venerdì 31 gennaio 2014
martedì 21 gennaio 2014
Un ennesimo groviglio
Telefonica sotto scacco del governo Marco Gestri 14/01/2014 |
Oltre ai problemi sollevati dalle autorità antitrust, in particolare da quella brasiliana, la scalata ha suscitato in Italia un dibattito sull’opportunità che il Governo eserciti i poteri speciali riconosciuti da una legge del 2012 riguardo a società e beni strategici. Ciò soprattutto perché l’acquisizione di Telecom Italia implicherebbe il controllo sulle reti e gli impianti di telecomunicazione, ritenuti beni essenziali per gli interessi nazionali.
Dallo scorso 28 novembre è in vigore un decreto del presidente del consiglio che ha modificato il regolamento, attuativo della legge sui golden powers, che definisce le attività strategiche per il sistema di difesa e sicurezza nazionale. La legge calibra diversamente i poteri speciali in riferimento a due distinti ambiti.
Golden powers
Riguardo alle attività strategiche per difesa e sicurezza (art. 1), il governo ha poteri d’intervento molto incisivi, anche nei confronti d‘investitori provenienti da stati dell’Unione europea (Ue). Si va dall’imposizione agli acquirenti di specifiche condizioni (relative alla sicurezza di approvvigionamenti e informazioni, ai trasferimenti tecnologici, alle esportazioni) fino all’opposizione all’acquisto.
Quanto all’ambito energia, trasporti e comunicazioni (art. 2) i poteri speciali risultano ridotti, a meno che non si tratti d’acquirenti extra-Ue.
La legge risulta d’infelice formulazione rispetto alla distinzione tra i due ambiti di intervento, oscillando tra il riferimento a settori, attività, beni. Ciò che conta non è tanto il settore economico in cui opera un’impresa quanto gli interessi essenziali che lo stato mira a proteggere.
La più precisa definizione dei due ambiti operativi veniva comunque demandata a regolamenti d’attuazione. Il regolamento per difesa e sicurezza adottato nel 2012 risulta centrato, secondo un’ottica per settori, sulle imprese operanti nel campo degli armamenti e in quello aero-spaziale.
La vicenda Telecom ha evidenziato i pericoli di tale scelta riduttiva che determinava l’impossibilità per l’esecutivo d’esercitare incisivi poteri d’intervento nonostante il prospettato passaggio in mani straniere della rete telefonica utilizzata per finalità di difesa e sicurezza dello stato.
Del resto, una mozione adottata dal Senato al momento dell’approvazione della legge aveva invitato il governo a proteggere la rete quale bene strategico per sicurezza e difesa. Si era poi colpevolmente tardato nell’adottare il regolamento per energia, trasporti e comunicazioni.
Ritocchi di governo
Il governo Letta ha cercato di rimediare predisponendo gli schemi dei regolamenti mancanti e soprattutto ritoccando il regolamento del 2012 così da includere tra le attività strategiche per difesa e sicurezza “le reti e gli impianti utilizzati per la fornitura dell’accesso agli utenti finali dei servizi rientranti negli obblighi del servizio universale e dei servizi a banda larga e ultralarga”.
La mossa, ai limiti di quanto consentito dalla farraginosa legge del 2012, mette sotto scacco Telefonica. A parte l’astratta possibilità d’opporsi all’acquisizione, l’esecutivo potrebbe imporre specifiche condizioni, ai fini di proteggere la sicurezza delle informazioni ma anche di garantire investimenti adeguati sulla rete.
Vi è il precedente Avio/GE, recentemente richiamato in relazione alla Telecom dal sottosegretario Baretta. Indubbiamente, il governo si trova in una posizione di maggior forza, anche per cercare di convincere Telefonica, come invocato dal segretario del Partito Democratico in un’intervista del 2 gennaio, allo scorporo della rete.
La partita però non è ancora chiusa. È trapelata dalla Commissione europea la notizia secondo la quale Telefonica starebbe monitorando attentamente la normativa italiana, alla luce delle norme sul mercato interno.
La distinzione tra ciò che è lecito o illecito nella materia risulta quanto mai opinabile, poggiando sull’interpretazione di una complessa giurisprudenza comunitaria. Certamente, una maggiore lungimiranza in sede di stesura della legge del 2012 e d’approvazione del primo regolamento attuativo avrebbe evitato l’adozione di una mossa che, seppur necessaria, potrebbe apparire dettata da un intento protezionistico.
Opzione Telco
Potrebbe aprirsi un secondo fronte per Telefonica. La vigente normativa sull’offerta pubblica di acquisto (Opa) ne condiziona l’obbligatorietà al superamento del 30% del capitale di una società quotata. Telefonica acquisirebbe il controllo di una società non quotata (Telco) che controlla Telecom senza superare la soglia del 30%. Dunque l’obbligo non scatterebbe.
Un ordine del giorno adottato dal Senato nell’ottobre 2013 ha però invitato il governo a modificare la legge sull’Opa aggiungendo una seconda soglia legata all'accertata situazione di controllo di fatto sulla società.
Una proposta in tal senso, presentata dal presidente della Commissione finanze del Senato come emendamento alla legge di stabilità, è stata peraltro accantonata. Il governo non prevede al momento alcun intervento in materia di Opa.
Anche in questo caso giocano un ruolo centrale i vincoli europei. La direttiva 2004/25 lascia agli stati la determinazione della soglia alla quale è legato l’obbligo di Opa. Dunque, l’introduzione delle modifiche proposte non risulterebbe necessariamente in contrasto con la direttiva, anche se la maggior parte degli stati membri è allineata al modello che definisce una soglia fissa al 30%.
Tuttavia, una modifica ad personam della normativa, sostanzialmente anche se non formalmente a effetto retroattivo, potrebbe suscitare ulteriori dubbi quanto all’esistenza di una volontà discriminatoria.
Marco Gestri è Professore di diritto internazionale nell’Università di Modena e Reggio Emilia e nella Johns Hopkins University, SAIS Europe.
domenica 12 gennaio 2014
Industria della Difesa: nuove prospettive
Industria della difesa Finmeccanica, il dado è tratto Michele Nones 08/11/2013 |
Su questa decisione si è discusso per un decennio senza risultati e nemmeno la sua ufficializzazione, nel 2011, aveva consentito di fare dei passi avanti in questa direzione. Va quindi dato atto al nuovo vertice aziendale di aver conseguito un primo risultato di grande importanza.
Focus necessario
Alla base di questa strategia vi sono poche semplici considerazioni sulla realtà di Finmeccanica. Questa è stata fino ad ora impegnata in troppi settori. In molti di questi non ha le dimensioni per competere sul mercato globale. In aggiunta, non ha le risorse umane e finanziarie per sostenere adeguatamente tutti questi settori. Infine, ha un livello eccessivo di indebitamento. Il ritardo della riorganizzazione non aiuta, così come non lo sta facendo la riduzione delle spese militari in alcuni suoi importanti mercati di riferimento, fra cui quello nazionale.
Di qui la necessità di una sua concentrazione e specializzazione nelle aree di eccellenza tecnologica dove da sola o in collaborazione con altri partner internazionali potrà continuare a rimanere un player a livello globale.
In questo quadro, è del tutto evidente che le attività puramente civili ed estranee, come energia e trasporti, non potevano continuare a essere presidiate. Nel secondo caso giocano poi negativamente le costanti e rilevanti perdite, nonostante i ripetuti tentativi di porvi rimedio attraverso numerose ristrutturazioni.
Condizionamenti
In questi termini la soluzione era facilmente individuabile, ma l’esperienza di Finmeccanica ha dimostrato quanto sia ancora forte il condizionamento politico e sociale, giocato, per altro, tutto in difesa di uno status quo e di un rinvio senza fine di ogni decisione. Un atteggiamento trasversalmente diffuso fra i nostri decisori politici che, nelle imprese partecipate dallo stato (in Finmeccanica il 30%), assume un potere di veto difficilissimo da rimuovere.
Nello scorso decennio né i governi di centro-destra, né quello di centro-sinistra si sono dimostrati dei saggi azionisti, cercando di tutelare l’interesse nazionale sul piano strategico ed evitando di intromettersi nelle scelte industriali del gruppo.
Hanno, invece, favorito la ricerca della tranquillità sociale, anche se pagata a caro prezzo: nessun licenziamento dei dirigenti incapaci o infedeli (spesso “protetti” a livello politico), né chiusura di impianti inefficienti (e, nei pochi casi avvenuti, tempi poco compatibili con un mercato internazionale sempre più ferocemente competitivo).
Nel contempo, sono pesate la volontà dei vertici aziendali di mantenere una grande dimensione finanziaria (anche se raggiunta a discapito del rafforzamento del core business) e di non contrariare l’azionista pubblico, anche tenendo conto dei risultati economici non certamente brillanti. Il livello di indipendenza è così sceso progressivamente impedendo di fatto, fino ad ora, ogni capacità di manovra.
Lenta agonia
Da qui dovrebbe partire anche una seria riflessione sull’opportunità che in Italia si arrivi al più presto a una completa privatizzazione delle imprese, lasciando allo stato solo i poteri speciali previsti, limitatamente ai settori strategici, dalla nuova normativa del 2012.
L’attenzione per i problemi sociali derivanti dalle ristrutturazioni industriali dovrebbe, infatti, portare a gestire questi processi di trasformazione attraverso l’accompagnamento al pensionamento, la riqualificazione del personale, ma, soprattutto, creando condizioni favorevoli all’avvio di nuove attività nelle aree interessate.
Limitarsi a resistere significa solo una lenta agonia in cui si salvaguardano in qualche modo quanti stanno all’interno a discapito di quanti restano all’esterno (compresi i sub-fornitori) e soprattutto dei giovani in cerca di lavoro.
Questo condizionamento è risultato evidente anche nel caso di Ansaldo Energia dove Finmeccanica ha dovuto pagare pegno accettando di rimanervi, seppure con una quota irrilevante (il 15%) ancora per tre anni.
Per altro la soluzione dell’intervento del Fondo strategico italiano della cassa depositi e prestiti è dichiaratamente interlocutoria perché la società genovese aveva ed ha bisogno non di un partner finanziario, ma di un partner industriale “di mestiere” che garantisca la capacità di investimento tecnologico e l’espansione sul mercato internazionale.
Terapia tardiva
Fin dall’inizio, d’altra parte, la questione è stata impostata male, attribuendo la proposta di cessione alla necessità di fare cassa di Finmeccanica e non, invece, alla sua impossibilità di far fronte ai nuovi investimenti e al supporto che la società genovese richiede per rimanere efficiente e competitiva.
Purtroppo questo si verificherà con molto ritardo, ma nel nostro paese il fattore “tempo” non sembra essere preso in seria considerazione. Così si rischia, però, che un’iniziale terapia, per quanto intensa e dolorosa, non consenta al paziente di riprendersi e, alla fine, si debbano adottare misure molto più traumatiche.
Dopo questa decisione, la presenza di Ansaldo Breda in Finmeccanica ha ancora meno senso perché è rimasta l’unica attività “estranea” e, quindi, la priorità è ora quella di trovare rapidamente un gruppo in grado di integrarla. La sua situazione è talmente compromessa sul piano tecnologico, industriale, commerciale e finanziario che sarà comunque necessario accompagnare ogni ipotesi di soluzione con una rilevante dote.
Solo avendo la certezza che anche questo problema sarà tempestivamente risolto, Finmeccanica potrà affrontare nuove sfide all’interno del suo core business in una logica sia di internazionalizzazione di alcune attività dove da sola non può essere un player, sia di espansione e rafforzamento in Italia e all’estero.
L’aver finalmente stabilizzato il vertice aziendale consente di compiere le scelte necessarie. Il problema non è e non può però rimanere confinato al piano industriale. È necessario che l’Italia definisca una sua strategia nazionale nel settore delle alte tecnologie, assicurando il necessario supporto per la fase di ricerca, sviluppo e industrializzazione a livello sia nazionale sia europeo, a partire dal rifinanziamento della legge 808 che, analogamente agli altri grandi paesi europei, ha consentito di far crescere la nostra industria.
È con questa base tecnologica e industriale nazionale, guidata da Finmeccanica, che anche il nostro paese può partecipare alla costruzione di una capacità europea nell’aerospazio, sicurezza e difesa.
Michele Nones è direttore dell'Area sicurezza e difesa dello IAI.
mercoledì 8 gennaio 2014
Cefalonia. La situazione al 13 settembre
Circa alle ore 6 del mattino del 13, apparvero sul mare
due grosse motozattere tedesche con a bordo truppa e cannoni di medio calibro.
Esse, doppiata punta San Teodoro, si dirigevano su Argostoli.
Dice il capitano Apollonio: «All’alba, dalla prima e
quinta batteria del 33° venivano avvistati all’altezza di san Teodoro due
pontoni da sbarco tedeschi. Essi si dirigevano verso il porto di Argostoli con
l’evidente intenzione di rinforzare il presidio tedesco dislocato in città. Fui
chiamato al telefono dal capitano Pampaloni e dal tenente Ambrosini. Dopo un
colloquio brevissimo e concitato, considerata la gravità del caso e riaffermata
la nostra ferma volontà di portare la lotta fino in fondo, prendemmo la
decisione di aprire il fuoco. Intanto gli artiglieri, di loro iniziativa, erano
balzati ai pezzi, li avevano caricati e puntati. L’animazione era
irrefrenabile. Gli ufficiali di batteria ed i capi pezzo, fuori di sé,
chiedevano di poter sparare.
«Dal centralino della mia batteria gridai: prima, terza,
quinta batteria fuoco! Simultaneamente, le tre batteria, tra grande commozione,
aprivano il fuoco. Il mio ordine era la sintesi di tre volontà. Forse la
sezione da 20 della Marina (quella che dal dragamine era stata trasportata nel
caposaldo Pampaloni) precedette di qualche attimo il mio ordine. Tutte le
mitragliere della Marina entrarono in azione.
«La 208° batteria della Marina, sotto il comando dei
comandanti Mastrangelo e Barone, iniziava pure il suo tiro. La Marina aveva
mantenuto la sua parola!
«I pontoni tedeschi iniziavano subito la reazione con le
loro mitragliere. Nel contempo i semoventi tedeschi di Argostoli iniziarono un
ntrito fuoco contro le nostre batterie».
«Alle sei e quindici – informa il capitano Pampaloni – il
primo ferito italiano bagnò col suo sangue la terra di Cefalonia. Egli era
l’artigliere Cruciali Gino che nonostante quattro ferite alle braccia ed alle
gambe rifiutava di abbandonare il pezzo. In seguito gli venne amputato
l’avambraccio destro».
«I pontoni tedeschi – continua l’Apollonio – duramente
colpiti cercavano di sottrarsi al fuoco riparandosi dietro San Teodoro, ma qui
vennero a cedere sotto il tiro di una batteria da 152 della Marina in
postazione a Minies. Ben presto uno dei pontoni veniva affondato mentre
l’altro, fortemente avariato con feriti e morti a bordo, innalzava bandiera
bianca. Il tiro però veniva proseguito contro il comando tedesco in Argostoli e
contro il magazzino tedesco a San Teodoro».
«In città intanto – dice il capitano Pampaloni – soldati
italiani e patrioti greci fecero prigionieri dei tedeschi, ne ferirono altri ed
uccisero un ufficiale.
«Il mare si scomparse di naufraghi tedeschi, morti e
feriti.
«Notai però che i fanti si erano mantenuti estranei».
«I tedeschi – dice P. Formato – si difesero con violenti
tiri dei semoventi di Argostoli e dei cannoni di Lixuri. Morti e feriti da una
parte e dall’altra. Ma le due motozattere tedesche, colpite in pieno, divennero
tombe per la numerosa truppa che trasportavano.
«Invano il comando di divisione diramò ordini perentori
perché si cessasse immediatamente il fuoco. Alcuni comandanti di artiglieria si
rifiutarono apertamente di obbedire. Talune sezioni di artiglieria si
spostarono di propria iniziativa da diversi punti dell’isola verso la città».
«La fanteria – commenta il capitano Apollonio – non era
intervenuta nella misura stabilita. Perché? Quando ne chiesi i motivi, mi fu
risposto che l’azione era cominciata così all’improvviso che non vi era stato
tempo e modo di predisporre l’attacco. In un secondo tempo, poi, anche essa
aveva ricevuto l’ordine dal comando della divisione di non muoversi».
Il fuoco d’artiglieria contro le motozattere tedesche
durò circa mezz’ora.
«Ad un certo punto però – dichiara l’Apollonio – mi
perveniva un ordine scritto, firmato dal gen. Gandin, di cessare il fuoco
perché i tedeschi avevano chiesto di riprendere le trattative su altre basi.
Avvertii allora le batterie che non appena i semoventi tedeschi avessero
taciuto, anche noi dovevamo fare altrettanto. Dopo pochi minuti, infatti, il
fuoco cessò da entrambe le parti».
Pare che la proposta al comandante della divisione di
riprendere le trattative su nuove basi sia stata avanzata, dietro ordine del
ten. col. Barge, da un capitano tedesco residente in Argostoli quale
rappresentante del suo comando.
«Appena cessate la cannonate – testimonia il capitano
Bronzini – ammara nel golfo di Argostoli un idrovolante tedesco. Porta
l’inviato del comando superiore germanico. Infatti poco dopo si presenta al
comando di divisione un colonnello tedesco (di cui ignoro il nome) seguito da
alcuni altri ufficiali e dal ten. col. Barge. E’ con loro anche un capitano
italiano d’aeronautica. Questi si presenta a noi ufficiali, che in quel momento
ci trovavamo dinanzi all’ufficio del generale, e tendendoci la mano disse:
stringo la mano ad amici od a nemici? Nostro stupore. Già, - continua il
capitano – in Grecia l’armata ha dato le armi ai tedeschi, il generale
Vecchierelli è d’accordo con loro. Tutta l’aeronautica è passata ai tedeschi.
C’è rimasta la «Acqui» a fare tante storie e, se continua così, finirà per
commettere una pazzia.
«Non facciamo in tempo a rispondergli perché entra con i
tedeschi nella stanza del generale.
«Le sue parole suscitano in noi una sgradevole
impressione: come può un ufficiale italiano chiamare «pazzia» il fermo
proposito di un’intera divisione di salvaguardare il proprio onore?».
Nella mattinata stessa, mentre il terzo battaglione della
317° fanteria arretrava, come sappiamo, da Kardakata ad Argostoli, il secondo
battaglione dello stesso reggimento si doveva trasferire – per ordine del
comando della divisione – da Frankata a Razata.
Il secondo
spostamento, conseguenza del primo, aveva lo scopo di ricostituire, col grosso
del 317° fanteria ed in zona più arretrata, il fronte del settore nord.
Il comandante del 317° fanteria, col. Ricci, aveva perciò
ordinato che le munizioni del secondo battaglione fossero approntate sulla
rotabile di Razata per essere trasportate dagli autocarri sulle nuove
posizioni.
«Allorché – dice il capitano Apollonio – giunse l’ordine
di trasportare sulla strada le munizioni, i soldati si ribellarono. Un sottotenente
comandante di un plotone mortai si mise
a capo dei rivoltosi invitandoli ad agire d’iniziativa perché era ormai
evidente che si trattava di un inganno e che le munizioni erano state là
trasportate per essere versate ai tedeschi. Due mitragliatrici venivano puntate
sugli autocarri che dovevano effettuare il trasporto. Un soldato, poi, sparava,
ferendolo leggermente, contro il comandante del battaglione, maggiore Fanucchi,
che tentava in motocicletta di raggiungere Argostoli per riferire dell’accaduto.
Intervenne infine il col. Ricci, il quale, fatto adunare il battaglione, esortò
i soldati alla calma promettendo che «mai si sarebbero cedute le armi ai
tedeschi» e poi, indicando la Bandiera e singhiozzando, gridò: «manteniamoci
almeno degni, nella sventura, delle nostre tradizioni!».
Solo a tarda sera il battaglione, convinto del vero scopo
del movimento dall’azione persuasiva degli ufficiali, potè trasferirsi a
Razata.
Durante la stessa notte giunse al gen. Gandin una
comunicazione del comando superiore tedesco nella quale si chiedevano i nomi
degli ufficiali italiani comandanti delle batterie che la mattina avevano
aperto il fuoco contro le motozattere.
Il gen. Gandin rispose con un seco rifiuto.
«Nel colloquio tra il gen. Gandin e l’inviato tedesco –
scrive il capitano Bronzini – non so con precisione che cosa sia stato detto.
Ma è certo ormai che i tedeschi vogliono le nostre armi, i nostri magazzini ed
in cambio non garantiscono nulla».
Dice il capitano Apollonio: «Seppi molto tempo dopo che
il colonnello tedesco avrebbe avuto l’incarico di invitare il gen. Gandin ad
abbandonare la divisione per recarsi in Italia ad assumere la carica di Capo di
S. M. della costituenda armata repubblicana. Ma in seguito al fatto d’arme del
mattino, il colonnello tedesco non avrebbe ritenuto più opportuno avanzare tale
proposta. Furono iniziate invece nuove trattative».
«Al comando divisione – scrive il capitano Pampaloni –
continuavano le trattative. Era giunto in aeroplano un rappresentante del
comando tedesco di Atene. I tedeschi sembravano intransigenti: ma ora sembrava
che il comando della divisione fosse deciso a non cedere».
«Verso le ore 12 – dice il capitano Bronzini – l’inviato
tedesco col suo seguito ripartirono in aereo per Atene.
«Il comandante
della divisione si riservava una risposta definitiva per le ore 12 del giorno
14».
«Nel tardo pomeriggio – riferisce l’Apollonio –
trapelavano delle indiscrezioni circa il tenore delle nuove trattative.
«La «Acqui» si sarebbe dovuta concentrare nella zona di
Samos, Digaletu, Porto Poros.
«Essa avrebbe mantenuto tutte le armi con la possibilità di portarsele in Italia nel caso
ci fosse stato sufficiente tonnellaggio. Era ovvio che la divisione sarebbe
stata trasportata nell’Italia occupata dai tedeschi. Le batterie della Marina e
della contraerea dovevano invece rimanere in posto.
«In un primo momento, i soldati, al solo sentire la
parola Italia, cedettero che fosse questa la soluzione ideale».
Siamo, così, al tardo pomeriggio del giorno 13. Il gen.
Gandin, ritenendo soddisfacenti le conclusioni raggiunte nelle trattative col
colonnello tedesco, diramò ai reparti dipendenti l’ordine di iniziare il
trasferimento per il concentramento nella zona Samos, Digaletu, Porto Poros.
Il capitano Bronzini non fa cenno a questo ordine.
Ma P. Formato così scrive: «Il risultato delle trattative
parve distendere un po’ i nervi di tutti.
«Infatti il comando di divisione comunicò ufficialmente a
tutti i reparti che si era raggiunto un pieno accordo, mediante il quale la
divisione avrebbe raggiunto quanto prima la Patria portando seco tutte le armi
sia pesanti che leggere.
«Si invitava quindi alla serenità e alla calma essendo
stato tutelato in pieno – diceva il comunicato – l’onore della divisione e
dell’esercito.
«Seguivano gli ordini di spostamento di tutti i reparti
verso la regione di Samos, dove si sarebbe raccolta la divisione in attesa
dell’imbarco».
Dice il capitano Pampaloni: «A sera tardi il colonnello
Romagnoli mi telefonò per avvertirmi, con mio stupore, che i tedeschi avevano accordato
di riunire tutti gli italiani in un’ampia zona nei pressi di Samos in attesa
dell’imbarco per l’Italia: ci sarebbero state lasciate tutte le armi. Il colonnello Romagnoli insistette per convincermi
che non potevamo pretendere di più dato che non tutti gli Italiani erano decisi
ad una azione energica.
«Infatti nella nottata stessa mi recai in autocarretta al
comando di reggimento, al comando di divisione, ai comandi di tre battaglioni
di fanteria, mi incontrai con molti ufficiali e mi resi conto che la
maggioranza accettava questa decisione.
«A malincuore, ritornato nel mio caposaldo, detti gli
ordini per preparare il trasferimento».
«Durante la notte però –continua P. Formato – tanto
presso il comando di divisione che presso tutti gli ambienti militari si venne
a sapere che il comando superiore tedesco si rifiutava, per il momento, di
caricare insieme con le truppe anche le armi pesanti, a causa, diceva, della
scarsezza dei mezzi navali da trasporto.
«Codeste armi, dunque, avrebbero dovuto essere depositate
a Samos, in attesa di poterle far proseguire appena possibile.
«Da parte di tutti si vide, in questo nuovo contrattempo,
unanimamente ritenuto un pretesto, l’inizio di un tranello e di un inganno.
«Frattanto durante la notte, erano giunti glia artiglieri
delle due batterie catturate dai tedeschi
nel settore di Lixuri. Sparsisi far la truppa
raccontarono ai compagni che, sebbene si fossero arresi senza combattere, una
volta disarmati, erano stati tenuti per mezza giornata al muro con le
mitragliatrici puntate contro, svillaneggiati e maltrattati, in tutti i modi,
anche alla presenza della popolazione locale.
«Queste ed altre notizie fecero divampare ovunque un
incontenibile odio che si esternava, in tutti, con feroci propositi di
vendetta.
«In conseguenza di ciò alcuni reparti cominciarono a
rifiutarsi di obbedire all’ordine di trasferimento.
«Molti comandanti telefonarono che le loro truppe
rifiutavano di muoversi in alcun modo e che anzi diventavano sempre più
minacciose».
«Verso sera – scrive il capitano Apollonio – il
turbamento fra ufficiali e soldati per l’ordine di movimento diveniva sempre
più manifesto. Si diffondeva fa i soldati la voce che il generale Gandin
volesse tradire. Da più parti accorrevano volontari che reclamavano di far
prigioniero il generale o addirittura ucciderlo.
«Senonchè, verso le ore 1,30 del 14 – continua il
capitano Apollonio – giungeva dal gen. Gherzi ai comandanti di battaglione del
17° fanteria un fonogramma urgentissimo con l’ordine di invitare i soldati ad
esprimere il proprio parere sui tre punti: contro i tedeschi, con i tedeschi,
cessione delle armi».
«Contemporaneamente – dice P. Formato – ufficiali,
espressamente a ciò incaricati dal gen. Gandin, fecero oralmente conoscere a
tutti i reparti che l’intenzione del generale era orientata verso un’azione
decisa contro i tedeschi».
Che cosa era avvenuto nel frattempo presso il comando
della «Acqui» per determinare un così brusco ed immediato cambiamento?
Dice il capitano Apollonio:«E ciò (ossia l’intenzione
tedesca di far lasciare a Samos le armi pesanti) doveva rispondere a verità
perché il generale, fidandosi orami poco delle assicurazioni fornitegli dal
comando germanico circa l’osservanza delle clausole dell’accordo, cominciò ad
orientarsi verso l’idea di un’azione decisa».
E P. Formato: «Il generale stesso, accortosi che le
clausole non sarebbero state mantenute, incominciò ad orientarsi verso l’idea
di un’azione decisa».
Senza dubbio, le riserve tedesche circa l’imbraco delle
armi pesanti avevano influito sull’animo del generale. Come pure avevano
influito le notizie dell’agitazione tra le truppe in seguito all’ordine di
concentramento nella zona di Samos.
Ma un riferimento più sicuro è dato dal capitano
Bronzini.
«Giungeva intanto – questi dice – la risposta del Comando
Supremo italiano al radiogramma inviato dal generale Gandin la notte tra l’11
ed il 12 attraverso il radioponte di Corfù. Era un cifrato a firma «generale
Francesco Rossi» che ordinava di resistere alle richieste tedesche confermava l’ordine governativo dell’8
settembre.
«La divisione della «Acqui» - prosegue il capitano
Bronzini – è ormai chiara: l’ordine del Comando Supremo elimina ogni dubbio. La
situazione generale appare evidente: nel continente l’11° armata si è lasciata
ingannare dai tedeschi ed ha ceduto alle loro richieste. Nelle Jonie, Santa
Maura e Zante sono nelle mani tedesche. Soltanto Cefalonia e Corfù ancora
resistono.
«La lotta è impari, ma l’onore militare non ammette che
una via: la lotta aperta e leale, come
disse il 9 il tenente Fauth; lotta fra soldati che obbediscono entrambi agli
ordini della patria».
Nella notte stessa – informa lo stesso capitano – il gen.
Gandin diramava il primo ordine inteso a fare assumere alle truppe uno
schieramento intonato alla nuova situazione.
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