le truppe invece
trabocca – alimentato anche dal miraggio di un sollecito rimpatrio – il
sentimento antitedesco e la volontà di passare all’azione.
“Verso le ore 20 – scrive
il capitano Bronzini – ecco finalmente un lungo radiogramma cifrato del comando
dell’11ª armata. Il messaggio, a firma del gen. Vecchiarelli, dice che, in
seguito ad accordi intervenuti fra il comando dell’11ª armata e il comando
superiore tedesco, le divisioni dell’armata devono cedere ai germanici le
artiglierie e le armi pesanti della fanteria. E ciò perché i tedeschi si sono
impegnati a riportare in patria, entro breve tempo, tutti i militari italiani,
secondo modalità che verranno quanto prima indicate. Nel telegramma si diceva
che la consegna delle armi ai tedeschi doveva avvenire nel tempo e nel luogo
che sarebbe stato, dai tedeschi stessi, direttamente comunicato alle divisioni
interessate.
“Il messaggio – dice il
capitano Bronzini - destò nel comando di
divisione un doloroso stupore.”
“Come conciliare questo ordine
del comandante dell’armata con l’ordine del Governo di cessare le ostilità
contro gli Alleati – il che impone di non dare le armi a chi rimane ancora loro
nemico – e di reagire ad atti di violenza?”.
Con questo lucido e pesante
interrogativo ebbe inizio, la sera del 9 settembre, il dramma di Cefalonia.
domenica 12 maggio 2013
Il generale Gandin: Una figura controversa
Il generale di divisione
Antonio Gandin – nato ad Avezzano nel 1891 – aveva assunto il comando della
“Acqui” due mesi e mezzo prima dell’armistizio, a metà giugno 1943.
Allievo a Modena, nel 1908,
donde era uscito sottotenente di fanteria nel 1910, aveva perciò trentacinque
anni di servizio.
A Bu Meliana, nel 1911, fu
decorato della medaglia di bronzo per essersi lanciato vestito in mare per
salvare tre suoi soldati sul punto di annegare.
A Vermigliano del Carso,
nel 1915, ebbe un encomio solenne perché in zone fortemente battute prodigò
tutto se stesso nel compito di vettovagliare le truppe in linea.
A Nervosa, nel giugno 1918,
meritò la medaglia d’argento per le capacità direttive ed il coraggio
dimostrati fra le truppe nei fatti d’arme di quel periodo.
Frequentò la Scuola di
Guerra negli anni 1920 e 21 conseguendo l’idoneità al servizio di stato
maggiore e, poi, il definitivo passaggio nel Corpo di Stato Maggiore.
Col grado di tenente
colonnello e colonnello fu insegnante di storia militare presso la Scuola di
Guerra.
Tenne il comando, dal 1935
al ’37, del 40° fanteria.
Generale di brigata,
assunse, e tenne ininterrottamente fino al trasferimento alla “Acqui”, la
carica di capo del Reparto Operazioni presso il Comando Supremo.
Qui egli svolse un’attività
di grande rilievo, sul piano strategico – politico, nella collaborazione con
gli ex-alleati e nel coordinamento delle operazioni. Quasi tutti i contatti e
gli accordi diretti con i capi di governo e con gli stati maggiori furono a lui
affidati. Compì per tanto più di venti missioni per via aerea in Germania, in
Russia presso le truppe italiane colà operanti, ed in Egeo, Dalmazia ed Africa
ricognizioni operative varie.
Fu anche capo di un
temporaneo stato maggiore italo – tedesco istituito per la direzione delle
operazioni in Libia.
Per i servizi resi dal
giugno 1940 al settembre 1942, era stato insignito dell’Ordine Militare di
Savoia.
Contrassegni che però non
definiscono per intero la figura del gen. Gandin: la testimonianza concorde di
quanti lo hanno conosciuto, capi e gregari, lo designa, per vocazione ed
educazione, un soldato; per profondità di esperienza e solidità di
preparazione, capo umano e sicuro.
giovedì 9 maggio 2013
Cefalonia. l'8 Settembre ad Argostoli. Le truppe di Cefalonia
Le Trattative
(8 – 15 SETTEMBRE
1943)
La notizia si propagò
fulminea per le vie della piccola città suscitandovi frenetiche manifestazioni
di gioia.
“Si udirono a lungo – dice
padre Formato, cappellano militare del 33° artiglieria – colpi di fucile, di
mitragliatrici e di bombe a mano. Si videro soldati italiani fraternizzare e
cantare a braccetto con soldati
tedeschi. La gente si abbracciava per le vie. Le campane delle chiese, anche
quelle delle campagne, suonavano a distesa”.
Il primo a chiedere
conferma della notizia fu il comando Marina che si pose subito in contatto
telefonico col Comando Marina di Patrasso: ma il telefonista fece appena in
tempo a captare dall’altro capo della linea queste parole: “siamo sopraffatti
dai tedeschi”. Dopo di che la comunicazione si interruppe definitivamente.
Alle 19, il comando della
divisione “Acqui” apprese dalla radio italiana l’annunzio ufficiale
dell’armistizio.
Il generale comandante,
Antonio Gandin, ne dette comunicazione a tutti i comandi dipendenti ed ordinò
la consegna delle truppe negli alloggiamenti, la intensificazione della
vigilanza, il coprifuoco alle 20 per la popolazione, la perlustrazione notturna
per le vie di Argostoli.
“Gli ordini vennero
prontamente eseguiti; - dice il capitano Ermanno Bronzini del comando della
“Acqui” – io stesso percorsi in macchina le strade con un trombettiere del
comando, dal quale facevo suonare ad ogni angolo la ritirata. Ogni rumore
cessò. Dei greci non si vide più per le strade neppure l’ombra: si udiva solo
il passo cadenzato dei pattuglioni. I militari tedeschi di stanza ad Argostoli,
circa trecento, sparirono anch’essi dalla circolazione. Però del comando
tedesco – a cui il gen. Gandin aveva ordinato le stesse misure precauzionali –
nessuno si fece vivo presso il nostro comando”.
Alle 21 circa giunse al
comando della divisione “Acqui” un radiogramma del comando 11ª armata che fu
subito trasmesso a tutti i reparti dell’isola. Il dispaccio – secondo il
capitano Apollonio comandante della terza batteria del 33° artiglieria – così
diceva: “Seguito conclusione armistizio truppe italiane 11ª armata seguiranno
questa linea condotta. Se tedeschi non faranno
atti violenza truppe italiane non rivolgeranno armi contro di loro. Truppe italiane non
faranno causa comune con ribelli né con truppe anglo – americane che sbarcassero.
Reagiranno con la forza ad ogni violenza armata. Ognuno rimanga suo posto con
compiti attuali. Sia mantenuta con ogni mezzo disciplina esemplare. Comando
tedesco informato quanto precede. Siano immediatamente impartiti ordini cui
sopra a reparti dipendenti. Assicurare. Firmato gen. Vecchiarelli”.
In seguito a tale dispaccio
il gen. Gandin dispose che taluni reparti dislocati nelle vicinanze per la
difesa costiera, si trasferissero in Argostoli a protezione del comando truppe
e del palazzo degli affari civili.
Il movimento avvenne a
notte inoltrata e “dette l’impressione ad ufficiali e soldati – secondo quanto
riferisce il sottotenente medico Pietro Boni – che fosse in relazione ad un
previsto atteggiamento ostile da parte
delle truppe tedesche, sia quelle in Argostoli che quelle dislocate nella
penisola di Paliki”.
Il radiogramma del
comandante dell’11ª armata aveva frattanto imposto al comandante delle truppe
dell’isola nuovi e gravi orientamenti che esigevano più precise direttive.
Il comando della “Acqui”
ritentò perciò la comunicazione col comando dell’11ª armata dislocato sul
continente greco.
Vani riuscirono i tentativi
attraverso la linea telefonica, a cui si è già accennato.
Le stazioni radio del
comando divisione e del comando Marina, falliti i tentativi di comunicazione
diretta, tentarono il collegamento attraverso i comandi dell’VIII e del XXVI
corpo d’armata, anch’esso dislocati sul continente: ma nessuno rispose.
E del pari inutile riuscì il tentativo attraverso le isole di
Zante, di Santa Maura, di Corfù.
Il lavoro delle radio si
protrasse invano, con disperata insistenza, per tutta la notte.
Alle 23, giunse dal Governo
al comando Marina l’ordine radiotelegrafico che i “mas” e le altre unità navali
salpassero da Argostoli per un porto dell’Italia meridionale. L’ordine ebbe
esecuzione immediata. “In tal modo – commenta il capitano Bronzini – aumentò il
nostro isolamento col continente greco e con l’Italia. Unico mezzo marittimo
che ci rimase fu un motoscafo della Croce Rossa”.
L’8 settembre in Argostoli
finì in una calma apparentemente profonda.
Ma nei comandi militari,
negli alloggiamenti delle truppe, in ogni casa della popolazione greca, alla
intensa esplosione di giubilo provocato dall’inatteso evento, subentrò negli
animi – come tutti i testimoni concordemente affermano – un penoso senso di
perplessità, quasi un “presentimento collettivo di sciagura”.
LE TRUPPE DI
CEFALONIA
Presidiava l’isola la
divisione “Acqui” quasi al completo (un reggimento, il 18° fanteria, era
distaccato a Corfù) e costituita – oltre che dal comando della divisione,
tenuto dal generale Antonio Gandin ed un comando di fanteria divisionale tenuto
dal generale Luigi Gherzi – da due reggimenti di fanteria (il 17° e il 317°
rispettivamente comandati dal ten. col. Ernesto Cessari e dal col. Ezio Ricci,
entrambi in s.p.e.) e da un reggimento di artiglieria divisionale (il 33°,
comandato dal col. in s.p.e. Mario Romagnoli). Seguivano reparti vari del
genio, i servizi divisionali (tra cui tre ospedali da campo ed un nucleo
chirurgico), una compagnia di carabinieri ed una compagnia di guardie di
finanza.
Della divisione facevano
anche parte, a rinforzo, quattro gruppi di artiglieria, due sezioni di
mitragliere da 20, due compagnie mitraglieri.
Il Comando Marina Argostoli
– in dipendenza disciplinare dal comando della “Acqui” – era tenuto dal
capitano di fregata in s.p.e. Mastrangelo. Partiti la notte dell’8 i “mas” ed
altre unità similari, rimasero a Cefalonia gli elementi del comando, due
batterie ed i soli ufficiali della flottiglia dragamine.
Il totale delle truppe
italiane si aggirava sugli 11 mila uomini di truppa e 525 ufficiali.
Integrava il presidio
italiano un contingente di truppe tedesche giunto nell’isola fra il 5
e il 10 agosto e costituito da due battaglioni di fanteria da fortezza con
molte armi pesanti ed una batteria su otto pezzi semoventi da 75 ed uno da 105
al comando del tenente di artiglieria in s.p.e. Fauth.
La guarnigione tedesca
ammontava a circa duemila uomini fra cui 25 ufficiali ed era comandata dal ten.
col. di fanteria in s.p.e. Hans Barge.
L’isola era divisa, per la
difesa, in tre settori, dipendenti dal comando della “Acqui”, il quale
dipendeva, a sua volta, dal comando dell’VIII corpo d’armata e dal comando
dell’11ª armata.
Il Settore Nord era
assegnato al 317° fanteria rinforzato da due gruppi di artiglieria, più sei
batterie di vario calibro; più la batteria da 120 della Marina schierata a
Làrdigo, più la batteria semoventi tedesca in Argostoli. La sede del comando –
tenuto dal ten. col. Cessari – era a Keramiaes.
Il settore Lixuri era
assegnato alle truppe tedesche, rinforzate da artiglierie italiane, con sede
del comando – tenuto dal ten. col. Barge – a Liguri.
La sezione di sanità a
Frankata; due ospedali da campo ed il nucleo chirurgico ad Argostoli; la
sezione sussistenza a Valsamata.
Tali, in breve, le forze e
la dislocazione tattica del presidio di Cefalonia alla data dell’8 settembre.
Forze, relativamente,
notevoli, poiché fra le isole Jonie, (immediate avanstrutture difensive, per posizione
geografica, della parte sud – occidentale della penisola balcanica), l’isola di
Cefalonia, all’imbocco dei canali di Patrasso e Corinto, avrebbe certo assunto,
in caso di orientamento operativo degli Alleati verso la Grecia, una funzione
di primo piano quale “porta” sulla maggior via di penetrazione nel continente
greco.
Nell’isola esistevano pure
– secondo il capitano Bronzini – sufficienza di viveri per circa novanta giorni
ed una disponibilità di munizionamento per tre o quattro giorni, all’incirca,
di medio consumo.
Le condizioni materiali del
soldato a Cefalonia erano quelle comuni a tutte le truppe italiane in patria e
nei diversi teatri di operazioni. Ossia, nel più dei casi, al di sotto del
mediocre. Fra l’altro, per quanto riguarda Cefalonia: scarso il vestiario e più
specialmente le calzature; ridotto all’indispensabile il vitto, e tuttavia
quasi sempre insufficiente alle condizioni di vita di un soldato in guerra.
Sicchè, per queste e per
altre deficienza, il regime disciplinare, costretto a reggersi, pur nelle
contingenze ordinarie, su uno sproporzionato spirito di sacrifizio dei gregari,
non presentava – qui allo stesso modo che altrove – sintomi rassicuranti di
stabilità.
Il fante del 317° fanteria,
Dante Umbri, ci tiene però a porre in particolare rilievo il suo affetto e la
sua gratitudine per il sottotenente Mario Piscopo. Egli dice: “il tenente ci
offriva le sue sigarette, il suo pane e il suo vitto, e persino il suo
giaciglio. E questo è successo a me. Più che un ufficiale era una amico.
Durante le marce in montagna mi chiedeva: Umbri, se non ce la la fai a portare
lo zaino dallo a me. E posso dire che tante prove le ho sopportate per lui,
altrimenti non so neanche io che cosa avrei fatto”. Si chiede, infine
angosciato: “Sarà perito anche lui, nell’infame eccidio, il mio tenente?”.
Questa ed altre
testimonianze stanno a dimostrare che, malgrado tutto, il morale delle truppe
dell’isola alla vigilia dell’armistizio doveva essere buono: nessuno dei
superstiti, almeno, ha fatto finora dichiarazioni, a tal riguardo, contrarie.
Buone erano anche le
relazioni del nostro presidio con la popolazione greca del luogo. I soldati
della “Acqui”, molti da lungo tempo nell’isola, avevano intrecciato con essa
rapporti di viva e reciproca simpatia, appena contenuta dalle limitazioni
imposte dallo specifico rapporto politico. La prova migliore si ebbe la sera
dell’8 settembre quando, nel tripudio suscitato dall’annunzio dell’armistizio,
i civili greci circondavano per le vie i nostri ufficiali ed i nostri soldati
per implorarli a “non lasciarli soli con i tedeschi”.
Le truppe tedesche, come s’è detto, erano giunte da poco nell’isola.
“Erano state accolte – dice il capitano Bronzini – con grande cameratesca
cordialità da parte dei comandi italiani. Il comandante della divisione, in un
apposito ordine del giorno, aveva dato loro, con fervide parole, il benvenuto.
Né la cordialità dei rapporti fra il comando della divisione ed il comando
tedesco si era fermato alle sole parole;
ma venne di mano in mano esprimendosi attraverso fatti concreti, quali l’intima
collaborazione, i frequenti scambi di visite, l’assistenza alle truppe tedesche
largamente offerta dai nostri comandiNé risulta che nel mese di permanenza in comune sull’isola siano mai avvenuti incidenti fra le truppe dei due paesi.
Se però non ci furono
attriti, non ci furono neppure (tranne la sera dell’8 settembre. In cui,
probabilmente, i tedeschi cedettero che l’armistizio valesse anche per loro)
manifestazioni collettive od atti singoli di spontanea fraternità guerriera.
Tutto si ridusse – come
altrove – a dichiarazioni convenzionali, più specialmente fra comandi e
comandi, che però non trovavano rispondenza negli stadi medi ed inferiori, se
non in un reciproco cameratismo rispettoso sì ma controllato; e, in definitiva,
assai freddo.
Occorre infine ricordare
che la divisione “Acqui” era la erede diretta delle tradizioni “carsiche” della
brigata omonima (17° e 18° di fanteria); tradizioni che, come mostreranno gli
eventi di questi giorni, si erano mantenute vive anche nella più ampia
compagine divisionale.
Cefalonia. Una ricostruzione del 1945
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